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atto quinto | 267 |
Jach. Non ci verrò che troppo presto, a meno che tu non ami entrar prontamente ne’ tuoi dolori. — Quel Postumo, da nobile e generoso amante, possessore degli affetti d’una figlia di re, prese la parola; e senza disprezzare le beltà che noi avevamo esaltate, ne delineò col tuono dolce e sereno della virtù il ritratto della sua fanciulla. Quel nobile ritratto fatto da lui svergognava i panegirici che intessuti avevamo alle nostre femminette, e novizii ed ignoranti ci faceva apparire nell’arte di ben favellare.
Cimb. Ora finisci.
Jach. La castità di vostra figlia... qui incomincia la catastrofe... egli la celebrava, come se Diana medesima accanto a lei non fosse stata che un’impudica. Io, miserabile! non volli prestargli fede; e misi una somma di denaro contro questo anello, ch’egli aveva in dito, che sarei riuscito ad ottenere un posto nel suo talamo, e che l’anello mi avrebbe pagato l’adulterio della sua donna. Egli buon cavaliere, che dell’onore della sua sposa si teneva sicuro, accetta la proposta, e depone il diamante, che avrebbe egualmente arrischiato se fosse anche stato staccato dalle ruote del carro d’Apollo, ed avesse costato quanto il raggiante intero carro di quel Dio. Tosto io volo in Brettagna per condurre a fine il disegno; e potrete rammentare, signore, d’avermi veduto a questa corte, dove vostra figlia ha dato al mio ardimento una solenne lezione. Perduta la speranza, ma non già spento il desiderio, il mio cervello congegnò, sotto questa nebbiosa atmosfera, uno dei più vili e ad un tempo de’ più astuti strattagemmi. Per conchiudere, io venni a capo del mio intento; e tornai in Italia con tali mendaci prove, che valsero a mettere alla disperazione il nobile Leonato, e a fargli credere che, squarciato il casto cinto della sua sposa, avessi colto il frutto della mia vittoria. Allora... parmi di vederlo...
Post. (avanzandosi) Sì; tu realmente lo vedi, demone traditore!.. Ma io, oh troppo credulo insensato! oh vile omicida! io merito nomi più obbrobriosi di quanti mai furono scellerati sulla terra. — Ah! datemi un laccio, un veleno, un pugnale! Non è qui giustizia per farmi morire? E tu, sovrano, chiama il manigoldo più esperto; infliggimi le più crudeli torture. — Tu vedi in me un mostro, al cui paragone appare bellissima ogni cosa più rea: io sono il più colpevole degli uomini: sono quel Postumo che ti ha fatto uccidere la figlia! Ah! ella era il tempio della virtù: la virtù stessa! Copritemi d’obbrobrio; flagellatemi, seppellitemi nel fango; incitate per le vie i rabidi cani ad assalirmi; e il nome degli iniqui sia di qui innanzi quello di Leonato