Ascensioni umane/Scienza e dolore
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SCIENZA E DOLORE1
Quando la scienza indaga nell’organismo di un animale inferiore l’azione di sostanze introdottevi da lei a fine di sperimentarne la potenza che sarà quindi volta contro un disordine dell’organimo umano; quando vi studia l’azione di altre sostanze che nulla possono contro questo disordine ma che ne sopprimono temporaneamente nell’infermo il senso, e anche, se bisogna, la coscienza, ella non considera nel dolore umano che un nemico. Quando procede all’analisi dell’organismo sociale e dalla ricerca delle sue origini, del suo sviluppo, della sua intima natura, dei disordini che lo affliggono, tenta, incerta ancora, trarre un complesso di norme per la salute sua, ella fa tuttavia opera di guerra contro il dolore. Quando con intenti di educatrice osserva e misura le attività fisiche e psichiche dell’uomo, ne va determinando le leggi, prescrive discipline all’esercizio loro, è il bene del corpo e dello spirito ch’essa difende, è sempre il dolore che oppugna. Oso dirlo: anche quando i cultori suoi, lasciando il fermo terreno dell’osservazione scientifica e la sicura guida del metodo scientifico, si cimentano nel nome di lei con i problemi fondamentali dell’universo, è contro un elevato dolore che insorgono e lottano, perchè l’intelletto umano quanto più è forte, tanto più tende naturalmente a ordinare le proprie conoscenze nella forma della unità, tanto più desidera una concezione suprema del mondo che gli colleghi e unifichi nella mente la origine, il disegno e il fine di tutte le cose; e se le dottrine altrui non lo appagano, anela e soffre, fatica a creare in sè l’alta idea che lo plachi.
Ora, signori, dai laboratori delle vostre esperienze, dalle vostre biblioteche, dalle quiete stanze delle vostre meditazioni io Vi richiamo alle caverne primeve dove branchi di esseri umani simili a fiere si raccolsero con ululati di odio e di terrore per offrire, sopra un cadavere, sacrifici e preghiere a Esseri malvagi che credevano autori dell’uragano e del fulmine, dei terremoti e delle eclissi, dei morbi, dei sogni spaventosi e della morte. Fu detto che a questi uomini il dolore è stato primo maestro della religione e che la idea purificata di uno Spirito buono, infinito ed eterno, causa e fine di tutte le cose, si congiunge per le sue radici estreme alla caverna che fu insieme tempio e sepoltura. Preferisco affermare che il dolore ha veramente meritato altari e culto dai nostri antenati preistorici come primo maestro della scienza e che il puro spirito scientifico moderno si congiunge per le sue radici estreme a questi processi oscuri che nel fondo dell’anima umana originaria generarono il senso e i superstiziosi terrori del sovrannaturale.
Cento anni or sono l’astronomo dell’Osservatorio di Greenwich licenziò un suo assistente perchè. sbagliava, nelle osservazioni, di mezzo secondo, e questo ha condotto, come voi sapete, a sottilissime ricerche sulle differenze personali fra gli astronomi nella facoltà dell’attenzione, sulle oscillazioni di queste differenze, sul modo di ricondurle a decimi e centesimi di secondo; tanto, nei tempi moderni, è alto il pregio ed è squisita la cura della facoltà senza la quale non vi ha scienza possibile. Ora il primo educatore dell’attenzione è stato indubbiamente il dolore fisico, sia che operasse con le offese e le minacce della natura esteriore, sia che operasse con il pungolo interno di appetiti violenti. Lo spavento e la fame stimolarono lo spirito umano a intendere tutto nelle sensazioni, ad acuirle con assiduo sforzo, a raccoglierle nella memoria, a distinguerle, a compararle, a coordinarle. Lo spavento e la fame gl’insegnarono a fissarne le somiglianze, le differenze e le eguaglianze costanti, ch’è il principio di ogni processo razionale e della classificazione scientifica. Non è forse possibile di abbracciare col pensiero la somma di esperienze e d’idee generali raccolte dall’uomo salendo la via dolorosa di una lotta durissima, congiunte intimamente ad atroci e bizzarre mitologie. Esse non erano ancora la scienza ma erano tuttavia quel sapere dal quale la scienza si è svolta. E quanto più l’intelletto umano ascendeva nella conoscenza, quanto più veniva innalzando e purificando le mitologie, quanto più si complicava l’organismo sociale, tanto più si svolgevano dal dolore fisico le varie forme di un dolor superiore, tanto più l’insegnamento del dolore saliva di nobiltà e di efficacia. Quando l’uomo esaltò dalla Terra i suoi dei nel cielo, fu lo spavento delle loro collere che insegnò a studiare i moti delle divine vite celesti imperanti sulle stagioni. Sullo ziggurat di Borsippa, enorme piramide a sette piani, eretta in onore del sole, della luna e di cinque pianeti, primi predecessori di voi che venite decomponendo le nebulose e di voi che acuite il calcolo, salirono mitrati sacerdoti alternanti allo studio del cielo canti e sacrifici propiziatori degli astri. Nel Perù e nel Messico fu il timore di non saper celebrare a tempo le periodiche solennità religiose e perciò dei divini castighi, che diede origine all’astronomia, Altrove la geometria trasse principio, negli stessi primordi della vita civile, dai guai d’incessanti contese e zuffe che costrinsero gli uomini alla partizione esatta del terreno. Tutte le scienze procedono, direttamente o indirettamente, dalle arti e se dal magnifico spettacolo del multifòrme lavoro compiuto dalle arti umane voi risalite all’origine sua, vi appaiono evidenti, nello sfondo del passato come nelle viscere del presente, le sofferenze motrici. E non è a voi ch’io narrerò come i dolori della povertà e della morte, stimolando gli uomini alla folle ricerca di sostanze generatrici dell’oro e prolungatrici della vita, li abbiano condotti per vie di errore a una scienza meravigliosa; nè come i dolori dei morbi abbiano dato origine alla scienza del corpo umano e le imprimano ancora un vigoroso impulso che si comunica ad altre scienze. Mi permetto soltanto di accennare come per effetto di un progresso morale che la civiltà moderna deve al cristianesimo, ogni sofferenza umana sia venuta più e più irradiando intorno a sè quell’aura dolorosa che si chiama pietà; quanto abbia quindi cooperato e cooperi al progresso scientifico, nato di egoismo, il dolore del dolore altrui. E mi volgo adesso a considerare quel nobile stimolo dell’attività scientifica ch’è giudicato comunemente il più puro da ogni mistura d’interesse e che moltissimi cultori della scienza, fra i più degni, vorranno forse oggi glorificare come il solo. Io pure lo glorifico e incomincio con riconoscerne l’antichità. Poi che il dolore fisico e i dolori morali che vi hanno radice ebbero accumulato nell’uomo esperienza, giudizi, sapere, e la lotta per la vita gli diventò meno fiera e continua, un palpito nuovo parve destarsi in lui, un desiderio di sapere per sapere, un generoso amore del vero, il germe di quel sentimento che voi chiamate culto della scienza e che alla lotta per la vita sostituisce la lotta per la luce. Ebbene, considerate come nell’individuo umano uscito di fanciullezza si manifesti con il crescente vigor vitale un sentimento nuovo, ricco d’idealità, abborrente da ogni egoismo, consigliere di ogni sacrificio. Vi ha certo nell’amore un elemento superiore e divino. Un elemento di sacrificio è idealmente visibile, per ombra e figura, persino nella prima origine sua, nell’atto riproduttore della cellula primitiva che rinuncia ad essere individuo e si scinde. Ma la cellula si scinde realmente per una necessità della sua nutrizione e con il misterioso elemento morale vi ha nell’amore umano un elemento di sofferenza fisiologica. Allo stesso modo, signori, l’amore del Vero nella sua più sublime forma è come il fiore di un desiderio radicato nell’intelletto nostro tanto profondamente quanto son radicati nell’organismo i suoi normali appetiti e che, non soddisfatto, genera pena; del medesimo desiderio che cruccia il bambino se non rispondete ai suoi bramosi perchè, cruccia infinite donnicciuole, infiniti uomiciattoli se falliscono nella indagine delle faccende altrui, cruccia l’amatore di quegli enigmi che si propongono per gioco e trastullo, se non riesce a decifrarli. Il disinteresse di questi desideri non è che apparente. Tutti hanno uno stimolo di dolore e meglio vale a giudicarne colui che più è posseduto dalla passione scientifica, che più avrebbe sofferto di non potersi dare agli studi, di non poter prender parte alla lotta per la luce. Ov’egli sottoponga sè stesso ad un’analisi severa giungerà facilmente a sceverare dalla religiosa devozione alla Verità obbiettiva e dalle ambizioni di gloria questa cupidità di sapere, questa fame dell’intelletto che diventa penosa se non si appaga e ch’è profondamente egoistica perchè più si appaga della ricerca che del possesso del Vero.
Fin qua io Vi ho ricordato, signori, certi beneficii recati alla scienza dal dolore come suo stimolo. È ben superfluo indicare a voi quei molti beneficii del tutto evidenti ch’esso le rende rivelando ascosi disordini di cui è segno. Sembro io forse difendere una tesi troppo strana e mi fate voi rimprovero, nel vostro pensiero, di lodare il peggior nemico dell’uomo? Il dolore merita egli un tale odio? Davvero non son queste le sole opere sue benefiche. Non è spesso il dolore un giusto castigo inesorabilmente inflitto dalla natura, non è allora una manifestazione spontanea e salutare delle eterne leggi di lei? Ebb’egli torto il Giusti di chiamarlo amico dei forti ed ebbe torto il De Musset di scrivere:
L’homme est un apprenti, la douleur est son maître,
Et nul ne se connait tant qu’il n’a pas souffert?
Dove si tempra l’energia virile meglio che nella lotta e nel dolore e chi può dirsi veramente uomo che scenda nel sepolcro senz’aver bagnato del proprio sangue la via? Confessino i più lirici poeti della pace che la guerra, promovendo certe speciali scienze e industrie, educando gli uomini alla prudenza e alla ragionevole audacia, infiammando il sentimento della solidarietà fra i membri di un popolo, richiamandoli dai godimenti egoistici al sacrificio di sè per il bene comune, aiutando, in via generale, il predominio delle razze intellettualmente e moralmente superiori, ha reso grandi servigi alla civiltà. Così parlando in questa città gloriosa che ha testè commemorato gli epici avvenimenti di cui fu teatro cinquant’anni or sono, io non posso a meno di ricordare il frutto dell’opera terribile che la guerra, il colera e la fame hanno qui allora compiuto. Sublimarono nella moltitudine il concetto e il sentimento dei più alti doveri civili; inebbriarono le coscienze dell’orgoglio eroico e dell’ambizione magnanima di mostrare a fratelli e a stranieri come in Venezia ogni viltà era morta; diedero a questo popolo quel che mancò a troppo gran parte d’Italia, una sufficiente preparazione di sacrificio e di dolore alla libertà.
Ora io chiedo, ritornando al mio soggetto: perchè il dolore ha mosso primo e move tuttavia lo spirito umano sulle vie della scienza, perchè altri servigi ha reso e rende, cessa egli forse di esser dolore? Nessuno distoglierà mai nè i gaudenti del mondo nè i penitenti degli eremi dal tendere con tutte le forze loro a uno stato felice. Poche settimane or sono, Voi, o colleghi, avete aggiudicato un premio all’inventore di uno strumento che allevia, forse per pochi momenti, certe sofferenze d’infermi, senza sanarle. E se fu giustizia il farlo, come io credo, tanto più è glorioso per la scienza di combattere ogni causa di dolore individuale e sociale, di determinare le leggi naturali che hanno una infallibile sanzione dolorosa, di aprir la via quanto può alla intelligenza dei problemi che son perpetuo tormento dello spirito umano. Ma voi comprendete a quale formidabile nodo mettan capo le fila del mio discorso. Se è vero che la scienza, sorta in origine e tuttavia soccorsa, stimolata dal dolore, si ritorce contro di esso e tende a diminuirne l’impulso e l’aiuto, nè per seguire ch’ella stessa debba tendere alla inerzia, perder vigore ad ogni vittoria nuova. Ora questo è contraddetto da una magnifica testimonianza di fatti. La scienza procede sulla terra e nel cielo, di vittoria in vittoria, sempre più ardente.
Diremo noi allora che le vittorie sue sono vane, che in qualche occulto inconscio modo ella accresce, secondo l’amara parola di un sublime poeta, il dolore, e riproduce, moltiplica senza posa i propri suoi stimoli, simile al sole che quanto più disperde vittorioso i vapori del cielo, tanto più ne suscita dalla terra? Io non potrei affermare senza contraddirmi che sul nostro pianeta il dolore aumenti. Nella rapida vicenda dei desideri soddisfatti e rinascenti per effetto del progresso, nella crescente soddisfazione del benessere altrui, nel crescente lavoro intrapreso dagli uomini, con fede e speranza, a pro dell’avvenire, io, pur confessando gl’infiniti guai che tuttavia ci travagliano, riconobbi pubblicamente indizi e prove di un volgere delle cose umane a più felice stato e ne resi onore, in parte, alla scienza. Come avviene dunque che il progresso scientifico, diminuendo la somma dei dolori umani onde trae vigore, proceda più celere e potente?
Aprite, Signori, quelle parole dell’Ecclesiaste dall’aspetto sì amaro che poc’anzi ricordai: «chi accresce la scienza accresce il dolore». Illuminatene con una giusta interpretazione le profondità. È là dentro che voi troverete, a mio vedere, il motto dell’enigma. La piccola sfera di luce che potè simboleggiare un tempo le conoscenze umane venne via via ingrandendo e intanto le ingrandiva intorno a paro il nero ambito delle tenebre. Oggi è immenso e spaventa; domani sarà più pauroso ancora. Realmente la scienza riproduce e accresce quegli stimoli dell’intelletto che io rassomigliai dianzi alle sofferenze fisiologiche degli organismi. Il dolore fisico diminuisce, diminuiscono i dolori morali che ne traggono origine ma la fame intellettuale cresce. Sarebbe tuttavia eccessivo ed ingiusto di non vedere in essa che dolore. Essa è sorgente di piacere, come la fisiologica, quando sa di potersi appagare. La sola voluttà della creazione artistica può agguagliarsi alla voluttà della ricerca e della conquista scientifica. Nate da radici di dolore, son fiori di gioia. Il desiderio egoistico di sapere per sapere vi si colora dello splendido colore che segna la presenza di un puro, ardente, ideale amore del Vero, ed è questo dolore trasformato in gioia e in idealità che oggi è diventato il più potente stimolo della scienza, che le imprime gli slanci più nobili e superbi, la solleva fuor d’ogni vista e d’ogni fumo di volgari passioni.
Ma noi, che giudichiamo le sofferenze umane andar diminuendo e l’intelletto umano ascendere continuamente per impulsi di amore una via di piacere, non sogneremo per questo un secolo futuro in cui scienza e dolore non si incontrino più.
Io non intendo parlarvi dei comuni dolori umani che mai la scienza non vincerà. È troppo evidente che se potrà temperare le pene, suggerire alcuni mirabili conforti della vecchiaia e della morte, non giungerà mai a sopprimere nè l’una nè l’altra, si arresterà qui per sempre davanti a una somma di dolore fisico e morale irreducibile per lei. È altrettanto evidente che nulla ella potrà mai del pari contro dolori generati da passioni di amore e di odio non separabili dalla natura umana. Ricorderò invece non vincibili sofferenze particolari alla scienza. Se le gioie della ricerca e della conquista scientifica fioriscono da radici di dolore, anche steli spinosi e amati ne ascendono alla loro volta. Il desiderio che confida di appagarsi è dolcezza ma il desiderio che sa di non potersi appagare è tormento, e il verso famoso di Virgilio ha bene questo rovescio di prosa: — infelix qui non potuit rerum cognoscere causas.
Il malinconico sospiro del poeta si propaga di generazione in generazione e non resterà mai. L’essere che fu chiamato Ursachenthier, animale delle cause, non arriverà mai a conoscere scientificamente le cause prime. Vi sono per la scienza umana degli insuperabili confini ed ella stessa va scrivendo sulle porte dure a cui si frange la fatale parola: igrorabimus. So bene quale tempesta di violente discussioni abbia sollevato ventisei anni or sono l’ignorabimus di colui che un avversario suo fiero chiamò il retore dell’università di Berlino. In fondo poco importa che questo preteso retore, il Du Bois Reymond, non certo sospetto d’inclinare all’idea religiosa nè al dualismo, indicando nel 1872 soli due confini della scienza e parlando nel 1880 dei sette enigmi del mondo, si sia contraddetto come pare a Ernesto Häckel e può non parere ad altri. Poco importa che l’enigma per esempio, della formazione della coscienza diventi facile o no se prima si scioglie l’enigma della costituzione della materia. Poco importa che lo stesso Häckel, fortemente inclinato all’idea religiosa quantunque il Dio delle religioni positive non sia per lui che un vertebrato allo stato aeriforme, ammetta un problema unico fondamentale dell’universo invece di due o di sette. Sta in ogni modo che la conoscenza umana dell’universo ha limiti naturali dove gli uomini freddi come il professore di Berlino si fermano e gli uomini ardenti come il professore di Jena si gittano in braccio a una fede, sia pure di loro conio, sia pure nella virtù divina dell’etere o degli atomi. Il naturalista, per dirla con Du Bois Reymond, è avvezzo da lungo tempo a recitare con virile rassegnazione, ogni giorno, il suo ignoramus, ma l’ignorabimus a cui gli conviene di piegarsi è molto più duro. Questo residuo di dolore intellettuale non convertibile in gioia è amarissimo e invece di stimolare l’intelletto ne affievolisce l’ardore se l’intelletto non soccorre a sè con qualche ristoro cui la scienza non ha in suo potere.
Odo qui rispondermi da coloro che professano il solo culto della scienza: «Noi siamo uomini, conosciamo la nostra natura e la nostra sorte, le accettiamo da uomini e in questa disposizione stoica dell’animo nostro è la nostra pace, è il nostro conforto, è il rimedio sovrano di ogni nostro dolore, Vi è ancora, del resto, tanto conoscibile da esplorare, l’avvenire ha in serbo per noi tanto piacere di studi e di scoperte che possiamo bene lasciar dormire in pace per lunghi secoli l’unico enigma o i due enigmi o i sette enigmi del mondo,» «Sì» rispondo «voi siete uomini: homines estis et humani nihil a vobis alienum puto. È ammirabile che accettiate con fermo volto il dolore inerente alla natura umana, ma lo stoicismo vostro non vi libera dal soffrire. Quanto più il vostro intelletto è nobile, quanto più vi addentrate nello studio della materia, della vita e del pensiero, tanto più vi è acerbo di non potere sforzar le porte che chiudono i segreti delle loro essenze e delle origini prime e il motto dell’Ecclesiaste significa questa crescente pena. Se nello studio del conoscibile voi cercate l’oblio dell’inconoscibile non è il vostro un rimedio sovrano, è un anestetico, la cui azione, sempre incostante, va talvolta perdendo energia a misura che la vostra vita scende verso le ombre della sera dove i problemi dell’Universo prendon figure colossali e paiono attendere minacciosi il cadere dello stanco viandante. Più o meno intensamente, a intervalli più o meno lunghi, voi soffrite e ne date manifesti segni. Uno di questi è la riluttanza, non infrequente fra voi, ad ammettere che il campo del sapere umano è circoscritto da eterni confini di mistero. È anche per causa di tale riluttanza e delle imprudenti promesse fatte da qualcuno di voi, sacerdoti della scienza, e raccolte, diffuse con entusiasmo da parecchi di noi laici, che uno fra noi, deluso, denunciò al mondo con falsa, ingiusta parola, la bancarotta della scienza. Un altro segno del vostro soffrire è lo sforzo che talvolta fate di crearvi una fede per giunger con essa là dove la scienza è impotente a penetrare. Voi attribuite alla vostra fede una base sperimentale e la giudicate perciò superiore alle antiche, e ciascun di voi si adagia per proprio ristoro nel piccolo Universo che si è costrutto nel cervello e dove ha largamente infuso una sostanza divina o ne ha sterminato con rigorose disinfezioni ogni germe, secondo le tendenze della propria natura.»
Io interrompo qui il mio colloquio immaginario poichè sta per uscire del campo che mi prescrissi. Non è infatti questo il momento di considerare se dove la scienza si arresta debba porsi in cammino una fede e qual fede. Ricercherò invece se a fronte degl’irreducibili dolori del mondo nessun altro compito spetti alla scienza che quello di riconoscersi impotente.
Voi mi permetterete, Signori, di esprimere schiettamente una convinzione mia così forte che mi riesce adesso difficile di trovare per essa le modeste parole convenienti a chi non professa la scienza e pur ne ragiona fra uomini che di scienza sono maestri. Io non credo che uno stoico feremus e un rassegnato igorabimus sieno il solo compito degli uomini di scienza rispetto agl’irreducibili dolori fisici, morali e intellettuali del mondo. Accettare la sorte che le leggi ferree della nostra natura ne impongono è virile atto; ma vi hanno due vie di compierlo. Si può disprezzare il dolore invincibile, fare ogni sforzo di escluderlo dal pensiero, di operare in tutto come se non esistesse. Si può invece guardare in faccia tutto il dolore di ogni tempo, sottoporlo ad analisi, determinare un tal numero di fatti costantemente connessi in qualità di causa, di forma, di effetto del dolore, da poterne indurre certe leggi, un tal numero di leggi da poter determinare qualche loro comune carattere, quindi la esistenza di altre leggi superiori, più semplici e più comprensive, la probabilità di una categoria di leggi ancora più elevata, la possibilità, infine, di una legge suprema ed unica, di una ragione ultima del dolore.
Questo secondo partito appare più conforme allo spirito scientifico moderno. Tuttavia io non dubito, signori, che le mie parole non riescano sospette a qualcuno. Vi si vorranno vedere dei preconcetti metafisici e il disegno di una mistica teleologia del dolore non conciliabile con la scienza. Osservo che i cultori delle scienze fisiche non possono avere a sdegno la metafisica senza ingratitudine. Il loro sapere è minacciato alla base dallo scetticismo neokantiano che gli nega il carattere di assoluta verità, e soltanto una sana metafisica vale a rivendicargli questo carattere. Soggiungo quindi che sebbene le mie parole possano tradire preconcetti metafisici e presentimenti mistici, esse non vi richiamano che all’osservazione, all’analisi, alla classificazione dei fatti, alle induzioni legittime, a quel lavoro d’ipotesi che precede nel buio, come un fluttuare incerto di fiaccole, l’avanzar sicuro della scienza. Quanto a me, non ho alcuna ragione di nascondere i miei preconcetti nè i miei presentimenti e ne ho molte di significarli. Noi siamo tutti creatori di mondi e anche l’artista si crea nel pensiero, come il naturalista e il filosofo, un piccolo universo dove l’intelletto suo si posa e si ristora. Nel microcosmo del mio pensiero l’origine e la funzione del dolore non sono del tutto evidenti ma neppure sono del tutto ascose. Artista, mi glorio di affermare che un raggio di arte mi illumina quelle ombre. La scienza, che studia il primo apparire e la più semplice espressione della vita, è in debito di studiarne con altrettanto intensa cura le manifestazioni più alte, una delle quali è l’Arte. Ora, nelle più sublimi opere dell’Arte culmina, circonfuso di gloriosa bellezza, il dolore. Dal dolore di Laocoonte al dolore di Amleto, dal dolore di Edipo al dolore di Werther, dal dolore di Francesca al dolore di Margherita e di Ermengarda, dal virgiliano pianto delle cose alla tristezza nera di Leopardi, le più geniali manifestazioni dell’Arte ci hanno rappresentato il dolore. E il dolore riprodotto con l’Arte anche imperfettamente, affascinò il mondo. Nei volumi dei poeti e dei novellieri, nei recinti dei teatri noi cerchiamo spesso la pungente dolcezza del piangere, La musica, l’arte più moderna nel tempo e nello spirito che sia, meglio ne rapisce fra i suoi mobili fantasmi di passione, meglio ne move al mistico senso voluttuoso e al desiderio infinito di un mondo superiore; al palpito e al sospiro, quando nella parola sua impenetrabile, salita da profondità umane che non hanno coscienza di sè, noi sentiamo una recondita essenza di dolore, un vapor confuso di tutte le pene del mondo, disgiunto, quasi, da esse e puro di lor singolari materie, contemperato di un divino che da ciascuna spira. Lo sentiamo e l’anima nostra tutto, avida, se lo infonde, di quel soffrire si fa un godimento e non per questo viene a compiacersi di pene sue proprie nè a desiderarne. Io ne induco, signori, che vi ha nel dolore un elemento di bellezza e di grandezza confusamente appreso, ammirato e amato dall’uomo, non già distinto nè compreso nella sua intima natura; il quale tuttavia non rende il dolore desiderabile per sè. Levando allora l’oscuro coperchio di tale contraddizione apparente, v’intravvedo sotto, a prima giunta, quella nobile funzione del dolore di che oggi parlai. Vedo il dolore all’origine della scienza e lungo la faticosa sua via. Lo vedo causa e stimolo di ogni sforzo, di ogni lotta ond’è uscito e procede il progresso umano, necessario prezzo di ogni sua vittoria. Lo vedo educatore, rigeneratore d’individui e di popoli; in questi stessi giorni, ancora oscurati di pubblica sventura, ne odo gli ammonimenti, salutari alla patria mia.
Lo vedo severo, inesorabile giustiziere di colpe umane cui persegue di generazione in generazione fino a che una goccia del sangue colpevole ancora viva. Lo vedo qua e là infallibile indice del disordine, ch’è come dire primo consigliere e iniziatore dell’ordine. Procedo palpitando nei nuovi albori di una luce immensa. Sperimento idealmente sui dolori del mondo, a cominciare dai riducibili, l’applicazione di questo principio che dovunque è dolore è disordine, che il dolore sempre designa e aiuta un ordine futuro. Mi accompagno nello sperimentare alla scienza che per una lunga serie di fatti mi vien dimostrando come rispondano al principio supposto, e quando la scienza si arresta procedo ancora, procedo con diritto di poeta e argomento che come gli altri dolori, anche i dolori della vecchiaia, della morte, delle ignoranze invincibili vi attestano un ascoso disordine, che dunque la natura umana è ordinata all’immortalità, alla visione delle origini e delle essenze, che il dolore del morire, meditato nell’attesa, sofferto negli spezzati affetti, imprimendo alle indestruttibili energie della psiche una fortissima tendenza a oltrepassare unite la morte, un costante sforzo di conservare questa unità e questa direzione, di resistere alle attrazioni contrarie, diventa ministro della vita. Mi balena che il dolore del fatale ignorare, configgendo il desiderio umano ai problemi eterni, diventa ministro della conoscenza perchè moltiplica le ipotesi, le credenze, gli errori che alla lor volta riproducendo dolore aiutano la ricerca, aguzza tutte le facoltà del conoscere, persuade la ragione a non disprezzare nè la fantasia nè l’affetto, costringe la fantasia e l’affetto a non contraddire la ragione, imprime finalmente alla psiche umana lo stesso moto verso l’oltre-tomba che le imprime il dolore della morte,
Non sogno una scienza del dolore che possa dimostrarne questa funzione trascendentale e suprema, seguire fino alla meta gli slanci dei credenti e dei poeti. Invoco una scienza che dimostri come e perchè le riducibili sofferenze sempre indichino disordini e sempre aiutino a porvi riparo. Su questa ferma base la più sublime aspirazione umana fonderà il proprio concetto del soffrire irreducibile, dell’arcana ragione sua, dell’ultimo suo frutto, assiderà edifici splendenti di visioni e di sogni, asili consolatori di afflitti. La scienza vi avrà cooperato senza uscire dal proprio campo e a lei pure ne verrà nuova lode di consolatrice delle anime: la più dolce lode, io credo, che il mondo abbia. Così agli antichi maestri che prima qui fermarono nel fondo limoso del mare. fitte selve di travi sapientemente ordinate al peso di moli enormi, è data lode, in parte, degl’incomparabili poemi di pietra che ascendono dalle onde, svolgono musicalmente nel sole maestà possente d’idee, grazia toccante d’immagini, aeree visioni di sogno; e chiamano essi pure, in questa o in quella parte, gli afflitti a sè, tendono pure, in questa e in quella parte, al cielo il segno del maggior dolore e della maggiore speranza.
- ↑ Il presente Discorso fu tenuto in Venezia, al R. Istituto Veneto, il 22 maggio 1898.