Canto IV

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Canto III Canto V
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CANTO QUARTO


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Curvasi appiè del dirocciato colle
     Sopra il mare interposto un ligneo ponte,
     Che lo congiunge a certe umide zolle
     Che s’ingorano intorno a un grigio monte;
     Quanto quelle son basse e il seno han molle
     Tanto erto è questo ed aspra erge la fronte,
     Sopra a cui grava in neghittoso inverno
     Con ale flosce uno scirocco eterno.

Quivi, benchè da tante isole infranta,
     La torbid’acqua s’impaluda e stagna,
     Sì che di pozze impure è tutta quanta
     Attossicata l’orrida campagna;
     Di tra la nebbia, ch’ogni cosa ammanta,
     La tribù delle rane alto si lagna,
     Mentre un grave sentor le nari assale
     Di vecchia muffa e di corrotto sale.
     

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Un’ibrida, deforme, anfibia razza
     Quivi superba in sua tristizia alligna,
     Ed or tra ’1 fango placida gavazza,
     Or tra gli sterpi armeggia acre ed arcigna;
     Solo chi con più voce urla e schiamazza
     E l'anima ha più sozza e più maligna
     In grande opinion tra’l vulgo viene,
     E lode e regno in su’ men tristi ottiene.

Vedi? allor disse Edea, tra questo lezzo
     I gazzettieri venderecci han regno,
     Mostri d’odio non già, ma di disprezzo
     Anzi neppur di sprezzo oggetto degno:
     Mirali; e se la nausea ed il ribrezzo
     Al veder non ti fa troppo ritegno.
     Osserva come tutti in varie forme
     Hanno per capo una vescica enorme.

Ma poi che qui la nebbia è così densa,
     Ch’oltre al naso ciascun vede a fatica,
     Vien dalla turba credula e melensa
     Presa per una stella ogni vescica:
     Nella sua vacua leggerezza immensa
     Nuota ognuna sul fango, e par che dica:
     All’infelice umanità smarrita
     Io son la via, la verità, la vita!

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Un’aura crassa entro siffatta invoglia
     Fa le veci di spirito e di mente,
     E se la preme una maligna voglia,
     Fragorosa prorompe e puzzolente;
     Il cor, se n’ebber mai, l’han nella coglia,
     E nel suo loco annidasi un serpente;
     Ogn’altro membro del corpaccio osceno
     È un intruglio di sterco e di veleno.

Gracchia ognun dal suo guazzo: Onore, Fede,
     Giustizia, Libertà, Patria, Ideale;
     E il vulgo ingenuo, ch’armeggiar li vede
     E la penna brandir come un pugnale,
     Apostoli, campioni, eroi li crede,
     Arche d’ogni virtù teologale;
     Ne ammira i lazzi, l’animo, lo stile,
     E divien come lor perfido e vile.

E dico lazzi, perocchè costoro
     Che di malizia vivono e di frode,
     E non credono a nulla altro che all’oro,
     Mercanteggiando il biasimo e la lode,
     Per meglio attrarre in fra le reti loro
     La turba che più dà quanto più gode,
     Fanno i giullari, e velan di facezie
     Le lor venali e velenose inezie.

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Se conoscere or vuoi qualcun che intorno
     Leva di sè più rumoroso il grido,
     Vedi, se tel consente il dubbio giorno,
     Quel bizzarro castello alto sul lido?
     Quivi hanno il banco e il giornalier soggiorno
     I maggiorenti dello stuolo infido;
     Quivi su tutti in gran pompa presiede
     Chi di tutti ha più astuzia e minor fede.

Ma per non stare a snocciolar parole,
     Andiam verso il castello addirittura;
     Sol, perchè gente come noi non suole
     Entrar non che restar fra quelle mura,
     Per non dar agio alle maligne fole,
     Aerea renderò la tua natura,
     Sì che nessun possa poi dire: in questa
     Casa ci viene della gente onesta.

Il castello, che par solido e forte
     E su rocce inconcusse edificato,
     Di legno ha i muri, di carton le porte,
     E su l’arena istabile è fondato;
     D’arabeschi, di fregi e di contorte
     Lettere in giro è il suo prospetto ornato;
     Intorno al tetto che s’appunta al sole
     Centinaja vi son di banderuole.

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Nei buchi, onde somiglia a butteroso
     Volto d’un mostro il cortile ampio e sozzo,
     Di vecchie gazze un popolo nojoso
     In un gracchiar perenne agita il gozzo;
     Pigiasi irrequieto e clamoroso
     Sotto a’ lor nidi il volgo ignaro e rozzo,
     E spalancando a gara ampia la bocca
     I lor caldi escrementi avido imbocca.

Sopra ogni porta, ogni uscio, ogni postierla
     È una diversa maschera dipinta,
     Ma di color sì vivo, che a vederla,
     Vera e mobil ti sembra umana grinta;
     Fra l’una e l’altra maschera è una merla
     Col becco aperto, vera no, ma finta,
     E così ben, che innamorati cotti
     Spesso a’ suoi piedi cadono i merlotti.

Altre bestie vi sono, e queste vere
     E a differenti ufficj ammaestrate:
     Due scimmie in su l’entrar fanno da usciere
     Entro due gabbie anguste accoccolate;
     Una volpe da gran cerimoniere
     Con maniere amichevoli e garbate
     V’immette in un androne umido e cupo.
     Dove sta in guardia od in agguato un lupo.

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In cima a tale andron serpon le scale
     Così fetide e strette e oscure affatto,
     Ch’essere nel budel par d’un majale
     Che buona digestion non abbia fatto;
     A capo d’esse è un gemino animale,
     Che al muso e all’ugne esser potrebbe un gatto.
     Ma carnoso e muliebre in modo strano
     E fornito di coda ha il deretano.

A una specie di cesso indi s’arriva,
     Che Sgabuzzin delle Carote è detto,
     E dove ad ogni dì buona o cattiva
     S’inventa, ma però senza brevetto,
     Una notizia assai sbalorditiva,
     Condita in modo da non dar sospetto,
     Sì che la gente trepidando accorsa
     Abbassar senta o rialzar la borsa.

Vien poi la sala dell’Uffizio, a fresco
     Tutta dipinta in su lo stile antico:
     Qui c’è Gesù con gli altri assiso al desco,
     Là Giuda col danar ma senza il fico;
     L’ubbriaco Noè qui piglia il fresco,
     Nudo mostrando a Dio quel che non dico;
     Pinta Gomorra è nel più alto loco,
     Ma prima ancor che vi cadesse il foco.

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Per un andito alfin, dove fan bella
     Mostra di gazzettieri effigie a cento,
     Si giunge a una recondita cappella
     Sacra al dio Pane e al suo vorace armento;
     Quivi dell’uscio a questa parte e a quella
     Han magnifico busto e monumento
     Anton Francesco Doni e il pria divino
     Ed infame da poi Pietro Aretino.

Qui giunto Esperio, agli occhi suoi s’offerse
     L’onnivoro scrittor Partenopeo,
     Entro a cui le materie più diverse
     Fanno un dotto cacciucco anzi un cibreo;
     Uomo pien di cavilli e di traverse,
     Faccia di rospo ed anima d’ebreo,
     Per cui l’arte di scrivere è un tranello,
     Merce il saper, l’ingegno un grimaldello.

Pien d’orgoglio, di bile e di dispetto,
     Tumido, infagottato, in aria il muso,
     Pende dal braccio (ahimè non dal gibetto!)
     D’un che dritto sen va meglio d’un fuso;
     Strillando in suon di musico galletto,
     Dice corna d’ognun, come ha per uso;
     D’una bestemmia poi fatta una comma,
     Con gran sincerità conclude: Insomma

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La mia pazienza a lungo andar s’è stracca;
     Sempre aspettando non vuo’ viver io;
     Se all’aria non buttiam questa baracca,
     O portafogli del mio core, addio.
     In fra la destra e la mancina racca
     Adulando e mordendo io tiro al mio,
     Ed in barba alle rigide marmotte
     Alterno un colpo al cerchio, uno alla botte.

Ma ben che in tal mestier pari io non abbia,
     Nulla compiccio, e resto nudo e bruco;
     E intanto invecchio, e questa è la mia rabbia,
     Ch’io nato volpe abbia a crepar da ciuco.
     Chiamalo come vuoi èrpete, scabbia
     Questo prurito che mi rode il buco,
     Ma se fra’ sette or or non mi rificco,
     A vostro danno e disonor m’impicco!

L’altro che dritto va.... Ma ho paura
     Non abbia il mio lettore a intender male,
     Poichè di dritto, fuor che l’andatura,
     Nulla ebbe mai questo bel cesto; il quale
     È un pasticcio, una torta, una mistura
     Di scrittor, di travetto e di sensale,
     Fin a’ capelli nei debiti immerso,
     Poeta da commedia a tempo perso.

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Costui dunque all’udir tali proteste:
     Io son del tuo parer, dice, e tu ’l sai
     Se me n’infischio delle trippe oneste,
     Chè la voglia l’ho anch’io dove tu l’hai:
     Essere destro, aver le mani leste
     E non poterle oprare è grave assai;
     Ma a te non fo misteri: odio coloro
     Che abborri tu; ma il mio silenzio.... è d’oro.

Pur sta’ tranquillo: rompere saprò
     A tempo il freno e trar calci a’ corbelli;
     Ma ora non mi par tempo da ciò,
     Benchè n’abbia di lor fin su’ capelli.
     E l’altro, come un bue sbuffando: Oh il so,
     Tu sei Toscano, voglio dir di quelli
     Che pronta han lingua e graziosa faccia,
     Ma tiran brace alla propria focaccia.

In questa, accanto ad essi ecco guizzare
     Un losco mostriciatto agile e gajo,
     Ch’un di quei bacherozzoli ti pare
     Nati tra ’l fermentar d’un letamajo.
     Partenopeo sbirciollo, e: Olà, compare,
     Gridò, se non vinciam, vostr’anco è il guajo:
     Mano dunque alla penna, e date addosso
     A quanti cani ci contendon l’osso!

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All’apostrofe brusca ei torse il grifo,
     Sbozzò una smorfia, e disse: Anime pie,
     Se Astolfo non potè senza Ippogrifo
     E senza corno debellar le Arpie,
     Io non potrò, per dirla in logogrifo,
     Far il servizio alle lor signorie,
     Senza quello per cui con man sicura
     Giove a Danae sforzò la serratura.

Compar, disse il Toscan, codesto vostro
     Discorso, non lo nego, è a fil di logica;
     Al vitellino d’oro anch’io mi prostro,
     E vi comprendo ben, senza anagogica:
     Noi viviam della penna e dell’inchiostro,
     Nè facoltà legale o teologica
     Ci diè diplomi, titoli e prebende;
     E buon per noi che ci si compra e vende.

Ma se Astolfo potea con un sol corno
     Oprar tanti prodigj incliti e santi,
     Come potreste senza grave scorno
     Non farne un voi, che pur n’avete tanti?
     Andiamo via, non c’è nessun dintorno:
     Ci potrete servir senza contanti;
     Una man sporca l’altra ed ambe il viso,
     E a via di corna andremo in paradiso.

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Fingea l’altro di prendere il cappello,
     Quando irruppe tra lor la Selenita,
     Che di maschio sortì muso e cervello,
     Ma più che femmina è giù dalla vita:
     Di quanto celar dee sotto al guarnello
     Aprir suole a ciascun doppia partita,
     Anzi, a frutto mettendo ogni tesoro,
     L’appigionasi ha posto ad ogni poro.

In fra le circostanti isole e questa
     Come spola ogni dì va la sua barca,
     E alle varie tribù per oro appresta
     Di quella merce, onde a nessuno è parca:
     Commerciante animosa, accorta, lesta
     A qualsiasi lavor la schiena inarca,
     Qualunque merce nella stiva imborra,
     E quand’altro non può, prende zavorra.

In filar versi ed imbastir novelle,
     Non men che nel commercio, ella è maestra:
     Muovon l’ingegno suo due manovelle,
     Il Lucro a manca ed il Piacere a destra;
     Però che per ordire opere belle,
     Bisogna, come Orazio anche ammaestra,
     In un nodo costante ed amorevole
     L’utile conjugar col dilettevole.

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Essa è madre più volte; al proprio petto
     Ella, è ver, non appende i suoi marmocchi,
     Nè mai fra un bacio e un carezzevol detto
     Se li vede addormir sopra i ginocchi;
     Neppur tu, neppur tu, fragil maschietto,
     Regalate hai da lei chicche e balocchi,
     Tu che col cereo volto e l’occhio spento
     Ricordi a lei non un amor ma cento.

Altre cure, o piccini, altre dolcezze,
     Più gloriose tutte e più feraci,
     Danno alla mamma vostra oro ed ebbrezze
     E gloria, ancor che a voi tolgano i baci;
     Ma se mancano a voi le sue carezze,
     Beni avrete da lei meno fugaci,
     Chè a compensarvi del suo mal governo,
     Già scrive un libro su l’Amor materno.

Costei rivolta al bieco mostriciatto
     (O sia drudo o marito ovver bertone,
     Chè a tali ufficj egli è del pari adatto,
     Anzi l’ultimo è sua professione)
     Come! gli dice, e stai qui a fare il matto,
     Ovveramentesia l’asin cordone,
     E non pensi che in casa abbiam l’usciere,
     Che sta per sequestrarci anche il sedere?

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Poco male, ei borbotta; e col cipiglio
     D’uno che faccia il burbero per gioco:
     Io piuttosto di te mi meraviglio,
     Che mi vieni a seccar per così poco!
     Ricco d’oro io non son, ma di consiglio,
     E per te pronto il tengo in ogni loco:
     Perchè non vai da quel banchier bardassa,
     Che a te suol dar la chiave, a me la cassa?

Io farti non potendo altro servizio,
     Perchè molto ho da far più che non credi,
     Scappo in Questura a recitar l’Uffizio
     E sul collo a qualcun mettere i piedi;
     Tu non fare le cose a precipizio,
     E per pietà non crescermi gli eredi;
     Va’, sii buona; domani in buon consorzio
     La penna aguzzerem contro il Divorzio.

Esperio, che di sdegno avea già troppo
     Gonfio non pur, ma traboccante il sacco,
     Fuggiam, disse ad Edea, ma di galoppo
     Da questo branco perfido e vigliacco;
     Chè, ti giuro, se sto, qualcun ne accoppo,
     Ed a schiacciarne alcun già levo il tacco;
     Andiam, diss’ella, ed acqua in bocca adesso;
     Presto farà le tue vendette il cesso.

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Altre assai piagge immonde e colpe ed arti,
     Onde ingrassa ed imbestia il secol vile,
     Devo ancora per queste onde mostrarti
     Fra cui non fiorì mai cosa gentile;
     Allor solo potrai meco levarti
     Da tutta gente a ogn’alto senso ostile,
     Allor di questo mar vinti i disagi,
     Entrar dell’Utopia gli aurei palagi.

Vedi quel picco là, ch’arida e brulla
     Su’ soggetti acquitrini erge la cresta?
     Quivi una gente innocua si trastulla
     C’ha non perfido cor, ma poca testa:
     Ogni mattina accorre armata sulla
     Cima, e a far grandi cose ognor s’appresta;
     Ecco, squillan le trombe, ecco si spicca,
     Ma ritorna poi giù, nè fa, nè ficca.

I giornalisti detti indipendenti
     Son questi appunto, e d’ogni ben fan senza,
     Queruli, riottosi, intransigenti,
     All’uman fasto avversi e all’opulenza;
     Portano, sempre digrignando i denti,
     In trionfo la loro indipendenza,
     Scorbellati, intrattabili, protervi
     Non d’altri no, ma di sè stessi servi.

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Così parlando Edea, tra una deserta
     Petrosa landa e un torbido pantano,
     Per un triste sentier presero l’erta
     Serpeggiante tra’ rovi a destra mano.
     Ad ora ad ora in tra le nubi incerta
     La sua fronte scopria l’astro sovrano,
     Ma fermar non volea gli eterei sguardi
     Su la costa di scope irta e di cardi.

E in verità, per quanto occhio tu giri,
     Fuor ch’aspre rocce e tortuosi letti
     Di torrenti, non è cosa che attiri
     Le ciglia o suono che le orecchie alletti;
     Dormon tra’ buchi delle rupi i ghiri,
     Ch’oltre al dormir non hanno altri diletti,
     Nè pajono disposti ad altro stile,
     Ancor che presso a ritornar l’aprile.

Sparsi per questa pessima grillaja,
     Non dall’amor, ma dalla fede uniti
     (Benchè forte così questa non paja
     Da toglier loro occasion di liti)
     Stan gl’incorrotti in compagnia sì gaja
     Da non avere invidia ai trogloditi;
     Ognuno abita un antro al caldo e al fresco,
     E quello del vicin guarda in cagnesco.

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Nè del tetto ha miglior questa spettrale
     Bizzarra stirpe il cibo e il vestimento:
     Qualche pugno di grilli e di cicale
     È il loro giornalier sostentamento;
     A vestiario poi stan proprio male,
     Basti dir che van nudi al sole e al vento,
     Se non che un cencio, ma troppo onorario,
     Or sì or no lor copre il necessario.

Ed ecco, fuor d’una spelonca nera
     In un salmodiar grave di frati
     E con dinanzi al corpo una bandiera
     Vermiglia ad arabeschi indiavolati,
     Sbucar ne vede Esperio un’ampia schiera,
     Ch’or maestosa, a passi misurati
     Move, or di corsa, a balzi e con siffatti
     Strilli, ch’ei tosto sospettò: son matti.

Edea, che al volto e agli occhi un po’ sgomenti
     Del sospetto di lui tosto s’avvede:
     Matte, dice, non son già queste genti,
     Ma tienti in parte, o portiam lungi il piede;
     Se no del rio potere empj strumenti
     O ladri o spie dello stranier ci crede
     Qualcun di loro, e qual gambero rosso
     All’armi raglia, e ci si avventa addosso.

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Se voglioso or tu sei di saper quale
     Servigio in questa guisa ed a che il fanno,
     Sappi che questo è il lor quaresimale,
     Ed han per rito di rifarlo ogni anno,
     In memoria d’un certo serviziale
     Che far loro voleva un tal tiranno,
     Che becco essendo, anzi becco con l’effe,
     N’ebbe allora il malanno ed or le beffe.

E hai pure a saper, che di codeste
     Commemorazioni originali
     Sono più ghiotte queste ciurme oneste,
     Che di ghiande non son certi animali;
     Però grilli, armeggj, chiacchiere, feste,
     Fondazion di Circoli e giornali
     Sono i lor fasti; se non che, destino
     Dei lor fogli è il morir come Ugolino;

E i Circoli, da lor con tanta cura
     Fondati, proclamati, strombazzati,
     O perchè voglion, contro la natura,
     Che riescano circoli quadrati,
     O perchè addosso han la jettatura.
     Muojon di crepatura appena nati,
     O tralignando dai principj santi,
     Si fan covo di furbi e di briganti.

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Ben potrebbero, il so, tagliar più corto
     E far qualche buon gesto o almen tentare,
     Ma il genio loro pratico ed accorto
     Trova assai più prudente il cicalare:
     L’italico valor non è ancor morto,
     Ad ogni alzar di piè gli odi gridare;
     E il credo anch’io, nè credo che s’estingua.
     Ma prima era nel core, or nella lingua.

Mentre Edea così parla, eccoti un nachero
     Guercio, gobbo, sbilenco ed un po’ ciuschero,
     Che dalla cima dei capelli al cachero
     Due palmi è appena, e detto è il Meninciuschero.
     Cantarellava: Ancor che sbiobbo e machero,
     Di tutti gli omenoni io me n’imbuschero:
     Vuota ho la trippa, ma un buon ago ho sotto,
     E incinfrigno il messere a chi l’ha rotto.

Il lettor qui m’oppone: O come, fra
     Tal sobria razza v’è chi abusa il vino?
     Ma il lettore benevolo non sa,
     E il compatisco se non è indovino,
     Che queste genti da una Società
     Anonima, all’insegna del Facchino,
     Regolarmente vengono fornite
     Di cicche, di gazzette e d’acquavite.

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Gli veniva da lato a picciol passo
     Un lasagnone sgloriato e sciocco,
     Che sì spelato era dall’alto al basso
     Qual fatto avesse un bagno di merdocco;
     Penzolavagli il capo incerto e lasso,
     Come fico al soffiar dello scirocco;
     Sporgente il muso avea, cisposi gli occhi,
     E gli faceano giacomo i ginocchi.

Per soprannome ei s’era messo Gracco,
     Ma gli altri, o fosse invidia od ignoranza,
     Or lo chiamavan Gracchio ed ora Cacco,
     Ond’ei facea duelli a tutta oltranza,
     Perchè davvero egli non è un vigliacco;
     Anzi un giorno, a difender la sua ganza,
     Ei fece al suo rival proprio in quel sito
     Un buco tal, che non n’è più guarito.

Questi, allor disse Edea con un ghignetto,
     È qui tra’ novatori un dei capoccia,
     Che Bacunino e Crapocchino ha letto,
     Ma più duro ha il cervel di questa roccia;
     Pieno di maltalento e di dispetto,
     Ma vano ai fatti, e più che noccia, scoccia;
     Fatuo, cocciuto, riottoso e rozzo,
     Di bocca osceno e di costumi sozzo.

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Così costoro, che con vece alterna
     Son bizzarri o villani o inetti o vili,
     Con lor usi da ospizio o da taverna
     Rendon gli onesti all’Idea santa ostili;
     Ma luminosa, gloriosa, eterna
     Vive l’Idea nei cori alti e gentili,
     E già matura all’uom doppio tesoro
     Nel suo grembo immortal: Pace e Lavoro.