Chi vuol fiabe, chi vuole?/Il nido dei draghi
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IL NIDO DEI DRAGHI
— I figli dei vecchi non riescono gran cosa! —
Non ostante questa specie di malaugurio, il Reuccio venne su bello, vispo, gagliardo.
A dodici anni, il Re gli diè un precettore che doveva istruirlo nei vari esercizi del corpo, e un altro che doveva insegnargli tutto quel che è necessario ad ornare la mente di un futuro sovrano.
Il Reuccio tirava di arco e balestra, cavalcava, ma ascoltava più volentieri gli insegnamenti dell’altro precettore. Gli piaceva di apprendere il nome di tutte le piante, di tutti i fiori, di tutti gli animali che vedeva nelle passeggiate pei giardini del palazzo reale; e mostrava grande interesse specialmente per gli uccelli di preda, per gli animali non ancora addomesticati.
Sentendo parlare di leoni, di tigri, di leopardi, domandava:
— Perchè non vengono allevati come i cani e i cavalli?
— Perchè divorano gli uomini.
— Anche quando sono piccoli?
— Ma non restano sempre piccoli. —
Non sapeva persuadersene, e pregava il Re:
— Maestà, dovreste regalarmi un leoncino!
— Che vorreste farne, Reuccio?
— Niente: lo alleverei. —
E un altro giorno:
— Maestà, dovreste regalarmi una tigrettina.
— Che vorreste farne, Reuccio?
— Niente: l’alleverei. —
Il Re rideva, e per non dargli un dispiacere, soggiungeva:
— Più tardi! Più tardi!... Quando non sarete più un ragazzo. —
E siccome le parole del Reuccio venivano riferite dai cortigiani per vantare la fierezza d’animo del figlio del Re, tra il popolo c’era chi brontolava:
— Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: già dimostra gusti feroci, se vuole tigri e leoni invece di cani e cavalli! —
A vent’anni il Reuccio era diventato appassionatissimo della caccia.
Non c’era scoscesa e boscosa montagna del regno dov’egli non andasse ad arrampicarsi assieme coi pochi compagni destinatigli dal Re. E non tirava mai agli uccelli ordinari, alle timide bestie che gli sbucavano davanti su per le balze della montagna e nel folto dei boschi. Orsi, cignali, avvoltoi, aquile, soltanto questi gli sembravano degni della sua attenzione, soltanto questi egli affrontava con un ardimento che non lo faceva badare ai pericoli a cui si esponeva.
Il Re viveva in angoscia finchè non lo vedeva ritornare sano e salvo, ma lo guardava con orgoglio ogni volta che il Reuccio gli presentava orsi e cignali abbattuti dagli infallibili suoi colpi di balestra.
Il Re non aveva voluto mai permettergli che andasse a cacciare in una montagna lontana, circondata di fittissimi boschi pieni di animali feroci.
Ormai le cacce in luoghi noti non lo allettavano come prima.
— Maestà, lasciatemi andare laggiù laggiù! —
Il Re non si piegava. E il Reuccio si raccomandava inutilmente anche alla Regina sua madre. Rinunciò allora al prediletto svago, divenne triste, uscì raramente dalle sue stanze.
Più il Re e la Regina gli rammentavano le disgrazie accadute ad altri cacciatori in quella remota montagna — molti erano andati e non erano ritornati — e più si accendeva nell’animo del Reuccio il desiderio di cimentarsi su per quelle balze, tra quegli orridi boschi. La sua tristezza aumentava di giorno in giorno, la sua salute ne soffriva.
— Dobbiamo vedercelo morire di malinconia? — disse la Regina.
Il Re resistette ancora un po’. Vedendo però che il Reuccio deperiva e non intendeva ragione, fisso in quel suo pensiero di andare a caccia laggiù laggiù, s’indusse ad accordare, suo malgrado, il permesso richiesto.
Il Reuccio parve risanato in un istante, e si preparò sùbito alla partenza. Se non che il Re volle che fosse accompagnato da più numerosa scorta.
E il giorno in cui egli e i suoi compagni uscivano dal palazzo reale, i soliti brontoloni ripetevano:
— Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: già dimostra gusti più feroci, andando a caccia in quella montagna e tra quei boschi! Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire sul trono! —
Per arrivare alla montagna ci vollero otto giorni di cammino. Procedendo, di mano in mano che le balze si presentavano più orride e le boscaglie più fitte, l’ardore del Reuccio si accresceva. I suoi compagni si stancavano, si riposavano; ma egli li rampognava e si slanciava a un nuovo assalto di quelle rupi, si apriva nuovi sbocchi tra gli intricati rami degli alberi.
Intanto, nessun animale feroce·Pareva che, atterriti dalla insolita presenza di tanta gente, fossero scappati tutti a rifugiarsi nelle cime più irte, tra le boscaglie più fitte.
Una mattina erano arrivati in un punto dove le rocce si alzavano torno torno a così grande altezza, da non permettere che si andasse più oltre. La cinta dei boschi si arrestava a piè di essa. Il Reuccio si era seduto sur un masso, e guardava da ogni lato per scoprire un passaggio. Si vedevano soltanto rocce lisce, a picco, e un lembo di cielo azzurro, limpidissimo, circoscritto dalle aguzze cime dorate dal sole.
S’intese un gran sibilo e poi uno strepito di ali.
Tutti alzarono gli occhi; un mostro orrendo veniva giù. Aveva un corpo da serpente ed ali da pipistrello, grandi come vele.
Il Reuccio si affrettò a tender l’arco, e lanciò una freccia che andò a conficcarsi proprio nel petto del mostro. Diè un sibilo più forte, pauroso, agitò le ali che si afflosciarono sùbito, e il mostro precipitò giù con grave rumore. Annodava e snodava la coda aguzza, rizzava il collo, e dalla bocca, tra due file di denti, vibrava la lingua che sembrava una spada.
Il Reuccio e i compagni gli tirarono altre frecce alla testa e al fianchi, e non si accostarono se prima non lo videro giacere inerte, tra una gran pozza di sangue nerastro.
Era un drago!
Mentre essi stavano a osservarlo, ecco un altro sibilo meno acuto e uno strepito di ali meno forte.
Alzarono gli occhi, e compresero che doveva essere la draghessa, quest’altro mostro uguale al primo, ma di dimensioni assai minori.
Il Reuccio tese celermente l’arco e lanciò la freccia, che colpì la draghessa alla testa e la fece cascar giù morta sul corpo del suo compagno.
— Oh, qui ci dev’essere il nido. —
E non aveva il Reuccio ancora finito di pronunziare queste parole, che dallo spacco d’una roccia si affacciavano quattro piccole teste di draghi con le bocche spalancate e le linguette vibranti.
Erano nati il giorno innanzi, perchè sembrava che i sottili colli reggessero male il peso delle teste, e gli occhi non erano ancora aperti.
— Dobbiamo prenderli vivi! Dobbiamo prenderli vivi! —
Il Reuccio, in preda a immensa gioia, tendeva le braccia, agitava le mani, quasi potesse giungere a quell’altezza Il Reuccio si affrettò a tender l’arco, e lanciò una freccia che andò a conficcarsi proprio nel petto del mostro. (pag. 335) sollevandosi su la punta dei piedi. E ripeteva rivolto al compagni:
— Dobbiamo prenderli vivi! Dobbiamo prenderli vivi! —
Come fare? Si diedero ad abbattere con le accette rami di alberi, li legarono in modo da costruire una rozza ma solida scala; e, quando fu pronta, il Reuccio vi montò su e prese a uno a uno i draghettini. Erano quattro, molli, quasi viscidi, con sul dorso un accenno di ali simili a pinne di pesce, poco più grossi di un grosso ramarro. E rizzavano le teste e spalancavano le bocche, affamati.
Il Reuccio disse:
— Il drago e la draghessa certamente recavano da mangiare ai piccini. —
Infatti, aperto il gozzo di essi, vi trovarono il cibo, e il Reuccio ingozzò pazientemente i draghetti, finchè non riapersero più le bocche. Da lì a poco, piegavano le teste, si acchiocciolavano, ed erano belli e addormentati.
Il Reuccio stimò inutile di prolungare più la caccia. Lasciarono là a imputridire il drago e la draghessa, e coi draghetti situati in fondo a una cesta sopra un letto di foglie secche, egli e i compagni presero la via del ritorno.
Quando si seppe che il Reuccio aveva riportato quattro piccoli draghi e che intendeva di allevarli e addomesticarli, i soliti brontoloni ripresero:
— Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: ora, con questi draghi chi sa quante disgrazie accadranno! Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire al trono! —
Invece il Reuccio pensava che certi animali sono feroci perchè nessuno si è mai incaricato di renderli domestici e miti. E voleva provare coi draghi.
Stava occupato da mattina a sera a ingozzarli, ad accarezzarli stropicciandoli leggermente con le mani, e osservava che essi godevano del tepore che quel lieve stropicciamento lor produceva.
Lo riconoscevano già; rizzavano le teste, agitavano le code, vedendolo avvicinare. Gli si arrampicavano addosso con le zampine ugnate, gli lambivano le mani con le linguette, lunghe e sottili, e smovevano le ali che cominciavano a distendersi cartilaginose, a spicchi come quelle dei pipistrelli.
Ormai mangiavano da sè, divorando golosamente, e il Reuccio se li faceva venir dietro per la stanza, imitando il loro sibilo, attirandoli con un po’ di cibo.
Fin a tanto ch’essi erano piccoli, il Re non stava in pensiero pel Reuccio; ma ora che avevano già messe le ali e si provavano a volare, il Re si atterriva vedendolo entrare nello stanzone dove stavano chiusi, perchè vi si potessero muovere a tutt’agio. E lo ammoniva:
— Badate, Reuccio! Non vorrei che un giorno o l’altro... —
Il Reuccio sorrideva, e per mostrargli che i quattro draghi gli s’erano affezionati come cagnolini, apriva l’uscio e se li traeva appresso pei corridoi del palazzo reale; li tastava, li accarezzava, li faceva star ritti sulle zampe di dietro, col collo proteso in avanti, con le ali che sbattevano e facevano un rumore simile a quello di piccole vele smosse da forti soffi di vento.
Erano belli nel loro orrido, con quei corpi di serpenti alati, con quel collo pieno di rughe simile a collo di tartaruga, e le creste rosse che già spuntavano nella parte superiore delle teste, più appariscente nei due maschi, meno pronunciate e meno vivide nelle due femmine.
Un giorno, però, che il Reuccio ebbe il capriccio di condurseli dietro per le vie, legati con catenelle di acciaio raccomandate a dei collari di ferro battuto, fu un fuggi fuggi della gente spaventata dall’aspetto di quei mostri non mai visti.
— I draghi! I draghi! —
Era un chiuder di usci e d’imposte; un gridare, un piangere, quasi i draghi avessero cominciato a divorare qualcuno.
Essi, intanto, camminavano tranquillamente, scherzando tra loro con le code, con le teste, accostandosi spesso al Reuccio per leccargli la mano, elevandosi a brevi voli, a fior di terra.
E fu peggio la mattina che fu visto uscire il Reuccio a cavallo di uno dei draghi ben bardato, guidato con lunga briglia, e che appena fuori del portone spiegò le ali e si elevò altissimo, obbediente al richiamo della briglia, come il più docile dei cavalli.
Anche il Re e la Regina lo guardavano atterriti da un balcone del palazzo reale, e dovettero fare uno sforzo per non ritirarsi, quando il Reuccio fece abbassare il volo del drago e lo diresse proprio verso di loro e fermossi a discorrere mentre il drago si librava su le ali e si teneva quasi fermo per aria, inarcando il collo rugoso, proprio come il più superbo cavallo delle stalle reali.
E fatta la prima prova con uno, la ripeteva nei giorni appresso con gli altri tre.
Ora la gente gridava, sì, da ogni parte: — Il drago! Il drago! — ma era rassicurata, e godeva di vederlo aliare da un punto all’altro, col Reuccio a cavallo, che lo guidava a suo talento, e saliva e scendeva e risaliva fino a perdersi tra le nuvole a grande altezza.
I brontoloni però non si davano ancora per vinti:
— Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete, con questi draghi, che disgrazie accadranno. Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire ai trono! —
Un giorno il Re chiamò il Reuccio nella sala del Consiglio. I ministri eran seduti gravemente attorno a lui.
— Reuccio, — gli disse — è tempo di finirla coi capricci. Io sono vecchio, e posso morire da un giorno all’altro. Voglio lasciare ben ordinate le cose del Regno e della mia famiglia. Ho deciso di darvi moglie. Scegliete voi stesso tra le principesse più in vista.
— Non ne conosco nessuna. Sarà degna della mia mano colei che, per dimostrarmi il suo affetto, avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. —
Il Re voleva troppo bene a quel figlio unico; si strinse nelle spalle, e accettò questa condizione.
Ambasciatori partirono per diverse Corti, dove erano principesse da marito.
— Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. — Che cosa risponde la Principessa.?
— Che il Reuccio è matto da legare. —
Gli ambasciatori si aspettavano questa risposta; e, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un’altra Corte.
Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. — Che cosa risponde la Principessa?
— Che il Reuccio è peggio che matto da legare. —
Gli ambasciatori, dopo questa seconda, non si aspettavano risposte diverse: ma, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un’altra Corte.
Con loro grande meraviglia, la Principessa interrogata rispose francamente:
— Dite al Reuccio che accetto! —
Lieti di aver potuto compiere la loro missione, gli ambasciatori tornarono dal Re.
— La Principessa di Spagna ha risposto: Dite al Reuccio che accetto. —
Il Reuccio aveva fatto costruire un’apposita stalla pei draghi, e passava lunghe ore con essi, che intendevano già ogni inflessione della parola di lui, e lo obbedivano mirabilmente. E quando egli, molto contento della risposta della Principessa, quasi sicuro o, almeno, desiderando di esser compreso, andò nella stalla ad annunziare: — Uno di voi avrà l’onore di portare sul dorso la Reginotta — parve che essi avessero inteso davvero, e proruppero in sibili acuti, girando le teste, vibrando le lingue, agitando le code.
La Corte era in gran tramenìo pei preparativi delle nozze.
Il vecchio Re e la Regina, che aveva pochi anni meno di lui, sembravano ringiovaniti.
Il Reuccio ordinava nuove magnifiche bardature, con stoffe tramate d’oro, con galloni di oro e borchie di diamanti. Di oro era pure il freno delle briglie, e queste tutte trapunte di vere pietre preziose.
Il giorno che li provò addosso ai draghi, essi parvero orgogliosi di vedersi ornati a quel modo, e sibilavano, e rizzavano le teste, e vibravano le lingue, e agitavano le code in più espressiva maniera.
Anche questa volta non mancarono i soliti brontoloni di malaugurio:
— Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete quel che accadrà con questi draghi maledetti! E avverrà anche peggio, quando costui salirà sul trono! —
Nella Corte della Principessa c’era un’ansiosa aspettativa, che nel popolo assumeva forza di terrore al solo pensare che il Reuccio avrebbe condotto due draghi, invece di carrozze e cavalli, e che Reginotta e Reuccio dovevano partire a cavallo di essi.
— Ma sono bell’e addomesticati! — dicevano alcuni.
— Con certe bestie non si sa mai! —
Il Re di Spagna volle interrogare novamente la figlia.
— Siete proprio decisa, Principessa?
—— Proprio decisa!
— Ma voi non avete mai visto draghi; sono mostri orrendi.
— Li ho visti dipinti e non mi hanno fatto paura. —
Il Re era stupito di tanto coraggio; pure insisteva:
— Se vi figurate, Principessa, di non trovare altro marito...
— O il Reuccio dei draghi, o più nessuno, Maestà.
— Che il Cielo vi aiuti, figliola mia! —
Disse così; ma in fondo al cuore aveva un triste presentimento.
Il giorno dell’arrivo del Reuccio poche persone si avventurarono nelle vie. La gente se ne stava rimpiattata in casa, dietro le imposte e dietro gli usci aperti a fessolino per poter assistere allo spettacolo senza incorrere in qualche disastro.
Appena però s’intesero da lontano i sibili acuti dei draghi e si avvicinò il rumore delle loro ali da pipistrello larghe come vele, nessuno potè frenarsi di affacciare la testa e poi di protendersi dal davanzali; la curiosità aveva potuto più della paura.
I draghi arrivavano maestosamente, con lento volo. Il Reuccio che cavalcava su uno di essi, si traeva dietro per la briglia l’altro destinato alla Principessa.
Alla vista di quei mostri, ella impallidì un po’ e si senti correre un lieve brivido da capo a piedi, ma si rinfrancò subito.
Il Reuccio diresse il volo dei draghi verso la terrazza dov’era raccolta la famiglia reale.
— Ben arrivato, Reuccio!
— Ben trovata, Reginotta!
— Ben arrivato, Reuccio!
— Ben trovata, Maestà! —
Il Reuccio scese davanti al portone del palazzo reale, introdusse egli stesso i draghi nell’ampia stalla preparata per essi; li legò con catene alla mangiatoia e chiuse a chiave, per cautela, la porta.
Il giorno dopo si celebrarono le nozze.
Il Reuccio aveva notato un’insolita irrequietezza nei draghi; ma non se ne era dato pensiero; il lungo viaggio fatto e il nuovo locale della stalla gli parvero sufficiente spiegazione.
Arrivati il giorno e l’ora della partenza, il Reuccio andò a trarre di stalla i draghi, magnificamente bardati e imbrigliati.
Abbracci, baci, saluti; la Reginotta non sapeva staccarsi dal padre. Il Reuccio dovè farle dolce violenza. E tra gli applausi della folla e i gridi di augurio, egli aiutò a montare sul drago la Reginotta e le mise in mano la briglia, poi montò lui e diè agli animali impazienti il cenno della partenza.
Distesero le ali, si elevarono lentamente, poi presero un largo volo, e sparvero dagli sguardi di tutti.
Arrivarono, dopo alcuni giorni, quelli del sèguito del Reuccio, ed egli e la Reginotta, che avrebbero dovuto giungere molto prima, non si vedevano ancora.
Il Re, la Regina, i Ministri spiavano il cielo dall’alto di una terrazza; ed ogni ora, ogni istante che passavano, li riempivano di ansia e di spavento.
Alla Corte di Spagna attendevano, con uguale ansietà, notizie dell’arrivo degli sposi. Avrebbero dovuto ricevere staffette da correre a spron battuto, e non ne arrivava nessuna! Distesero le ali, si elevarono lentamente, poi presero un largo volo, e sparvero dagli sguardi di tutti. (pag. 350)
Che cosa era dunque accaduto?
Era accaduto che, dopo un lungo tratto di volo, i due draghi avevano cominciato a non più obbedire al freno della briglia. Il drago della Reginotta voltava indietro la testa quasi a fiutarla, e il drago del Reuccio, girando attorno all’altro, stendendo anch’esso la testa quasi a fiutare la Reginotta. L’odore di quelle carni fresche, non mai sentito da loro, aveva risvegliato tutt’a un tratto in essi l’istinto tenuto in freno e sopito dall’addomesticamento fatto dal Reuccio, ma non distrutto.
I draghi finalmente si fermarono, non vollero più andare avanti nè indietro. Si libravano su le ali e stendevano la testa con la bocca spalancata vibrando le lingue che parevano di fuoco, tentando di addentare la Reginotta e di farne due bocconi.
Ella non capiva il pericolo, ma il Reuccio ne fu spaventato.
Afferrò disperatamente le redini, e con rapido moto le attorse attorno al collo del suo drago e strinse forte forte, per soffocarlo. Il drago diè due trabalzi per buttar giù di sella il Reuccio, poi barcollò, piegò a metà le ali e cominciò rapidamente a scender giù, tramortito. L’altro seguì il compagno; ma il Reuccio, colto il momento, slanciossi a cavalcioni su lui, afferrò le redini e gliene attorse al collo come all’altro, e strinse forte forte. Il mostro diè due, tre balzi, barcollò, piegò a metà le ali e segni più rapidamente nella discesa, tramortito, il compagno.
Appena toccata terra, Reuccio e Reginotta saltaron giù di sella. I due draghi, soffocati, davano gli ultimi tratti.
Per la campagna dove erano discesi non si vedeva anima viva. Stoppie, stoppie, stoppie, a perdita di vista e qualche albero qua e là. In fondo, una casetta di contadini; ma bisognava far molta strada per arrivarvi.
Dopo quattro giorni di cammino a piedi, Reuccio e Reginotta non si riconoscevano più dagli stenti e dalla fatica. Finalmente s’imbatterono in un carro guidato da un contadino.
— Se ci porti fino al palazzo reale, farai la tua fortuna!
— E voi chi siete?
— Siamo il Reuccio e la Reginotta.
— Il Reuccio e la Reginotta sono morti. Il Re e la Regina hanno già preso il lutto. A chi volete darla a intendere? Vi porto per carità, perchè siete due poveri diavoli affamati e stanchi. Su, montate. —
Giunti alla porta della città, il contadino voleva che scendessero.
— Accompagnaci fino a casa nostra e sarai ricompensato. —
Il contadino disse:
— Ho fatto novantanove; facciamo cento! —
E tirò avanti.
Il portone del palazzo reale era chiuso per lutto.
Quando il contadino capì che quei due poveri diavoli affamati e stanchi, come li aveva chiamati, erano davvero il Reuccio e la Reginotta, cominciò a tremare dalla paura di averli offesi. E per ingraziarseli si diè a picchiare forte, gridando:
— Aprite, aprite!... Il Reuccio! ... La Reginotta! —
Le guardie lo presero per ubriaco o per pazzo, e volevano arrestarlo.
Quel che accadde nella Corte tra Re, Regina, Reuccio e Reginotta, immaginatelo voi.
Il Reuccio raccontò del gran pericolo corso, e la morte dei due draghi.
— E i due rimasti qui? —
Nessuno aveva voluto cimentarsi a governarli, ed erano morti di fame nella stalla. Si sentiva il puzzo delle loro carogne.
Da allora in poi il Reuccio non tentò più di addomesticare animali feroci, convinto che presto o tardi l’istinto riappare.
E poi — gli disse un giorno il padre — quando io non ci sarò più, avrai ben altro animale feroce da ammansire! —
E indicava la folla che sotto il palazzo reale gridava a squarciagola, battendo le mani:
— Viva il Reuccio! Viva la Reginotta! —
Fiaba detta, fiaba scritta,
Ora va storta, ora va diritta.