Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)/Annunzi bibliografici
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ANNUNZI BIBLIOGRAFICI
Operosa fu nell’anno 1869-70 la R. Deputazione di storia patria per lo provincie di Modena e Reggio. Don Gaetano Chierici illustrò parecchi scavi fatti sotto la sua direzione a Sampolo d’Enza; illustrò pure alcune cose antiche trovate nel!’ isola dell’Elba, e vari oggetti scoperti nella città di Reggio. Remigio Crespellani dava lettura di una sua dissertazione intorno ai sepolcri romani che furono di recente rinvenuti a Savignano sul Panaro. Degli Orfanotrofi in Italia e specialmente in Reggio d’Emilia, discorse il dottor Paolo Ottavi. Il cav. Carlo Malmusi, presidente, ragionò del Desco dei poveri eretto a Modena nel secolo X11I a vantaggio esclusivo dei vergognosi: poi dette conto di un dipinto in tavola, esistente a Trassilico di Garfagnana, che porta scritto il nome dell’autore, Simone Carretta da Modena. Il marchese Cesare Campori illustrò i vecchi statuti de’ Montecuccoli e il governo di papa Leone X nel Frignano. Della vita di Uberto Foglietta trattava il cav. Giuseppe Campori; disse le lodi di Danese Cattaneo, poeta e scultore carrarino del secolo XVI; mostrò quali relazioni si mantenessero per otto anni tra Giambattista Della Porta e il cardinale Luigi d’Este, Giovanni Sforza ragionava della vita e delle opere di Gio. Pietro d’Avenza, illustre grammatico e retore del secolo XV; discorse, con l’aiuto di carte affatto inedite e ignote, della Signoria che tennero Castruccio degli Antelminelli e i Pisani sul borgo e forte di Sarzanello in Lunigiana; raccontò un episodio sconosciuto della vita dello scultore Pietro Tacca. Quirino Bigi descrisse le burrascose vicende di Cammillo e di Siro da Correggio; e della zecca della città di Correggio dette la storia dal 1570 al 1630. Di Guarino Guarini, architetto e matematico modenese, scriveva il cav. Carlo Borghi. Il conte Giovanni Galvani espose le ragioni per cui Dante nel Volgare eloquio nomina dottori i poeti illustri, massimamente occitani e oytani; lesse molte e dotte osservazioni sulla vecchia cantilena di Ciullo d’Alcamo, e parecchie giunte al suo Glossario modanese. Del dialetto reggiano discorse il professor Bernardino Catelani;. antichi e pregiati manoscritti illustrarono Paolo Terrachini e Luigi Lodi; mentre il benemerito segretario, cav. Antonio Cappelli, scriveva, con l’aiuto d’inediti documenti, la storia di Galeotto Manfredi, signore di Faenza, e raccoglieva dagli autografi e curava la stampa di una dotta scrittura del Cavedoni, con che dichiara sessantasei monete dell’isoletta di Lipari.
La morte tolse alla Deputazione il conte Gio. Francesco Ferrari Moreni, mancato ai viventi ai 18 di ottobre del 1869; ma di quattro soci si accrebbe la Deputazione stessa nelle persone del commendatore Luigi Zini, del prof. Pietro Caddi, del dottor Giuseppe Ferrari e dell’avv. Pietro Bortolotti.
G. S.
Queste tre lettere sono scritte tra il cadere del luglio e il cominciare dell’agosto dell’anno 1495; e sono scritte da Mantova dove si trovava in quel tempo messer Giovanni Mignanelli in qualità di oratore della Repubblica Senese presso il pontefice Pio II, che a Mantova aveva intimato un concilio per commuovere le potenze cattoliche a stringere la lega disegnata già da Niccola e da Callisto, suoi predecessori, contro il Turco. Ora di questa lega, che non ebbe effetto, come raccontano le istorie, si discorre nelle lettere presenti. Il Mignanelli persuase il papa a toccar Siena nel far ritorno da Mantova, e trattò con lui di altre faccende a vantaggio della Repubblica.
Le lettere sono scritte in italiano, ma assai rozzamente, e mostrano che il Mignanelli non fosse addentro per nulla nelle cose di Stato. Furono tratte dal R. Archivio di Siena, e vennero corredate di alquante note per cura del sig. Luigi Fumi, che impiegò molta diligenza in questa pubblicazioncella.
G. S.
Notizie della Tipografia Ligure sino a tutto il ser. XVI, raccolte da Niccolò Giuliani. Genova, co’ tipi del Et. Istituto de’ Sordomuti, 1869; in 8vo di pag. 324.
Supplemento alle Notizie della Tipografia Ligure sino a tutto il secolo XVI, per Niccolò Giuliani e Luigi Tommaso Belgrano. Genova, tipografia del R. Istituto de’ Sordomuti, 1870; in 8vo.
Il sig. Niccolò Giuliani da Vezzano, sotto-bibliotecario della R. Biblioteca dell’Università di Genova, sta di presente compilando la storia della tipografia ligure dall’anno 1601 a tutto il 1700, in continuazione a quest’opera, che in gran parte è frutto delle sue diligenti e amorose fatiche, e nella quale racconta le vicende della stampa nel Genovesato a cominciare dal 1472. Aspetteremo adunque che la sua continuazione abbia veduto la luce per discorrere largamente e a lungo di queste pregevoli Notizie, che sono corredate d’indici copiosissimi, di tavole in litografia e di fac-simili, e che fino a qui descrivono dugentotrentasei edizioni e contengono varii documenti inediti in appoggio del testo. Il supplemento (al quale dio opera anche il chiarissimo sig. Luigi Tommaso Belgrano) si chiude colla ristampa di una vecchia canzone sopra il sacco di Genova del 1522, già pubblicata per le stampe da Pier Paolo Porro e ora riprodotta nuovamente e con fedeltà sopra un esemplare della R. Biblioteca di Torino.
G. S.
Diciassette famiglie orvietane furono ascritte all’Ordine equestre di S. Stefano, che fondato da Cosimo I, si acquistò gloria combattendo in pro della fede contro i Turchi, e dal Governo provvisorio della Toscana venne soppresso nel 1859. Molti cavalieri ebbe la casata degli Alberici, molti quella de’ Gualtieri e dei Marabottini. N’ebbero i Lupicini, i Lattanzi, gli Albani, i Sensati, i Simoncelli, i Dolci, i Guidoni, i Saracinelli, la casata de’ Marsciano, i Miscinelli, i Magolotti, i De’ Baschi, i Monaldeschi della Cervara, i Magoni e i Febei.
L’autore è un giovane orvietano, che uscito di nobile casa e ricco d’averi, non spreca il tempo e il danaro in vani sollazzi, ma dà opera con molto amore agli studi storici, ne’ quali vorrà certo riuscire valente, se, come ha cominciato, prosegue con nobile costanza a coltivare l’ingegno di studi profondi e severi.
G. S.
Il primo volume delli Statuti senesi scritti in volgare fu pubblicato verso il 1863 per cura di Filippo Luigi Polidori. Dal Banchi, che gli succede nell’ufficio di Direttore dell’Archivio di Stato in Siena, si va proseguendo questa pubblicazione, da cui non solamente la storia della lingua, ma anche, e più specialmente, la storia civile della Repubblica senese riceve un’importante illustrazione. Se ne annunzia un terzo volume. E noi aspetteremo che sia venuto in luce anche questo per dare ai nostri lettori una compiuta informazione di questi documenti, ne’quali è delineata in gran parte la vita d’un Comune italiano nel medio evo.
Gli Statuti contenuti nel volume presente sono cinque: 1.° Statuto della Gabella di Siena; 2.° Statuto della Società del Padule d’Orgia; 3.° Statuto dell’Arte della Lana di Radicondoli; 4.° e 5.° Statuti dell’arte de’ Chiavari e dell’arte de’ Cuoiai e Calzolari di Siena. Sono stampati secondo l’ordine di tempo.
Per il primo bisogna aver la pazienza di leggere una gran quantità di nomi e di cifre: ma in tutti quei nomi di cose usuali c’è la notizia del vivere domestico dei Senesi, delle molte industrie che fiorivano in quella città; del commercio, dei prodotti campestri, delle cose che si usavano per il vitto e per il vestito, delle mobilie delle case, in maniera da potersi raffigurare quella vita che i molti raccoglitori delle antiche memorie non si curavano troppo di rappresentare.
Il secondo è lo Statuto di una Società o Consorteria formatasi, secondo che crede il Banchi, anteriormente al 1240, per bonificare i terreni adiacenti al castello d’Orgia in Val di Merse infettati da acque stagnanti.
Curiosissimo è il terzo; che vediamo per esso anzi tutto come in un piccolo paese qual è Radicondoli fiorisse l’Arte della Lana, nel modo che fioriva in altri paesi più piccoli (ed è attestato da altri Statuti, per esempio da quello di San Gimignano fatto noto dal proposto Pecori nella sua Storia), e quante minuto cure si davano per farla meglio prosperare. Però in mezzo a questo diligenze si vedono i pregiudizi economici propri dell’età, e le restrizioni alla individuale libertà per chi era ascritto ad un’arte; restrizioni per verità che dimostrano la imperfetta idea che ebbero i nostri antichi (e lo dice bene il Banchi) della libertà civile.
L’Arte dei Chiavari fece corporazione da so, distinta dalle altre ohe s’esercitano nel lavorare il ferro: e di queste per qualche tempo Siena ne contò ben diciassette dai Fabbri grossi e dagli Armaiuoli fino ai Forbiciari ed ai Manescalchi. Lo Statuto, oltre alle disposizioni comuni, ne contiene alcune che fanno fede della cura che si poneva per contenere chi esercitava quel mestiero dentro i limiti dell’onesto, e per impedire che gli strumenti da loro fabbricati servissero in altrui danno.
L’ultimo, cioè de’ Cuoiai e Calzolai, contiene nell’insieme alcune indicazioni dalle quali si può ricavare il modo di conciare le pelli, industria che era molto innanzi e dava molto profitto alla città.
Il lavoro per parte del Banchi è condotto con quell’amore e con quella diligenza che mette in tutte le sue cose, e più con quella intelligenza della storia della sua città natale di cui hanno avuto non poche prove i lettori dell’Archivio Storico. Nella elegante prefazione ha mostrato la natura e la importanza dei documenti, accertando, come gli era possibile, la data della compilazioue degli Statuti. Dove mancava qualche passo o per imperfezione del codice o per altre ragioni, siccome non ha voluto darci solamente un documento di lingua, ha supplito col testo latino. Le correzioni che in tempi successivi furon portate alli Statuti le fa conoscere in nota.
E in fondo al libro ha messo un copioso spoglio delle voci e maniere più meritevoli d’osservazione colla conveniente spiegazione.
G.
Sanno gli eruditi che il cavaliere Girolamo Rossi attende da alcuni anni ad illustrare le città della Liguria occidentale. Delle sue Storie di Ventimiglia e del Pricipato di Monaco fu già parlato nell’Archivio Storico (V. Serie Seconda, T. X, parte I, p. 149-154 e T. XII, par. II, p. 161-164). In seguito egli ha dato in luce la Storia del marchesato di Dolceacqua, la Storia della città di San Remo, e finalmente questa che ora annunziamo. Così colla sua operosità contribuisce a sostituire alle faticose compilazioni d’altri tempi e con quella critica sapiente che è succeduta alla credulità boriosa dei nostri maggiori, lavori più sobrii e più accurati che facciano meglio vedere nelle singole sue parti la storia della nostra nazione.
La storia di Albenga, nel suo insieme, non presenta notevoli differenze da quella di altre città italiane. Questa città ebbe due epoche di prosperità, la prima quando fu colonia romana inalzata poi al grado di Municipio: la seconda, Anche si resse a Comune nel medioevo. Subì anch’essa nel medio-evo tutte le vicende degli altri popoli, passando dalla soggezione feudale alla libertà comunale, e da questa alla sottomissione a Comune più potente, ricevendo i benefizi degl’ istituti religiosi per opera principalmente dei Benedettini, contrastando alle prepotenze dei signori e alle pretensioni del clero; funestata essa pure e danneggiata dalle intestine discordie. L’autore ce le presenta tutte queste vicende, incominciando dai tempi più remoti e risalendo ai Liguri Inganni per venire fino ai giorni nostri. Materiali ne erano stati apparecchiati da eruditi dei secoli anteriori: ma egli ha dovuto scegliere e vagliare; e v’ha aggiunto quello che gli hanno proccaciato le ricerche negli archivi pubblici e privati e l’esame di memorie non conosciute o imperfettamente dai predecessori.
Il racconto procede franco, disinvolto, ordinato per epoche, meno che nella parte concernente al medio-evo, dove la diversità delle cose da esporre necessitava una trattazione distinta dei fatti civili e della storia ecclesiastica. Piuttosto che imitare l’esempio d’altri che per gli uomini illustri e per l’arte hanno fatto de’ capitoli separati, il Rossi dà notizia degli uomini quando gli capita di rammentarli, e delle cose d’arte c’informa nella descrizione della città in principio del libro. Ha saputo bene scansare l’inconveniente di chi avendo a collegare naturalmente gli avvenimenti particolari con quelli della storia generale, non può trattenersi dal ripetere quello che altri hanno già detto e che gli studiosi già sanno; mostrando però nei cenni brevissimi e necessari d’essersi già accinto all’opera con tutto quel corredo d’erudizione per il quale sia possibile dare alle cose il giusto valore e degli uomini un giudizio imparziale.
Fa corredo al libro un’appendice con alcuni documenti inediti: notiamo in essa una raccolta di epigrafi antiche e del medio-evo trovate in Albenga e nel suo territorio, che sebbene già stampate le più, e sparse più qua e più là in diverse pubblicazioni, giova che si trovino qui riunite: notiamo pure un estratto degli Statuti d’Albenga del 1288 per quella parte che ha qualche cosa di speciale nell’ordinamento e nelle istituzioni del Comune.
G.
Sarebbe impossibile dare un estratto di questo libro, tanto la narrazione procede rapida e serrata: per cui, come facemmo del primo tomo, dobbiamo limitarci anche per il secondo a darne l’annunzio, col desiderio che qualcuno, rifacendo gli studi dell’autore, possa aggiungere, se ve ne saranno, fatti desunti da fonti sicure, o modificare alcun giudizio. La storia dei Municipi italiani minori va strettamente congiunta con quella dei maggiori co’ quali ebbero comuni le sorti, o delli Stati a cui s’aggregarono; per cui lo scrittore ha da guardarsi dalle ripetizioni fastidiose, che furono uno dei difetti di quelli storici municipali che si auguravano di trasmettere negli altri un troppo vasto concetto sulla importanza della città natale. Questo difetto, come non lo abbiamo trovato nella storia d’Albenga, non lo troviamo neppure nel Rosa. Il quale, se dal tema è costretto ad accennare gli avvenimenti generali della storia italiana, lo fa con molta rapidità e in modo che s’abbia a intendere meglio il fatto particolare, spesso accennando opinioni e giudizi propri non ricopiati da altri. In questo secondo volume sono narrate le vicende d’Ascoli dal 1421 fino ai giorni nostri. Gli effetti della libertà e della servitù, dei vari rivolgimenti a cui andò soggetto il paese trovandosi in mezzo a due de’ maggiori potentati italiani, e delle lotte intestine, si vedono nelle condizioni materiali che in ogni epoca l’autore descrive, nella cultura intellettuale ora in fiore ora in decadenza, nel culto alle arti, negli uomini che lasciano particolare memoria di sè. E questo studio particolare fa sì che di qualcuno ingiustamente dimenticato si restauri la fama, d’altri si sappia più e meglio di quel che ci dissero i precedenti scrittori, e maggiori elementi si raccolgano per giudicare dell’incivilimento italiano. Ascoli, reggentesi prima a libertà, e fino a tempi vicinissimi governandosi co’ suoi statuti e magistrati pure riconoscendo la sovranità dei pontefici, soggetta poi direttamente al pari delle altre terre che composero lo Stato papale, ebbe spesso la forza di sottrarsi alla influenza dei governi romani; ma spesso anche dovè subirla in bene o in male secondo la mente o l’animo di chi sedeva sul trono di San Pietro. Paese poco conosciuto prima, se non dagli eruditi che attesero allo studio delle storie municipali, ora, mercè l’affettuoso pensiero del nostro Rosa, trarrà a sè meglio l’attenzione. E gli Ascolani, benchè non sieno loro mancati concittadini studiosi delle patrie memorie, (e l’autore gli rammenta in più punti del suo libro) sapranno grado al Rosa d’avere in un quadro bene animato raffigurato il ritratto della loro città, sì che dal passato possan prender le norme dell’avvenire.
G.
Negli anni decorsi il signor Niccolò Barozzi cominciò a pubblicare la Raccolta Veneta col pensiero di giovare alli studi della storia per mezzo dei documenti che forniscono l’archivio dei Frari, la biblioteca Marciana e il museo Correr. Ma l’impresa arrenò per colpa dei tempi, non perchè al signor Barozzi ed a’ suoi cooperatori venisser meno l’affetto e il coraggio. E sanno gli eruditi quanti tesori stanno ancora inesplorati in quei tre stabilimenti, sebbene molti italiani e stranieri vi facciano ricerche e ne estraggano preziosi materiali. A Venezia non è stata ancora istituita, come in altre Provincie del Regno, una Deputazione di Storia patria; e se ne sente la mancanza. Ma intanto, mentre crediamo che a tale istituzione sieno rivolti i pensieri di chi soprintende alli studi, vediamo con somma compiacenza risorgere con altro nome e con diversa forma la Raccolta Veneta. Alcuni egregi cultori delle storiche discipline, ben conosciuti per dottrina e per amore agi’ incrementi della nazionale cultura, si sono riuniti per pubblicare ogni tre mesi una specie di Giornale storico, avendo principalmente riguardo alle cose veneziane, senza voler trascurare il rimanente delle cose italiane. Nei due soscrittori del Programma ci è caro di trovare, insieme con Rinaldo Fulin, il nostro Adolfo Bartoli, che per qualche tempo, vivendo Giovan Pietro Vieusseux, aiutò col suo ingegno e col suo sapere la direzione dell’’Archivio Storico Italiano: e siamo pur lieti di vedere che il nostro Periodico, come lo ebbe fondato il venerato Vieusseux, ha servito di modello al Veneziano. Auguriamo alla nobile impresa tutto il favore delli studiosi. Questa, che ad alcuni potrebbe sembrare dispersione di forze, noi crediamo invece che sia una manifestazione di nuova vita intellettuale che nelle varie parti d’Italia si va esplicando.
Non potendo particolarmente dar notizia della prima dispensa testò venuta alla luce, ne riproduciamo l’indice. Ai lettori (Adolfo Bartoli, Rinaldo Fulin) Memorie Originali: Gl’Inquisitori dei Dieci (R. Fulin). Degli archivi veneti antichi (B. Cecchetti). Documenti illustrati: Lettera dell’imperatore Massimiliano I ai suoi oratori presso la Corte di Roma (T. Gar.). Disegno di Gerolamo Morone alla Maestà Cesarea per la cacciata dei Francesi dall’Italia (F. Stefani). Documenti per servire alla Storia de’ Banchi veneziani (F. Ferrara). Aneddoti storici e letterari: Una lettera di Alessandro VI (R. Fulin). Due suppliche di Aldo Manuzio (R. Fulin). Primi vilegi di stampa in Venezia (R. Fulin). Matteo Maria Bojardo (R. Fulin). L’adorazione dei Magi di Palma il Vecchio (F . Stefani). Paolo Paruta (F. Stefani). Un Alchimista a Venezia (B. Cecchetti). Rassegna bibliografica di R. Fulin, B. Cecchetti, A. Bartoli, G. Nicoletti. Cronaca dell’Archivio generale di Venezia. Annunzio della morte di Agostino Sagredo.
G.
Francesco Ferrara continua i suoi studi storici sugli antichi Banchi di Venezia; e nel fascicolo di gennaio tratta dei banchi del secolo XVI, e del loro redime legale. Fu già detto che a questo lavoro diede occasione il libro di Elia Lattes sull’argomento medesimo: perciocchè l’illustre economista, postosi ad esaminare e quasi a rifare la via del signor Lattes, trovò che, pur mantenendo le deduzioni di lui, se ne poteva allargare la trattazione. Al che gli hanno giovato le pazienti ricerche nell’Archivio dei Frari, dove ha trovato importanti documenti che pubblica nel nuovo Periodico di Venezia che qui sopra annunziamo. Unendo in questo modo alla dottrina profonda dell’economista la minuta analisi dell’erudito viene ad arricchire d’una pregevolissima monografia la storia della scienza economica.
Nel medesimo fascicolo è pure la continuazione del Saggio storico e politico di Celestino Bianchi sulla Questione romana, discorrendo di quanto fece per essa il governo italiano nel tempo che il barone Bettino Ricasoli sedè a capo dei consigli della corona.
Il nostro Gaetano Milanesi, compiuti oramai gli studi da qualche tempo intrapresi sulla Storia della Miniatura in Italia, dopo i viaggi che ha fatto per le provincie italiane, esaminando quanti libri miniati eran venuti a sua notizia, rovistando negli archivi per trarne nomi d’artisti, date di commissioni e altro che potesse giovare al suo assunto, ha dato principio alla stampa del suo lavoro che riempirà una lacuna nella storia dell’arte italiana. Per ora non abbiamo che l’introduzione (fascicolo di gennaio) in cui l’autore dà informazione del come avesse dal ministro Domenico Berti la commissione di questo lavoro, delle diligenze da lui poste per rispondere degnamente alla fiducia che in lui pose il ministro interpretando l’animo di quanti pregiano nel Milanesi la cognizione, l’acume ed il gusto delle cose dell’arte, e della cooperazione che ha avuto nei viaggi e nelle ricerche da Carlo Pini.
Alla Storia della letteratura appartengono gli scritti di Francesco De Sanctis sulla Gerusalemme Liberata (gennaio) e di Eugenio Camerini intorno a Giovan Battista Della Porta, ingegno napoletano del secolo decimosesto poco e molto meno del merito famoso, scrittore di parecchie commedie che lo mostrano, come lo dice l’autore, uno dei precursori del Goldoni.
G.
Questo commentario sulla vita del Nunziante, noto agli studiosi della storia contemporanea fino dal 1839, viene ora ristampato con notabili aggiunte, che riguardano specialmente l’amministrazione della Sicilia, della quale il Nunziante ebbe il governo nel 1821 e nel 1830. Curiosi particolari sulle condizioni morali ed economiche dell’isola si leggono nei capitoli X e XII, tratti dalle relazioni che il Nunziante inviava al Re, e che il Palermo offre compendiate al lettore. Fa seguito alla vita del Nunziante un breve ricordo della sua virtuosa moglie Cammilla Barrese, nativa dell’isola di Lipari, sopravvissuta al marito tino al 1840. M. T.
È un libretto di 50 pagine poco più, che merita di esser letto anche dopo le recenti pubblicazioni sulla Storia diplomatica degli Stari d’Italia dal 1815 al 1859, perchè ci dà notizie e documenti sfuggiti alla diligenza dei precedenti raccoglitori. La trattativa diplomatica del Conte di Revel per riacquistare al suo Re la Savoia, la quale col trattato di Parigi del 1814 era rimasta alla Francia, ci è parsa cosa affatto nuova; al pari di certe offerte austriache dirette ad indebolire il Piemonte dal lato di Lombardia, coll’esca di una più grassa partecipazione all’indennità dei 700 milioni imposta dai collegati alla Francia. Il Carutti che è insieme storico e diplomatico, ha saputo dare a queste rivelazioni una forma sobria e precisa, senza importuni divagamenti, mostrando [chiaramente come i trattati del 1815 imponessero alla Casa di Savoia quella politica nelle cose d’Italia che fu da lei seguita con risoluta fermezza e con sì splendido successo.
M. T.
Di questa importante raccolta periodica che si pubblica a Roma per cura del benemerito Principe Baldassarre Boncompagni, altre volte abbiamo fatto ricordo in questo Archivio, sebbene la storia scientifica non formi soggetto delle nostre ricerche ed esca dai fini assegnata alla nostra rivista. Torniamo ora a rammentarla, perchè nei volumi sopracitati troviamo due lavori che possono interessare il comune degli eruditi.
Il primo si riferisce alle Memorie concernenti il marchese Giulio Carlo de’ Toschi di Fagnano, che erano tra le carte del conte Giovanni Maria Mazzucchelli passate nella Biblioteca Vaticana, e che ora ha messo in luce per la prima volta con copiose note il Principe Boncompagni. Queste memorie illustrano la vita del Fagnani fino al 1752, cioè fino a 14 anni prima della sua morte, e servono a correggere molte inesattezze in cui caddero quanti scrissero sopra questo matematico illustre, così nostrani come stranieri. Le stesse date della nascita e della morte, erroneamente indicate dai precedenti biografi, l’ultimo dei quali fu il conte Giuseppe Mamiani della Rovere, ha potuto rettificare il solerte editore di queste memorie, con prove raccolte dalla instancabile sua diligenza. Quanto al Fagnani che fu uno degli uomini più celebri che avesse l’Italia nel secolo XVIII, onorato da Luigi XV, da Carlo III e da Benedetto XIV, serviranno queste memorie a rinfrescarne la fama, anche presso coloro che non fanno professione di scienza.
Il secondo è una notizia sconosciuta relativa a Bonaventura Cavalieri, pubblicata dal prof. Ferdinando Iacoli. Questa breve scrittura che il Boncompagni ha arricchito di note, è diretta a rendere intelligibile un passo dell’orazione funebre che Giovan Francesco Fangarezzi recitò ai funerali del celebre Gesuato, e che fu stampata in Milano nel 1648. Coll’aiuto di alcuni rarissimi opuscoli da lui posseduti, dimostra il prof. Iacoli che il Cavalieri fu chiamato giudice in una controversia sulla quadratura del circolo insorta tra il Longomontano ed il Peli. Questa notizia commentata con molto apparato di erudizione scientifica, non è senza importanza per la vita scientifica del Cavalieri.
M. T.
Il presente fascicolo è tutto consacrato alla filosofia, e contiene il seguito delle lettere del prof. G. M. Berlini sulla religione; uno scritto di Terenzio Mamiani intitolato «della Circolazione della Scienza»; le Considerazioni del prof. Luigi Ferri sull’Epicurismo e l’Atomismo, che prendono occasione dal recente libro del professor Gaetano Trezza intorno a Lucrezio, e che appartengono alla storia della filosofia. In ultimo il prof. G. Barzellotti fa una rivista dei principali giornali filosofici, coll’intendimento di tenere gli studiosi della filosofia in giorno del movimento intellettuale rispetto a questa scienza.
(G.)
Quando la R. Accademia di Lucca pose mano a illustrare la storia paesana, fu affidata la trattazione della zecca e delle monete lucchesi al conte Giorgio Viani della Spezia, che allora in fatto di numismatica andava in Italia molto lodato. Prese egli a raccogliere quante più monete poteva, e un bel numero ne adunò; e certo avrebbe con lode condotto a fine il lavoro, se di cinquantaquattro anni non lo coglieva la morte, ai 4 dicembre del 1816. La sua collezione delle monete lucchesi ed i suoi manoscritti vennero comprati dal Municipio di Lucca, e così l’una come gli altri si conservano nella R. Biblioteca. A Giulio Cordero de’ conti di S. Quintino restò afiidata dall’Accademia la continuazione dell’opera. Trasse egli dai pubblici e da’ privati musei numismatici d’Italia e d’oltremonte i disegni delle monete lucchesi, che mancavano alla collezione del Viani, e a spese dell’Accademia furono incisi in xxvii tavole da C. Pastore. Illustrò con due dissertazioni le monete battute in Lucca prima che la città fosse riunita al Regno de’ Longobardi e durante la signoria loro; ma poi, non so per che modo, lasciò in tronco il lavoro, e venne a morire senza che fosse condotto a fine.
Le xxvii tavole e le due dissertazioni del S. Quintino furono pubblicate dall’Accademia nel 1860, coi torchi di Giuseppe Giusti, nel tomo xi delle Memorie e documenti per servire alla storia di Lucca, insieme con una nuova tavola, con un ragionamento dello stesso S. Quintino sulle zecche e sulle monete degli antichi Marchesi della Toscana, e con un discorso dell’abate Domenico Barsocchini sulle vicende della zecca di Lucca sotto Carlo Magno e sotto la stirpe di lui in Italia.
La parte seconda dell’undecimo tomo delle Memorie e documenti, che è venuto adesso alle stampe, a spese e per cura dell’Accademia, è opera per intiero del Sig. Domenico Massagli di Lucca. Ha principio con alcuni cenni storici intorno all’origine e antichità della zecca lucchese, ed a questi cenni tengono dietro sei discorsi, de’ quali mi piace di riportare il sommario.
I. Sulle monete battute in Lucca sotto il dominio de’ Franchi ne’ secoli viii e ix.
II. Sulle monete battute in Lucca sotto gli Imperatori della Germania e re d’Italia ne’ secoli x, xi e xii.
III. Sulle monete battute in Lucca in seguito alla riforma monetaria di Federigo II nei secoli xiii e xiv.
IV. Sulle monete battute in Lucca sotto il patronato di Carlo IV e suoi successori ne’ secoli xiv e xv.
V. Sulle monete battute in Lucca sotto Carlo V e coi distintivi della Repubblica lucchese nei secoli xvi, xvii, xviii.
VI. Sulle monete lucchesi sotto il principato de’ Baciocchi ed il Ducato de’ Borboni nella prima metà del secolo xix.
Illustra quindi il sig. Massagli i piombi, i suggelli e le medaglie appartenenti alla storia di Lucca; e delle monete, de’ piombi, de’ suggelli e delle medaglie da lui conosciute dà un catalogo, che si legge dalla pag. 167 alla pag. 222. L’opera si chiude colle xxvn tavole già fatte incidere dal S. Quintino, alle quali il Sig. Massagli ne ha aggiunte tre di nuove, litografate da Raffaello Bertini.
G. S.
Al canonico Baldassarre Taravacci da Vezzano, buon poeta latino, del secolo XVI, è toccata una ventura rara tra noi, imperocchè un suo carme col quale prese a descrivere la Lunigiana e che restò inedito, in due anni è venuto due volte alle stampe. Lo pubblicò a Lucca il canonico Pietro Andrei di Carrara co’ torchi del Landi nel 1869 per festeggiare le nozze di un amico suo, e lo pubblicò corredato di note spesse e succose a migliore e maggiore schiarimento del testo. Lo pubblica adesso di nuovo il Sig. Achille Neri di Sarzana, che vi ha speso attorno molte cure. La versione non è sua, bensì le note.
Con savio consiglio ne riporta parecchie di quelle dell’Andrei, ma più assai ve ne aggiunge di proprio, ricche di pregiate notizie e scritte con molto senno e con bel garbo. È un caro libriccino, che si legge con gusto e insegna molte e buone cose.
G. S.
Altra volta tenemmo parola di questo giornale, che per cura del commendatore Francesco Zambrini si stampa da tre anni a Bologna con assai vantaggio de 1 buoni studi. Tra le molte scritture di die va ricco il presente volume, appartiene alla storia una dissertazione del cav. Di Giovanni intorno a Giovanni da Procida e al rivolgimento di Sicilia del 1282. Appartiene alla letteratura, ma colla storia ha stretta attinenza, un dotto lavoro del sig. Girolamo Vitelli, col quale, a mio credere, dà fine alla spinosa controversia che si agita di presente sulle Carte di Arborea; e di queste torna a ragionare nel volume stesso il senatore Carlo Vesme, cogliendo occasione da un sonetto italiano del secolo xii e da una canzone sarda, che appunto sono tratte dalle carte medesime. G. S.
Come saggio del suo Diario storico d’illustri italiani da Federigo II di Sicilia fino alla morte del Cavour, che sta di presente stampando a Milano a benefizio del Pio istituto tipografico di quella città, il sig. abate Giuseppe Roberti ha mandato in luce questa Apologia del benemerito cardinale Federigo; la quale ne dà chiaro a conoscere di quanta erudizione debba andar ricca l’opera del sig. Roberti, che desideriamo sia presto divulgata e fatta pubblica per le stampe.
G. S.
Il marchese Giuseppe Campori trascrisse buona parte delle lettore presenti, che sono quarantasette e tutte inedite, da un manoscritto che si conserva a Modena nell’archivio del Collegio di S. Carlo e porta la data dell’anno 1600. Trasse le rimanenti dalla Biblioteca e dall’Archivio governativo di Modena, dall’Archivio di Mantova e dalla Biblioteca nazionale di Firenze. «Queste lettere (scrive l’editore; né prende abbaglio) si raccomandano alla considerazione degli studiosi, non solamente come componimenti fin qui sconosciuti di un illustre scrittore, ma sì ancora per la qualità delle notizie che vi si contengono, e per il complemento che danno a quelle in istampa che per esse ricevono opportune dichiarazioni. E per tacer d’altro, troviamo qui qualche nuovo ragguaglio della vita, delle avventure e delle opere di Bernardo; notizie sul matrimonio di Cornelia, sugli studi di Torquato e su certa proposta del Duca d’Urbino di dargli moglie, fatto ignoto a tutti i biografi di lui; né mancanvi particolari di qualche conto intorno letterati, siccome il Ruscelli, il Dolce, il Giraldi, il Manuzio, ed altri coi quali Bernardo teneva relazione».
In fronte alle lettere si legge la vita di Bernardo Tasso, dotta e accurata scrittura del Sig. Campori, che va ricca di parecchie notizie tino a qui del tutto sconosciute, le quali spargono nuova luce non solamente sul Tasso, ma ben anche su varii letterati che tìorivano al tempo suo. Sette documenti inediti fanno corredo alla vita dell’autore dell’Amadigi; e tra’ documenti si trovano alcuni brani del carteggio di Alfonso Rossetti, ambasciatore in Ispagna pel Duca di Ferrara, che chiariscono meglio i casi della missione affidata a Bernardo Tasso per impetrare salva la vita a Filippo Strozzi.
G. S.
Del prof. Antonio Bertoloni, che morì a Bologna ai 17 di aprile del 1869, scrissero le lodi Filippo Parlatore e Giovanni Brugnoli. Ne ricordò pure le virtù dell’animo e dell’ingegno colla presente orazione, letta all’Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna e nel tom. x serie II delle Memorie dell’Accademia stessa pubblicata, il sig. Cammillo Versari da Forlì.
Nacque il nostro Antonio a Sarzana agli 11 di febbraio del 1775 di Francesco Bertoloni e della Maria Anna Casoni. A Pavia dio opera allo studio della medicina, avendo a maestri il Frank, lo Scarpa, il Volta e lo Spallanzani. Preso di amore per la botanica, consigliato dallo Scapoli e dal Frank, pose mano a un erbario della provincia pavese, lavoro che andò perduto. A Genova compiè i suoi studi e vi prese la laurea dottorale. Ridottosi in patria, cominciò ad esercitare la medicina; poi fu chiamato a Genova professore di fisica in quel Liceo, e fisica insegnò pure nell’Università genovese col titolo di supplente. Nel 1815, per consiglio di Gaetano Savi, venne eletto professore di botanica nell’Ateneo di Bologna; e in cosiffatto carico spese la vita, che fu lunga e serena.
Colla morte del Bertoloni non solo è venuto a mancare all’Italia un famoso botanico, ma alle discipline storiche un amoroso coltivatore. Delle molte e lodate sue opere scientifiche ragiona a lungo il sig. Versari; e racconta pure come si abbia a stampa di lui una biografia di Ernesto Mauri, un’orazione latina in lode di Marcello Malpighi, gli elogi del prof. Ottaviano Targioni Tozzetti, del cav. Ippolito Durazzo e della Clelia Durazzo Grimaldi, una dissertazione sulle antiche mura di Luni, un ragionamento sulla patria del pontefice Niccolò V, parecchie lettere a Carlo Promis sul forte di Sarzanello, un commentario in latino della vita e delle opere di Antonio Ivani e altre scritture risguardanti la storia, le arti belle, la bibliografia e le amene lettere.
G. S.
Leggendo questo libro, si vede chiaramente che l’autore l’ha composto col pensiero di far cosa vantaggiosa alla patria. Contiene, secondo che mi pare, tutto quello che importa conoscere della storia d’Inghilterra rispetto all’origine e allo svolgimento delle civili istituzioni con quei raffronti che sieno capaci di renderne profittevole lo studio. Non è una compilazione messa assieme pigliando di qua e di là; ma è lavoro di getto, conseguenza di lunghi studi aiutati dalla esperienza.
Nella prima parte, che l’autore intitola «Gli Apparecchi», mostra lo stato dell’Inghilterra nel Medio-Evo, gli effetti della Conquista Normanna nella composizione della società, la natura e il carattere del Feudalismo, e il primo fondamento della Costituzione nella Magna Carta di Giovanni Senza Terra. Nella seconda e terza parte intitolate «Le Basi» e «La Lotta» vediamo lo svolgersi lento ma continuo delle istituzioni, nonostante il contrasto della Monarchia, le contese, le guerra civili e le difficoltà esterne. Fino a tutta la terza parte il libro è un riassunto della storia inglese, un esame accurato e sapiente dei grandi avvenimenti pei quali si apparecchiarono e si compirono le due rivoluzioni onde trionfò la libertà. Vediamo passarci quasi davanti agli occhi gli uomini più segnalati che a tutti quei tatti parteciparono; ne osserviamo la fisionomia e il carattere morale; vediamo tutta una società che a poco a poco si dirozza, che si forma a una civiltà tutta sua propria, che si appassiona per istituzioni confacenti alla sua natura. L’ultima parte «Il trionfo» non è un racconto seguitato dal 1688 ai giorni nostri, ma un esame delle questioni che si sono agitate in questi due secoli. La stampa, i partiti, le condizioni della Chiesa rispetto allo Stato, la riforma elettorale danno all’autore argomento di osservazioni, di riflessioni, di giudizi opportuni. Conchiude con un capitolo in cui son delineati i caratteri speciali della Costituzione inglese.
Il signor Ricotti ha l’arte di attirare l’attenzione dei lettori. Egli dice tutto quello che è necessario e senza una parola di più: sa bene quello che dice, e appunto per questo i suoi libri son letti con frutto. Non si rinvolta fra le nebbie come certi scrittori che s’immaginano di far impressione con le astrattezze e con un gergo che probabilmente intendon poco loro medesimi. L’argomento che aveva preso a trattare è vastissimo: doveva riandare tutta la storia d’un gran popolo, la storia d’istituzioni che sono prese a modello da altre nazioni: né poteva farla intendere senza far conoscere tutte le circostanze per le quali gli ordini civili hanno preso incremento. Arrivati in fondo al suo libro tutta quella serie di cose, tutti quegli uomini ci si presentano al pensiero distintamente, senza la minima confusione: egli non si perde in vuote declamazioni; manifesta le sue opinioni politiche e i suoi giudizi sui partiti con calma e con dignità: gli ammaestramenti che ha inteso dare ai suoi concittadini resultano da tutto l’insieme delle cose discorse e dal modo dell’esposizione.
G.
La prima delle due Cronache contenute in questo volume fu pubblicata in latino dal Muratori nel Tomo XYI delli Scriptores. Qui è riprodotta nel volgarizzamento, di cui aveva dato notizia il Muratori stesso, e che si conservava inedito nella Biblioteca Nazionale di Napoli. La seconda, pure in volgare, che seguita il racconto del Castelli descrivendo le discordie cittadine e le calamità che da queste derivarono, viene in luce ora per la prima volta. Il canonico Finazzi, che da molti anni attende allo studio della storia della sua natale città, e ben noto agli eruditi per parecchi lavori, oltre ad avere con diligenza riscontrato il volgarizzamento del Castelli col testo latino del Muratori e con qualche altra copia, ha illustrato il periodo storico trattato dai due cronisti con note erudite, aggiungendo due frammenti di Cronache Venete anonime, il primo concernente agli avvenimenti dal 1412 al 1433, il secondo quelli dal 1427 al 1483.
G.
È un catalogo delle Zecche italiane dal regno d’Odoacre fino al 1869. L’autore ha creduto che volendo fare della Numismatica un efficace sussidio alla Storia, dovesse all’ordine alfabetico sostituirsi l’ordine cronologico e geografico. Le sue ragioni le dichiara colla semplicità e modestia proprie di chi sa molto e bene, in una breve prelazione. Il suo catalogo è diviso in due parti: nella prima sono registrate le zecche italiane dall’anno dell’E. V. 476 al 1075: nella seconda dal 1075 al 1869. Procede rigorosamente secondo la Cronologia, quando le dominazioni straniere nell’età barbarica non gli consentono distinzioni geografiche; e rammenta i principi sotto i quali si batterono le monete, i luoghi dov’erano le zecche, la specie delle monete. Quando incominciano a stabilirsi varie signorie, e quando nella Penisola si formano le molte autonomie, allora procede coll’ordine della geografia, andando dal settentrione al mezzo giorno. La memoria dello studioso è aiutata in questo da due carte geografiche che fanno appendice al libro; come ne sono aiutate le ricerche da due indici delle officine monetarie e delle famiglie feudatarie che batteron moneta precedute dal catalogo dei Santi che si trovano nominati o effigiati sulle monete. Ve anche aggiunta una bibliografia di Numismatica italiana, distinta in due serie, cioè Trattati sulle monete in genere, e Trattati sulle monete in particolare. Finalmente ci troviamo una tavola dei monogrammi.
Chi attende allo studio della Numismatica potrà degnamente apprezzare l’opera del padre Tonini che ha consacrato la vita a questa scienza. Noi dovevamo rammentare un lavoro condotto con singolare pazienza per giovare alla scienza storica, un lavoro che sotto la modesta forma di Catalogo e d’Indici rivela una vasta dottrina; uno di quei lavori insomma che mostrano la risvegliata operosità degl’ingegni italiani.
G.
È un’opera condotta dal conte Luigi Passerini con quella diligenza e con quel corredo d’erudizione con cui ha illustrato la storia di tante altre famiglie italiane. L’ha fatta per incarico del duca di Luynes, che discendente dalla famiglia fiorentina degli Alberti, ebbe in animo non solo di far note le vicende della illustre casata, ma anche di rischiarare que’ periodi della Stona italiana in cui gli antenati suoi ebbero più azione. Ognuno conosce i meriti d’Onorato d’Albert duca di Luynes, cultore amoroso e patrocinatore splendido delli studi storici e archeologici. Le intenzioni di lui, dopo la sua morte avvenuta nel 1867, furono religiosamente rispettate dal nipote ed erede duca Carlo. In conseguenza per la loro munificenza s’è compiuto un lavoro di molta importanza per gli studi storici. Il primo volume contiene la genealogia e le biografie degli uomini più segnalati della famiglia. Nel secondo è una bella raccolta di documenti distinti in tre serie: nella prima serie son quelli che concernono alla genealogia: nella seconda quelli che fanno fede delle opere di beneficenza onde gli Alberti si resero tanto benemeriti di Firenze: i documenti della terza servono a portar nuova luce alla Storia della repubblica fiorentina nel tempo in cui la famiglia Alberti grandeggiò e decadde. Serve di corredo ai due volumi un Atlante contenente i disegni delle pitture a fresco fatte eseguire dalla famiglia nel coro di Santa Croce, nella sagrestia di San Miniato al Monte, e nella cappella di Santa Caterina all’Antella, colle relative illustrazioni. Le tavole sono state incise nello studio Perfetti, sui disegni di P. Miniati: le descrizioni sono del signor Passerini.
Essendosi pubblicato il libro recentemente, non abbiamo avuto il tempo di darne se non questo brevissimo annunzio, tanto per mostrare la riconoscenza che crediamo doversi avere ai duchi di Luynes ed al signor Passerini; proponendoci però di farne argomento d’una Rassegna bibliografica. Il nome degli Alberti figura nelle pagine più belle della storia civile, artistica e letteraria d’Italia: è congiunto alle più nobili istituzioni di beneficenza: perciò sentiamo il dovere di render conto ai lettori dell’Archivio Storico di questo libro. Il quale comparisce in una splendida edizione del nostro tipografo Mariano Cellini.
G.
Al medesimo signor Passerini dobbiamo la storia di quest’altra famiglia fiorentina, le cui gloriose tradizioni sono continuate splendidamente ai nostri giorni dal venerando Presidente della nostra Deputazione di Storia Patria. Sono ventidue tavole con molte biografie degli uomini più ragguardevoli. Anche di questo nuovo lavoro del signor Passerini, faremo parola in uno de’ prossimi fascicoli dell’Archivio Storico.
«Raccogliere dagli Archivi pubblici e privati delle Marche i documenti storici più importanti dei tempi di mezzo inediti ed editi rari, e pubblicarli per assicurarne la conservazione, per moltiplicarli a beneficio degli studiosi; per compilarne la storia marchigiana a vantaggio del futuro scrittore della italiana, è il vero intendimento di questa collezione». In queste parole è riassunto il concetto della impresa a cui s’è accinto il signor Ciavarini, al quale non mancano e non mancheranno incoraggiamenti ed aiuti. Il primo volume della collezione venuto in luce al principio del corrente anno, è tal saggio da poterne ricavare buoni auguri. In esso vengono per la prima volta pubblicate le Cronache Anconitane di Lazzaro Bernabei, che narrano gli avvenimenti dal secolo XII al 1497, collazionate su vari codici, precedute da una dotta prefazione, arricchite di note illustrative e corredate di un indice storico e geografico, tutto lavoro di diligenza e pazienza del signor Ciavarini. Per appendice alle cronache, affinchè la narrazione pervenisse al 1532, in cui Ancona perde la libertà, l’editore ha pubblicato un capitolo della cronaca di Bartolommeo Alfeo, dove è raccontato come il governatore delle Marche Bernardino Della Barba, coll’aiuto delle armi di Luigi Gonzaga, sottomettesse la città d’Ancona al dominio del papa; e il processo di Vincenzo Fanelli, nel quale è ritratto il feroce governo del cardinale di Ravenna Benedetto Accolti.
La prefazione generale è seguita da un Dizionario geografico delle Marche e da una diligente bibliografìa storica marchigiana, elove lo studioso delle storie può trovare indicato ogni lavoro fatto nel passato a illustrare le diverse parti di quella provincia italiana. E dopo la dissertazione intorno alle cronache del Bernabei, si trova un inventario dell’archivio Comunale d’Ancona.
Noi crediamo che il signor Ciavarini e gli altri studiosi che gli danno mano a questa bell’opera coadiuveranno efficacemente quella a cui attendono le Deputazioni di storia patria. Tutte queste imprese hanno comune lo scopo; accrescere e ordinare i materiali per la storia della nazione: portar nuova luce nei fatti già noti e raccontati secondo le idee che signoreggiarono le menti degli scrittori, spesso con poca o nessuna critica; levare dagli archivi, che per necessità devono esser messi a sesto dove non sono, i documenti più importanti. Il tempo e l’esito dei molti tentativi faranno forse sentire la necessità di riunire in una sola queste varie Società che vediamo formarsi nelle provincia dove le memorie del passato impongono dei doveri per l’avvenire. G.
In questo settimo volume della Biblioteca storica e letteraria di Sicilia è stampata una metà del Diario lasciato manoscritto da Antonino Mongitore: l’altra metà, secondo che promette l’editore, verrà in luce coll’ottavo volume. Il Mongitore figura fra i grandi eruditi italiani de’ secoli XVII e XVIII: egli nel tempo medesimo che attendeva alle vaste compilazioni e alle molte e varie operette da cui tanta luce si spande sulla storia dell’isola, registrava giorno per giorno i fatti che gli sembra van degni di memoria, seguitando per circa sessant’anni.
Come uomo di Chiesa e devoto, dava speciale importanza alle cose attinenti alla religione: per cui si trattiene più volentieri a descrivere le funzioni di chiesa, le processioni, i funerali, gli assetti sfarzosi, e a rammentare le morti dei preti e de’ frati che lasciaron buon nome. Dal 1680 al 1700, stando solamente alla testimonianza di lui, si direbbe che fu un tempo di rara tranquillità e quasi di felicità per la Sicilia, interrotto soltanto da spaventevoli terremoti nel 1693, che rovinarono parecchie terre colla uccisione di centinaia di persone. Una sola cospirazione contro il dominio straniero ordita e terminata nel 1697 col supplizio di tre de’ capi. Nel sentire gli sfarzi che si facevano per le giostre, per le feste di Santa Rosalia, per solennizzare avvenimenti favorevoli alla monarchia spagnuola, per i funerali, viene l’idea che il paese nuotasse nell’abbondanza. Però non si parla che della nobiltà e del clero, le due classi allora ricche e potenti. Del popolo non una parola, se non per mostrarlo affollato per le chiese a far penitenza e a pregare. Si edificarono in quel tempo alcuni sacri edilizi e si adornò la città di qualche nuovo monumento e di qualche istituto di beneficienza: e per verità a questo concorreva il clero che era numerosissimo, come si vede dalle descrizioni che ordinatamente fa l’autore di alcune processioni solenni.
Pochissimo si parla dell’amministrazione civile. Con somma brevità s’accennnano le sessioni del Parlamento (su questo però l’autore scrisse un libro appositamente), e non v’è fatto parola che del donativo stabilito per il re: meno che d’una sessione del 1689 si dice che «fu per grazia domandato al re, che interponesse la sua autorità appresso il papa, per ottenersi il nuovo officio di S. Rosalia, e che fosse dichiarata padrona del regno, e a 4 di settembre festa di precetto in Sicilia. Inoltre domandò, che il re pure facesse istanza al pontefice per le beatificazioni di D. Girolamo da Palermo e del beato Pietro Geremia, palermitani, e del padre Luigi Lanuza e fra Bernardo da Corleone». Vi si parla d’uno screzio nel 1680 fra la potestà civile e l’ecclesiastica, perchè l’arcivescovo aveva scomunicato de’ frati che per rivalità coi Domenicani, non avevano voluto prender parte a una processione, e dal vicerè era stato confinato a Termini: onde il vicerè e i suoi ministri incorsero nelle censure, dalle quali per ordine venuto da Madrid dovetter chiedere l’assoluzione, e restituire alla sua sede il prelato.
Il paese fu per qualche tempo inondato dalle monete false, in modo che per levarle di corso il governo dovè coniarne delle nuove e cambiarle alla pari.
Il mutamento di dinastia in Spagna per la morte di Carlo II pare che sul subito non producesse alcun effetto in Sicilia. I funerali per il defunto re furono tanto suntuosi che se ne stampò la relazione in un volume di 700 pagine in folio. E straordinarie furono le feste per l’acclamazione di Filippo V, descritte dal Mongitore in stile alquanto pomposo in un opuscolo che fu dato alle stampe, e che il signor Di Marzo ripubblica in questo Diario.
Ma che gli animi fossero del tutto quieti e alieni dalle novità non si potrebbe affermare. Racconta il Mongitore brevissimamente che pervenuta la notizia della successione di Filippo V, il vicerè chiamò i consoli delle maestranze per esortarli alla quiete e alla pace e a ricevere la disposizione fatta dal morto monarca. Poi nel 1702 fu per ordine venuto da Madrid proibito alle persone forestiere di predicare la quaresima; onde alcune chiese restarono senza le prediche consuete.
Le ultime pagine del presente volume concernenti alle cose de’ primi due anni del secolo XVIII, presentano maggiore curiosità. Oltre ai cenni sul governo del vicerè duca di Viraguas, il quale «invece di mostrare particolare attenzione in reggere la Sicilia, procurava a tutta diligenza di spolparla», venuto in odio anche per la ingordigia mercantile d’un suo figliuolo; oltre ai cenni sui movimenti e sui tumulti di Messina nel 1702, che perseverava nella sua avversione al dominio spagnuolo, notevolissima mi sembra la narrazione del processo contro un prete, don Gennaro Antonio Cappellari, andato a Palermo per intrigare a favore dell’Austria; narrazione che occupa otto pagine, facendo conoscere le forme usate nei processi criminali, le gare fra le autorità secolari ed ecclesiastiche e le questioni insorte sui modi della degradazione. Don Gennaro Cappellari finì la vita strozzato. Esposto il cadavere «legato a un palo, concorse a vederlo in folto numero il popolo... Molti raccolsero della terra che stava sotto de’ piedi, con la quale dicono esser seguite operazioni miracolose, che si pubblicarono da per tutto. Alcuni però le stimarono dicerie di volgo, onde furono da’ ministri della giustizia ristretti in prigione quelli che si pubblicavano risanati in virtù di quella terra».
G.
Ozio e lavoro, poveri e ricchi, Proverbi latini illustrati da Atto Vannucci. - In 8.°, di pag. 117. - Venezia, tipografia di G. Antonelli. (Estr. dal vol. XVI, Serie III degli Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti).
Le idee che prevalsero sugli argomenti intorno a’ quali il Vannucci ha raccolto i Proverbi contenuti e illustrati nel nuovo opuscolo che ora annunziamo, spiegano le ragioni per le quali i popoli vennero in prosperità o decaddero. La letteratura latina è la fonte da cui egli principalmente desume i proverbi; ma, secondo che abbiamo notato altre volte, gli mette a confronto coi proverbi d’altre nazioni, intrecciandoli, a modo di trattatelli morali, con riflessioni e paragoni storici, con quella sobrietà ed efficacia che tutti lodano nelli scritti dell’autore. G.
I codici e le arti a Monte Cassino, per D. Andrea Caravita
prefetto dell’Archivio Cassinese. - Vol. II, in 16mo, di pag. 326. - Monte Cassino, coi tipi della Badia, 1870.
Annunziammo altra volta il primo volume (T. X, p. II): il terzo ed ultimo è in corso di stampa. Il presente, venuto in luce da poco, è una descrizione dei Codici che si conservano nella biblioteca di quella celebre Badia. Oltre alla notizia dei Codici medesimi e alle notizie concernenti alla paleografia e alla miniatura, l’autore ha stampato quelle cose che i copiatori o altri che ebbero fra mano i codici scrivevano nelle pagine rimaste in bianco o nei margini. Sono o documenti storici, o narrazioni brevi di fatti appartenenti alla storia della Badia, o poesie latine e volgari per lo più d’argomento sacro, qualche giaculatoria, qualche racconto di fenomeni naturali, qualche ricetta medica, delle sentenze morali e de’ proverbi. Non tutto riesce nuovo per li eruditi (lo dice lo stesso autore) per essere dal Gattola e dal Muratori stampati alcuni di quegli appunti e di quei documenti che interessano alla storia: v’è della roba che non ha alcun valore: ma spesso in uno di quegli appunti più che la mente e l’animo di chi scriveva ci si trovano accennati lo spirito del tempo e i pregiudizi.
La Nuova Antologia. Fascicolo dell’Aprile 1871.
Il Signor Giuseppe Civini ha cominciato a stampare un suo studio storico e politico sull’antico e nuovo impero di Germania, giovandosi, come dice egli stesso, di una recente opera del signor Sybel. È lavoro meditato e scritto con vivezza, benché mostri, e troppo in qualche punto, l’influenza di studi recenti sulle cose germaniche. Lo scritto del signor De Sanctis sull’Orlando Furioso è un bel capitolo di storia della Letteratura Italiana.
La filosofia delle scuole italiane, Rivista bimestrale.
Anno II, Vol. III, Disp. I.a
Sommario: Sopra un tema di teorica metafisica proposto dalla Società promotrice degli Studi filosofici e letterari, Lettere del prof. Baldassarre Labanca e del prof. Giacinto Fontana, e Nota sulle medesime di Terenzio Mamiani: Sull’impossibilità dell’arbitrio umano e sulle altre ipotesi dei materialisti, Lettera di T. Collyns Simon L. L. D., diretta al Signor dottore Herzen, e Nota di Terenzio Mamiani: La morale nella filosofia positiva: La teorica del Fine, il Bene Morale, l’Utile del prof. Giacomo Barzellotti: Notizie filosofiche e letterarie: Bergmann, del prof. Luigi Ferri.
Uno dei fatti più curiosi della storia letteraria del secolo passato è il codice arabo che il maltese abate Velia pretese avere scoperto, e che mons. Airoldi, giudice della monarchia sicula, fè stampare come appoggio a pretensioni regali contro i baroni di Sicilia. Il pubblico non solo, ma gravissimi dotti lo accettarono per farina schietta, fra cui basti nominare il Tichsen. Era invece un grossolano imbratto, e uno de’ primi che osasse dichiararlo tale, malgrado la pubblica opinione e la regia sanzione, fu Rosario Gregorio. Di questo ci dà una bella biografia il Di Giovanni, dove parte importantissima ha l’impostura del Velia. Del resto è noto, o forse non abbastanza noto, come l’autore delle Considerazioni sulla storia di Sicilia abbia trattato largamente, e ben più saviamente che non il Giannone, i vari punti che esprimono il diritto pubblico di quell’isola ne’ diversi tempi, laonde merita esser collocato fra migliori nostri storici.
L’elogio che ne fa il Di Giovanni è degno del lodato.
C. Cantù.
La Stela di Mesa re di Moab.
Le iscrizioni più antiche che s’abbiano in scrittura fenicia sono del terzo al quarto secolo a. C.; ascrivendosi al 335 la bellissima di Elmunazar. L’elmetto tirreno di Gerone, che porta l’iscrizione greca più antica, è del 474. Del 354 le latine del sepolcro degli Scipioni. Forse v’è monete di lettera anteriore: parlasi delle epigrafi Romulee e delle Iutee, ma sempre sarebbero posteriori ad una della grandezza di un metro per 0. 60, trovata in Palestina di là del Giordano, e che riferisce avvenimenti del X secolo a. C., ai quali può credersi contemporanea.
Tutti gli archeologi d’Europa se ne occuparono; ai quali volle aggiungere i suoi studi uno di cotesti ignoranti Romani, che credeano ancora saper qualche cosa. Il canonico Enrico Fabiani, a tacerne altri meriti, avea giovato non poco alla storia confrontando i re d’Israele e di Giuda cogli Eponimi assiri, risultanti dalle famose Stele, recentemente scoperte1, e traendole a confermare la cronologia biblica, secondo le lezioni varianti delle Cronache e dei libri dei Re. Ora egli dichiarava quella insigne epigrafe alfabetica di ben 33 linee. Non è lavoro di cui possa darsi l’analisi; ma è incidente storico da non trascurarsi l’essersi quel ragionamento letto nella pontifìcia accademia di archeologia il 10 febbraio 1871.
C. Cantù.
Sono nove lettere, che tutte dal più al meno hanno qualche pregio di lingua o di storia. La prima è del Busini al Varchi; ov’è una frase degna di considerazione: «Basta, che Firenze tribola, e nessuno è più a tempo ad aiutarla»; la quale ci pare un giudizio severo, ma vero pur troppo, delle infruttuose mene dei fuorusciti in favore della libertà della patria. Singolarissima è la lettera di Gio. Francesco Lottini, dove, a proposito della controversia che era tra il Varchi e un messer Lodovico da Sangimignano sopra il verbo farneticare, si riferiscono alcuni savi consigli del duca Cosimo intorno al modo con cui si hanno a condurre le disputazioni letterarie. «La pugna delle lettere non si piglia per venire alle inimicitie, ma perchè fra le molte opinioni si ritrovi il vero.... Mi ha comandato di più S. E. che io scriva a V. S. che con destro modo avvertisca tucte due coteste parti che in simile occasione voglino procedere civilmente, facendo forti le loro ragioni con la dottrina et non con il dir malo et eoa e libelli famosi, perchè questi modi di procedere dispiacciono a S. E.; et desidererebbe che e giovani studiosi di cotesta città si esercitassino nelle cortesie et non nelle maledicentie indegne della nobiltà loro». Di mediocre importanza sono due lettere del Giovio; anche minore l’hanno lo tre, brevissime, del Bembo, di monsignor Della Casa e di Scipione Bargagli: ma quella di mons. Giovanni è sopra tutte notevole come modello di scrittura familiare. Una lettera di Orlando Malavolti e un’altra di Luca Contile si riferiscono ad interessi della città di Siena, e hanno un certo valore storico, se non scemasse loro pregio l’essere due documenti isolati, spiccati per saggio dalla lor serie naturale, di modo che se ne ricavano notizie vaghe di pratiche diplomatiche, senza principio nè fine. Precede alle lettere una garbatissima prefazione dell’egregio editore, prof. Pietro Ferrato.
C. P.
Il nostro valente collaboratore dottor Vincenzo Joppi divise le sue Notizie in due parti, e le fece seguire da quindici documenti inediti. La prima parte dice la topografia, l’origine di Venzone e le varie signorie a cui fu soggetta: tratta la seconda del governo, della popolazione, dei monumenti, delle istituzioni, delle epigrafi, e di altre curiosità. Anche il testo si fonda sopra atti autentici.
Venzone, sulla via di Germania, sorse in virtù del traffico fra le due nazioni. Del 1001 è il primo documento, onde Ottone III imperatore donò a Giovanni IV patriarca d’Aquileia l’erbatico del Fella, uno dei confluenti del Tagliamento. Passò quella terra in dominio via, via della famiglia di Mels, dei duchi di Carinzia, dei conti di Gorizia, de’ patriarchi d’Aquileia, dei duchi d’Austria e ancora dei patriarchi fino alla dedizione alla Repubblica veneta, a cui fu soggetta dal 15 luglio I5?0 al 19 marzo 1797. Ultimo baluardo del’a pot m za temporale di patriarchi, non pertanto fu scomunicata per ben tre volte. Inquieta sempre, ebbe lotta coi vicini, e le armi nemiche spesso si abbassarono innanzi alle sue fortificazioni. Però qualche volta piegossi; e nove documenti illustrano la resa memorabile del luglio 1336 al patriarca Bertrando.
Non ostante i varii dominatori questa terri si resse con propri statuti, di cui la prima rubrica conservata è del secolo XIV, e coi due Consigli delle comunità italiane. Celebre è il duomo architettato nel 1308; maraviglioso per elegantissimo disegno di stile archiacuto è il palazzo pubblico, che sorse tra il 1390 e il 1410, uno de’ più belli d’Italia.
Premio alla ingrata fatica, tenga conto il dottor Vincenzo Joppi della stima sincera del suo paese.
G. Occioni-Bonaffons.
Il prof. Antonio Stefano Minotto con grande e longanime pazienza, sorretta da buon giudizio, trasse dalla inesauribile miniera dei manoscritti, che stanno nell’archivio dei Frari in Venezia, i Regesti dei documenti che riguardano la storia del medio evo, lino alla metà del secolo XV. L’opera ponderosa e benemerita è ancora in sul principio; ma si giudica oramai che dovrà tornare di grande sussidio agli studii storici, come quella che tiene in sè lo stillato degli avvenimenti di età confuse, e anche della veneta sapienza.
La prima parte del primo volume contiene il Regesto dei documenti che hanno riguardo al Friuli, al patriarcato d’Aquileia, a Trieste, all’Istria, a Gorizia. Preceduto da lunghi prolegomeni in latino, in cui si discorre la ragione dell’opera e le varie e preziose fonti, lo spoglio degli atti comincia al 1305 e va fino al 1332, più copioso col venire innanzi dei tempi.
Muovono da più remota origine i Regesti contenuti nella prima parte del secondo volume che si riferisce alla marca Trevisana, al contado di Belluno, Ceneda e Feltre. Vanno dal 739 al 1315. A questo volume premette il Minotto un breve cenno in italiano, nel quale afferma l’utilità incontrastabile dell’opera sua, e si compiace di aver trovato sotto l’anno 1324, l’11 marzo, la firma originale di Marco Polo.
Il Minotto in questo si toglie dai volgari compilatori che, non ad uno scopo particolare e incompleto, ma alla illustrazione piena dei fatti storici più importanti rivolse l’opera sua. Conviene pure sapergli grado della discrezione ch’egli ebbe a notare gli avvenimenti che hanno carattere pubblico, lasciando, se alla storia non premano, gli accenni a gare famigliari o private.
La stampa di questo lavoro paziente, che meriterà meglio di un fuggevole annunzio, fu procurata, pel Friuli e l’Istria, dalla Società Archeologica Friulana, e per Treviso e Belluno, dai rappresentanti di queste provincie. Del loro culto intelligente pei buoni stadi si abbiano un confortevole applauso.
G. Occioni-Bonaffons.
Il cav. Carlo Malmusi, presidente, aprì le tornate dando notizia del Collegio delle orfane, dette di S. Geminiano, che ebbe vita a Modena nel 1531; narrò poi le vicende del Monte di Pietà fondato dal Comune modanese al cadere del secolo XV; ragionò finalmente del Santo Monte della Farina, istituito del pari a Modena nel 1501. Il marchese Cesare Campori discorse degli Statuti delle terre del Frignano; da questi prese occasione di trattare della feudalità in Italia; da ultimo lesse la vita del conte Cesare Montecuccoli. Il marchese Giuseppe Campori trattò della vita e delle opere di Bernardo Tasso, fece parola delle relazioni che passarono tra il duca Ercole II e messer Pietro Aretino; scrisse intorno alla lavorazione de?li assi e dell’avorio in Reggio, n cav. Antonio Cappelli, segretario, dopo aver narrato la vita di Niccolò figliolo di Lionello marchese d’Este, illustrava tre manoscritti di Girolamo Rofia da Sanminiato, che si conservano nella Biblioteca Palatina di Modena, e una cronaca inedita degli Estensi, opera di un fra Paolo da Legnago vissuto nel secolo XVI. Il cav. Corlo Borghi discorse di uno strano abuso del duca Frcole II, che a forza voleva dare in moglie una nobile e ricca donzella ad un suo camerario; parlò di alquante pregevoli miniature che fanno ricca la Biblioteca modanese; tenne discorso degli Abaisi, scultori in legno e maestri di Cristoforo e di Lorenzo Canozzi, valenti artisti, già altra volta illustrati da lui. Luigi Lodi, tesoriere della Deputazione, esaminò parecchi manoscritti dedicati a Borso d’Este, e ne trasse argomento per far conoscere alquante particolarità ignote e vantaggiose alla storia delle lettere e alla biblioteca. Il conte Gio. Francesco Ferrari-Moreni illustrava una medaglia coniata ad onore di Giacomo Annibale Altemps, romano, affatto sconosciuta. Il prof. Gaetano Chierici dava conto degli scavi fatti da lui nella terramara di Servirola in San Polo e nella piazza di Brescello. Il dott. Paolo Ottavi si fece a indagare quando le città di Brescello e di Reggio divennero colonie romane; quali fossero le strade che intersecavano fin d’allora il territorio Boico; e quali fossero i monti, ricordati più volte da Tito Livio co’ nomi di Suismontium, Balista e Letum. Lo stesso socio diè larghe notizie intorno la vita e le opere degli artisti reggiani, vissuti tra il cadere del secolo scorso e il cominciare di questo. Il dott. Giuseppe Turri trattò della tipografia in Reggio nel secolo XV. Il prof. Bernardino Catelani ricercava le origini di alcuni vocaboli che sono in uso a Reggio, e parlava della probabile signi ficazione dell’aggettivo tardus usato da Virgilio nelle Georgiche. Il socio Giovanni Sforza ragionò della vita e delle opere del poeta Giovanni Raffaelli, che fu segretario benemerito della Deputazione, e chiuse le tornate del 1869 con un suo umile voto, ed è (sono parole dal cav. Antonio Cappelli) che riconoscendo noi tutti il bisogno di una Bibliografia generale degli statuti italiani, le nostre Deputazioni ripartiscano il lavoro ai soci delle diverse Provincie, con incarico ad ognuno di raccogliere e descrivere solamente quelli del proprio paese, come egli accetta di fare e di presentare fra non molto la Bibliografia degli statuti della Lunigiana, sua patria.
G. S.
In otto parti divide il suo Riassunto storico il conte Emilio Lazzoni. Nella prima parte ragiona delle arti, dell’industria e del commercio nella valle del Carrione dalla scoperta delle miniere marmifere alla fondazione dell’Accademia; la quale ebbe vita ai 26 di settembre del. 1769 per opera di Maria Teresa ultimo flato de’ Cybo. Narra nella seconda parte il nascere e il fiorire dell’Accademia dal 1769 ai 1805; racconta nella terza a quali vicende andasse soggetta sotto il governo de’ napoleonidi e quante cure vi spendesse attorno l’Elisa Baciocchi e quanto lustro le desse l’avere a segretario Giovanni Fantoni, noto tra gli Arcadi col nome di Labindo. Nella quarta parte ne fa conoscere come l’Accademia molto avesse a languire, tornata signora di Carrara Maria Beatrice d’Este; e come del pari languisse finchè regnarono Francesco IV e il figliuolo di lui, è soggetto della quinta e della sesta parte del libro. Ringiovanita dal Farini, quando era dittatore dell’Emilia l’Accademia fiori di nuovo (lo dice il Lazzoni nelle due ultime parti del pregiato lavoro); e vorrà certo dare anche più larghi e più rigogliosi frutti, vestita che sia in pace una volta l’Europa.
G. S.
Dubito forte se debba prestarsi fede a Cipriano Manente che fa risalire al 1013 l’origine dello Studio di Orvieto, il quale senza dubbio è assai antico e conta tra’ suoi lettori S. Tommaso d’Aquino e S. Bonaventura. Nella prima metà del secolo XIV a cagione delle molte e vive discordie che laceravano la città, lo Studio venne a finire; rifiorì nel 1362, ma per poco; tornò a rifiorire nel 1378 per opera di Urbano VI, del quale il sig. Fumi pubblica la bolla, che è per avventura l’unico documento importante intorno a quello Studio cui l’ingiuria de’ tempi e la mano sacrilega dell’uomo (come avverte l’editore) non abbia travolto nella quasi generale rovina dell’Archivio orvietano».
La bolla è preceduta da una prefazioncella, ricca disconosciute notizie e scritta con buon garbo.
G. S.
Questi Studi del sig. Zolfanelli videro già la luce nel giornale fiorentino La Nazione. Sono scritti col brio e colla leggerezza de’ francesi; allettano assai, e si leggono con gusto. Dividonsi in brevi discorsucci, che hanno per titolo: Luni e Carrara; lo sparo di una mina a Crestola; passeggiate per la Lunigiana; il marmo, cenno archeologico e geologico; una gita a Pietrasanta. Le biografie di Pietro Tenerani e di Carlo Finelli chiudono il libro, che è stampato a spese della Provincia di Massa e Carrara.
G. S.
Nell’Europa l’Italia è la nazione più ricca di storia e di notizie storiche, onde possiede archivi preziosi e per la storia propria e per quella d’altri popoli. Tra questi archivi sono molto importanti i regii di Milano, dove è primo segretario Damiano Muoni nobile di Antegnate, già conosciuto in Italia e fuori per studii diligenti sui documenti, sulle monete, sulle cronache, sulle memorie topiche dei paesi lombardi. Perchè già pubblicò scritti sulle Zecche, su Antegnate, sulla Resia, su Binasco, su Melzo e Gorgonzola, su Mondrisio , sugli Isei. Molta parte di questi studi egli ora riassume e completa in un bel volume in 8vo di 500 pagine, a proposito delle condizioni antiche del castello di Romano nella Provincia di Bergamo. Usò la parola Stato non nel senso politico, giacche Romano non governò mai sovranamente alcun territorio, ma per dire condizione.
A noi accade sovente di dover lamentare la intemperanza di scrittori che impinguano le magre memorie di qualche castello o borgata di escursioni vaghe nelle storie generali, usurpando tempo e denari mentre sempre più stringe il bisogno di economia anche nei libri. A vedere il volume del Muoni per Romano sospettammo di pleonasmo, ma scorso parte a parte quel lavoro, dovemmo convincerci che è tutto pieno di notizie positive, esposte con sufficiente parsimonia, e, se non tutte nuove, certo tutte meritevoli d’attenzione almeno dai cercatori delle storie locali, e vagliate con critica e diligenza. Fatti minuti che, se ora anche ponno parere di poco momento, quando i tempi nostri saranno lontani, potranno trovarsi notevoli, come ora sembrano a noi le cose semplici ed umili sparse nelle cronache medievali.
Due sono i Romani nell’Italia subalpina; il famoso d’Eccelino; e questo lombardo dell’altro, pure celebre, Bartolommeo Colleoni, e dal quale derivò il cognome alla famiglia del sommo frescante Girolamo Romanino che nella scheda di sua ricchezza mobile si lirma de Romano. Il nome di questo castello ne accenna l’origine; sarà stata villeggiatura o podere di qualche famiglia romana e si scrisse Rumanum pel motivo che i veterani di Traiano si dissero Rumeni. Non fu capo pago romano, perchè altrimenti sarebbe diventato nel sesto secolo chiesa plebana. Invece la sua comunità cristiana riceveva prima del mille il battesimo solenne alla Chiesa bianca ovvero Ghis-alba. Dalla stazione romana fanno testimonianza lapidi votive a Giove ed a Minerva rinvenute a Romano.
Di Romano posto tra le stazioni antiche di Ghisalba, di Anteniate, di Calcio, di Martinengo, di Curia Nova o Corte Nova si trova prima menzione solo verso il mille per beni che vi possiede un giudice Lazzaro e che dona alla basilica di S. Alessandro in Bergamo. Romano prese incremento quando nel 1151 venne dal Capitolo di S. Alessandro predetto dato in feudo ai Conti di Martinengo. Nelle guerre delle federazioni guelfe contro Federico Barbarossa andò devastato Romano, e, come era propugnacolo ai confini orientali della Repubblica di Bergamo, i Consoli di questa città nel 1171 provvidero alla riedificazione in luogo più opportuno. Così come i Bresciani fecero sorgere Orzi Nuovi a canto del vecchio, come Lodi nuovo suppiantò Lodi Vecchio, allora si ebbe l’attual Romano a lato di Romano il vecchio. Anche il Nuovo fu abbattuto dai Milanesi dopo la battaglia della Mala morte nel 1191. Ma risorse tosto, per modo che nella di lui chiesa di San Giorgio nel 1267, quando prevalse con Carlo d’Angiò il partito guelfo, si strinse alleanza dai delegati di Milano, Bergamo, Cremona, Piacenza. Qui il Muoni descrive il passaggio di Carlo e l’opposizione che gli dovea fare Buoso di Dovara, e ripete la di lui corruzione per l’oro francese. Noi crediamo d’aver mostrato nell’opuscolo La Francia Corta che quell’accusa fu calunnia del partito vinto, perchè Carlo passò l’Olio per sorpresa sul ponte apertogli dai Conti di Caleppio della famiglia dei Martinengo.
Quantunque ricostrutto per concorso di Bergamo, Romano ricalcitrava al predominio di que’ cittadini, onde come le valli, quando Venezia nel 1428 stese il suo dominio sino all’Adda tentò e per poco ottenne di dipendere direttamente da Venezia e non da Bergamo. (Questa opposizione de’ contadi alle città dominatrici e mal nota agli storici nostri e merita attenzione. Giunto a questo termine il Muoni s’indugia con predilezione sulla vita di Bartolommeo Colleoni che compi la gloriosa vita nel vicino castello di Malpaga e che ebbe da Venezia anche la Signoria di Romano. Ma nulla aggiunge alle notizie storiche su quel Capitano pubblicate dall’Archivio Storico, e conviene con noi nel concetto di purgare Venezia della colpa per la condanna del Carmagnola.
Con vivo amore il Muoni scrive anche della vita e delle opere dell’insigne idraulico e matematico Antonio Tadini nato a Romano nel 1754. E con sottile diligenza discorre dei Signori di Coro e di Antegnate, dei reggitori di Mozzanica, di Barbata, della famiglia Bentivoglio, degli Oldofredi od Isei, e compisce assai bene il suo lavoro con larga copia di documenti e regesti dall’840 al secolo nostro, de’ quali alcuni inediti proprii, altri avuti da Wüstenfeld. Il racconto del Muoni non alletta per arte, ma istruisce mente per molte note che gli servono ad adunare intorno l’argomento suo una folla di minute notizie sulle terre, le castella, le acque, i personaggi, le chiese che stanno nella plaga felice ove sorge Romano. Però ogni studioso delle storie di que’ luoghi terrà prezioso e caro il libro del Muoni.
G. Rosa.
I costumi, i concetti, la civiltà non fanno radicali mutamenti repentini, ma seguono lente trasformazioni. Il cristianesimo lungamente preparato non trasformò d’un tratto la società gentile, ma per innestarsi si vestì alla greca, alla romana, ed accettò molti riti prischi, mutò solo di nome numi e culti. Il romano Gregorio nel sesto secolo s’accontentò che si cacciassero i diavoli dai templi, dai sacelli, dai sacrari gentili con acqua benedetta, indi si usassero per le funzioni cristiane. Le commemorazioni de’ santi ad ogni giorno, la distribuzione de’ fasti della Chiesa nel calendario, era continuazione con altre appellazioni de’ Fasti pagani cantati da Ovidio, ed i calendari cristiani rispondono in gran parte ai calendari dei gentili. L’opposizione attuale del papato alle libertà politiche italiane fomenta reazione contro tutto che è ecclesiastico, e già matura il concetto di preparare una terza mutazione di calendario, per sostituire Santi umanitarii ai Santi cristiani, le cui leggende anche dopo gli espurghi fattine dai Maurini non rispondono più ai concetti predominanti nelle persone colte.
Mentre a Brescia nel passato anno il Novelli compilava e pubblicava un almanacco storico, nel quale ad ogni giorno dell’anno si registrava ed esplicava un fatto memorabile italiano, in modo simile alle Effemeridi della Perseveranza, ecco che il prof. di storia nel Liceo di Lodi, Giuseppe Riccardi, senza sapere del lavoro del Novelli, e con intendimenti più larghi compila e pubblica in Milano un Diario Storico-Biografico, che non può dirsi compendio storico popolare, ma prontuario per conoscere più distesamente alcuni fatti storici degni di attenzione. Per mesi e per giorni distribuisce fatti italiani rimarchevoli come lettura e commemorazione quotidiana.
L’autore s’accorse come agli indotti questo modo di narrazione potesse ingenerare inciampo, come vi mancasse un filo di guida nel laberinto, e riparò al difetto mediante breve introduzione storica dalla caduta dell’impero romano alla occupazione di Roma pel regno d’Italia, e con due indici: l’uno cronologico dalla elezione di S. Ambrogio a vescovo di Milano nel 374 al 1870, l’altro di 116 biografie d’illustri italiani. Il libro e compilato con amore, con spiriti liberali, è scritto chiaramente con forme popolari, onde risponde allo scopo. Perciò quantunque si cacci nella pletora de’ libri, crediamo che pel concetto nuovo possa essere utile, e trovi accoglienza rimeritante l’ingrata fatica.
G. Rosa.
Il Marchese Filippo Raffaelli, possessore di una scelta e copiosa collezione di autografi, ha avuto il buon giudizio di pubblicarne il catalogo; il quale fatto com’è, può giovare assai agli eruditi. Raccogliere carte autografe qualunque siano, per il solo gusto di avere sott’occhio la scrittura di uomini più o meno celebri, sarebbe cosa di poco conto e pascolo vano di curiosità. Ma quando come ha fatto il Randelli, si cerca che ogni carta oltre il pregio dell’autografia abbia ancora un valore storico o letterario, e questa ricchezza si mette in vista con bene ordinati cataloghi, allora ne può venire sussidio agli studi e il collettore merita lode.
Il catalogo del Raffaelli è partito in tre classi; la prima contiene carte di Santi, di Papi, di Cardinali e di altri dignitarii ecclesiastici dal secolo XIII ai giorni nostri; la seconda quelle dei Re, Principi e uomini di Stato e di guerra così italiani come stranieri; la terza è riserbata agli autografi di scienziati e letterati. Le due prime classi sono pubblicate, la terza è promessa; e noi confortiamo il Raffaelli a compire la sua impresa, augurandoci meno parche le note illustrative ed erudite, non tanto sui personaggi che scrissero, quanto sull’argomento delle scritture più importanti che danno pregio a questa raccolta.
M. T.
È bello che un Piccolomini mandi in luce documenti storici spettanti ai due Papi usciti dalla sua casa illustre, unendovi illustrazioni erudite che confermano la riputazione di editore diligentissimo che già si è fatta il modesto discendente di tante grandezze. Alcuni di questi documenti avanzarono all’espilazione dell’Archivio piccolomineo, e l’editore li presenta ai lettori come cosa domestica; altri furono da lui raccolti da pubblici depositi, e mostrano il suo amore per le memorie dei suoi maggiori; culto gentile che va a farsi sempre più raro. Per chi ama di conoscere il passato non in formule astratte o in descrizioni artificiose di avvenimenti, ma vuol entrare nei particolari della vita degli uomini e nelle minute esplicazioni dei fatti, questi documenti hanno un valore storico; e si leggeranno con interesse l’Ordine della vita giornaliero, di Pio II; la Lettera ai Maremmani sui negozi della Crociata; l’Inventario delle orificerie possedute dal Cardinale Giacomo che fu poi Pio III; e l’Allegagione della sepoltura di questo Papa a Francesco di Giovanni e a Bastianino di Francesco scultori. Quanto alle illustrazioni, non si potrebbero desiderare nè più compiute nè più giudiziose; e so chi pubblica documenti procedesse cosi, non si vedrebbero tanti ignoranti affannarsi a stampare earte antiche, e ambiscono nome di autori, mentre non sono altro che copisti e copisti non sempre corretti. Il Piccolomini è giovane, educato a buona scuola, e questi saggi sono promettenti; pensi egli a sdebitarsi di quello che i suoi estimatori sanno ormai di potere aspettarsi da lui.
M. T.
Sebbene gli storici senesi non dian cenno di questa Fratellanza della libertà nè di questo giuramento, pure con buone ragioni crede l’editore che si riferisca all’epoca memorabile della cacciata degli Spagnuoli. È scrittura breve ma efficace, e mostra passione viva e schietta, non contaminata da quella rettorica faziosa che tante cose belle ha sciupato fra noi. Gli animosi Senesi uniti in questa lodevole Fratellanza, si dicono difensori de la dolce et santa libertà,... e vogliono per lei quando altro non si possa, far bastione e riparo del proprio corpo;.... e giurano in comune fratellanza esporre la vita per l’universal bene .... ed essere l’uno de l’altro scudo e defensione; e ai loro giuramenti invocano Dio, la Vergine intemerata e i Santi protettori della patria.
Questa è viva pittura dei tempi, e così schiette parole e così puri affetti commuovono anch’oggi dopo tre secoli. Altre fratellanze abbiam viste anche noi; ma senza Dio e senza Santi, più che a difesa sembran nate a ruina della libertà. Ringraziamo l’editore d’averci riportato ad altri tempi ed a più degni entusiasmi.
M. T
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Con un titolo così modesto l’autore ha presentato al pubblico un libro che dai dotti sarà tenuto in gran pregio, come un riassunto accuratissimo ed elegante di molti studi intorno alla storia di Spoleto dalle origini fino al tempo dei Longobardi. Che pelasgica sia l’origine di questa città egli s’è convinto per l’esame dei pochi avanzi di monumenti che sopravvivono, confrontati con altri d’altre città antichissime, e col discutere le opinioni de’ più stimati archeologi. Altri monumenti di età successive, le iscrizioni, la filologia, gli scrittori antichi e moderni delle cose di Roma gli sono lume e scorta a conoscere e a dimostrare le condizioni della città quando fu colonia e poi municipio. Dei medesimi sussidi, come pure delle tradizioni e delle leggende si vale per le cose dei primi tempi dell’era cristiana, e per notare la parte che Spoleto ebbe nei rivolgimenti che furono durante la lotta fra i re Goti e l’impero d’Oriente. La descrizione dei ruderi, disegnati nelle tavole che corredano il volume, colla quale raffigura la città quale dovette essere, egli, sempre modestamente, la dice fatta per guida al viaggiatore, ma è dimostrazione nuova delle sue opinioni e delle sue congetture. La forma dello stile rende piacevole e avviva la erudizione: e ben si conosce come per la familiarità degli ottimi scrittori antichi ha raggiunto quella misura e sobrietà di chi parlando agli eruditi si guarda dal ripetere ciò che essi devon sapere, mentre ai meno periti in siffatti studi nulla lascia d’oscuro e d’indeterminato. Il libro finisce con una raccolta di centosessantasette iscrizioni, delle quali parecchie erano sparse in altre pubblicazioni, alcune vengono in luce ora per la prima volta; e di tutte la lettura e l’intelligenza son facilitate da note illustrative e dalla spiegazione delle sigle. A questa, che è la prima parte d’una nuova Storia di Spoleto, terrà dietro, come vediamo annunziato, la storia dei duchi avvalorata da documenti. E con questo il signor Achille Sansi, che ci e grato annoverare fra i più amorosi cultori delle storiche discipline, avrà corrisposto degnamente alle intenzioni dell’Accademia spoletina.
G.
Florentinis ingeniis nil ardui est, scriveva con compiacenza e con un po’ d’orgoglio Bernardo Cennini sul primo libro stampato da lui, primo stampato in Firenze nel 1471, quando la invenzione della Stampa faceva tanto rumore e giustamente. E Bernardo Cennini, che colla stampa del Commento di Servio a Virgilio inaugurava in Firenze una nuova epoca di civiltà, stette per molto tempo dimenticato. Un modesto ingegnere di nobile animo, che poco tempo fa moriva poverissimo, Federigo Fantozzi, autore della più pregiata Guida di Firenze, fu il primo a riparare alla ingiustizia de’ nostri maggiori, pubblicando nel 1839 le notizie biografiche di lui. In seguito, via via che imparammo a tenere più in pregio le benemerenze degli uomini, la gloria di Bernardo crebbe, e le lapidi poste sulla bottega dove esercitò l’arte dell’orafo e sulla casa dove nacque, lo rammentano di continuo ai concittadini e alli stranieri. In questi giorni, il 24 di giugno, celebrandosi il quarto centenario da che l’arte tipografica fu introdotta in Firenze, si volle che in onore del Cennini si facesse una festa; la quale, per opera delli stampatori dimoranti in Firenze, senza tanti apparati, modestamente, ma con cuore riconoscente, anche favoreggiata dal municipio, ebbe luogo, nel giorno stesso che con pompa maggiore si diede sepoltura in Santa Croce alla salma d’Ugo Foscolo. In quella occasione il signore G. Ottino, uno de’ promotori della onoranza, metteva in luce il libretto che annunziamo. È saggio d’un maggior lavoro che si desidera. Ci sono molte notizie per la storia dell’arte tipografica in Firenze dal Cennini al Torrentino, cioè per poco più di cent’anni: e de’ primissimi stampatori sappiamo particolarmente quali libri dettero in luce: le quali notizie giovano a far conoscere il grado e le vicende della cultura d’un popolo, e anche le disposizioni degli animi, se lo spaccio d’un libro s’ha a reputare, com’io credo, buona prova di queste disposizioni. L’autore è d’opinione che il Commento alla Buccolica di Virgilio sia la prima cosa stampata dal Cennini, e non la Vita di Santa Caterina, come pensano altri. E a questa sua opinione dà peso con una lettera del conte Giacomo Manzoni. Sono di corredo al libro dodici documenti inediti, fra’ quali importantissimo è il primo, che è una provvisione del Comune di Firenze dell’8 febbraio 1514 (15) con cui si concede a Giovanbernardo di Salvestro prete e Giovanbatista di Cristofann, ottonaio, il privilegio per dieci anni, con pene severissime ai contraffattori, di stampare musica con caratteri mobili secondo il modo da essi inventato. È poi curiosa la lettera di Filippo Giunti lei 26 settembre 1596, che scrivendo al segretario del granduca si lamenta perchè tra la fame e l’indice vada a terra all’atto il mestiere dello stampatore.
G.
È un opuscoletto di 28 pagine in 16mo. Il Cellini, presidente della Commissione per la festa centenaria in onore del Cennini, e uno de’ promotori, ha voluto, con delicato pensiero, rammemorare le benemerenze di Giovan Pietro Vieusseux; e lo ha fatto in maniera che ogni parola rivela venerazione e amore che nell’animo suo il tempo, anzichè indebolire, rafforza.
G.
Gli Annali Genovesi che Iacopo Bonfadio scrisse per commissione della repubblica con tanta libertà che da taluno si congettura fosse cagione della sua fine miserissima, sono tenuti in molto pregio come opera d’arte storica e come racconto fedele delle cose succedute dal 1528 al febbraio del 1550. E che della sincerità non abbia a dubitarsi, ora che tanto esige la critica, n’è prova questo che ripubblicandoli il nostro cav. L. T. Belgrano, tanto istruite nelle cose della sua natale città, v’ha trovato da far poche e brevi note. Avremmo, per verità, desiderato che venissero ristampati in latino come gli scrisse l’autore. Ma se ne volle forse fare un’edizione che andasse più facilmente nelle mani di tutti ora che il latino non è più come una volta tanto familiare. La traduzione del Paschetti è stimata; e le poche interpolazioni che vi fece il traduttore per lodare la famiglia Cibo, sono state saviamente messe da sè in fondo. Le lettere dettate con disinvoltura maggiore che non usassero gli scrittori di quel secolo son documenti per la vita del Bonfadio e per la storia letteraria di una parte del secolo xvi, cresciuti di notizie per le illustrazioni del Belgrano. Fu anche il Bonfadio autore di versi, non d’ispirazione, ma di forme eleganti e con pensieri spesso gentili. E anche questi versi col volgarizzamento della Miloniana di Cicerone fanno parte del presente volume, che dovrebb’essere il principio d’una serie di ristampe a cui attenderebbe il Canepa con utilità delli studiosi, se fosse sicuro di non averne a tenere soverchiamente ingombro il magazzino. Troppo modesto il Belgrano, piuttosto che dettarci egli stesso una nuova vita del Bonfadio, ha ristampato le notizie scritte dal Tiraboschi nella Storia della letteratura Italiana. Si vede che negli Archivi Genovesi non s’è trovato alcun documento sulla cagione vera della condanna onde perdo la vita l’annalista; che diversamente siamo certi il Belgrano non avrebbe mancato di schiarire: dubbi confermando o distruggendo le congetture del Tiraboschi.
G.
È un saggio, lo dice l’autore stesso, d’un maggior lavoro. Credo che trovandosi egli fra mano i materiali che va apparecchiando, ne stendesse la presente scrittura per farne un regalo di nozze. Ci si vedono gl’indizi di buoni studi, ma anche di lavoro un po’ affrettato. Quando vi tornerà sopra, avrà di che ampliare le notizie e le considerazioni morali che ne derivano; ne ricaverà più argomenti per giudicare i tempi e gli uomini e paragonarli fra loro. Penso che avrà a modificare il giudizio sulla seconda metà del secolo xv, perchè appunto in quello splendore di lettere e d’arti, in tutta quella prosperità materiale, in quelle magnificenze de’ principi che colpiscono la immaginazione, erano i germi delle sventure che poi piombarono sull’Italia. Avendo documenti nuovi trovati da sè frugando negli archivi e nelle biblioteche, e riserbando quelli già trovati da altri per opera più estesa, non ha fatto parola del Convito e delle feste fatte in Pesaro nel 1475 per le nozze di Costanzo Sforza e di Cammilla d’Aragona, di cui pubblicò la bella e curiosa descrizione il consigliere Marco Tabarrini, nè de’ due conviti sontuosissimi fatti a papa Clemente V nel 1308 descritti da anonimo fiorentino, documento messo in luce da Gaetano Milanesi nel 1868. Nella stampa gli è sfuggito un errore di cronologia, dove parla d’un convito dato da Gian Galeazzo Visconti. Queste osservazioni abbiamo voluto fare con franchezza a chi dà speranza d’arricchire la nostra letteratura storica d’un libro che potrà esser letto con molta curiosità e con frutto in tempi ne’ quali la passione pei diletti materiali può esser causa di danni gravissimi.
G.
Non fa maraviglia a chi si rende ragione delle istituzioni della repubblica fiorentina, per le quali a moltissimi erano comuni i pubblici uffici e gli onori, il vedere tante famiglie meritevoli d’una storia particolare. Ed ora che i titoli di nobiltà si pregiano quando vanno accompagnati al sapere e alla virtù, e dall’esempio degli avi si voglion trarre eccitamenti alla vita, e naturale che ogni casata ricerchi ne’ propri archivi e ne’ pubblici non più le pergamene delle pompose onorificenze e dei privilegi, ma le testimonianze delle opere belle e de’ servigi alla patria. Per questo hanno le famiglie italiane, e specialmente le fiorentine, un erudito coscenzioso e spregiudicato nel signor Luigi Passerini che, fattasi oramai familiare per tanti studi e ricerche la storia loro, la descrive liberamente e senza adulazione, coll’animo di educare le nuove generazioni. Ai tanti lavori di lui che abbiamo spesso annunziato, dobbiamo ora aggiunger questo sulla Famiglia Altoviti, le cui vicende non si differenziano dalle altre, e che pur diede allo stato uomini egregi degni di memoria particolare. Poco egli si trattiene a discutere le opinioni sull’origine: dice di volo com’egli crede gli Altoviti di sangue longobardo, venuti a Firenze intorno alla metà del secolo xii dal Val d’Arno superiore, dov’erano possessori di terre; e da un Corbizzo incomincia la serie delle biografie. Nelle più alte magistrature, quando Firenze ha bisogno del senno e dell’energia de’ suoi cittadini, in mezzo alle lotte dei partiti, nelle imprese più segnalate per allargare il dominio, assicurare gli acquisti e consolidare la potenza, nelle importanti ambascerie, tra i partigiani de’ Medici e trai loro avversari, tra i difensori della libertà tino all’ultimo tentativo di Montemurlo e alla difesa di Siena troviamo rammentati spesso con lode gli Altoviti. Venuti i tempi della servitù goderono anch’essi le loro ricchezze all’ombra del principato e si compiacquero dei favori e dei privilegi, ma non sì che dimenticassero affatto l’obbligo di conservare come si poteva nella comune servitù e nell’universale decadimento, la reputazione che avevano insieme cogli averi ereditato dai loro maggiori.
G.
La Nuova Antologia, Fascicoli di maggio e giugno 1871.
Giuseppe Civinini ha continuato il suo studio sull’impero germanico, esaminandone le trasformazioni fino ai giorni nostri storicamente e politicamente. Nel fascicolo del giugno s’è letta la prima parte d’uno scritto d’Isidoro La Lumia intorno a Carlo Cottone principe di Castelnuovo in cui rappresentando la nobile figura del suo concittadino, e raccontando quel che operò in benefizio dell’isola natale, riassume con sobrietà e con nuove notizie la storia degli anni in cui la dinastia borbonica male corrispondeva all’affetto de’ Siciliani, mostra il predominio e la padronanza che gl’Inglesi avevano acquistato nell’isola, e fa conoscere le condizioni morali e materiali di quel popolo colla perizia ed eleganza che lo fanno uno de’ più stimati scrittori di storia. Meritevole di considerazione è lo studio di C. Baer sul Catasto Fiorentino del secolo XV. E per la storia letteraria va segnalato il saggio di F. De Sanctis sul Foscolo.
G.
G. Ottino. Biblioteca Tipografica Italiana.
— In 16mo di pag, 73; Firenze, Stabilimento di G. Pellas, 1871.
Il Signor Ottino, mentre attende con all’etto e operosità a far conoscere per mezzo della sua Bibliografia italiana colle pubblicazioni che si vanno facendo in Italia le condizioni e le vicende della cultura intellettuale, tiene rivolto anche il pensiero alla storia dell’arte tipografica. Abbiamo ricordato un altro suo lavoro che attiene al medesimo argomento. Annunziamo ora il presente libriccino stampato con molta eleganza in soli 60 esemplari. È un lavoro di bibliografia distribuito in quattro parti: l.ª Storia della Tipografia in generale. 2.ª Storia della Tipografia in Italia. 3.ª Storia della Tipografia nelle Provincie italiane. 4.ª Storia della Tipografia nelle città italiane. Benchè v’abbia posto tutta la diligenza possibile, non è certo d’aver fatto un lavoro compiuto: però ai bibliofili ed ai bibliotecari rivolge la preghiera che gli mostrino gli errori e le omissioni in cui possa esser caduto.
È lavoro di molta gravità eseguito con coscienza e pazienza, nel quale il signor Luciano Scarabelli fa bella prova della sua dottrina e della sua critica filologica. Lo guida quell’amore per l’Alighieri e per tuttociò che attiene all’incremento delli studi dimostrato in tanti suoi scritti e recentemente nella pubblicazione del Commento del Lana. Merita che ne sia parlato distesamente e da chi possa valutare le dotte fatiche del signore Scaraboni. Ora vogliamo solamente farne un annunzio, tanto per mostrare una nuova benemerenza della Commissione pe’ testi di lingua e di uno de’ suoi soci più operosi.
Archivio Veneto. - Tomo I, parte II.
Il secondo fascicolo di questa pubblicazione storica pare che corrisponda alle speranze che dava col primo. Nelle Memorie originali ce n’e una d’Adolfo Bartoli su Leopoldo Cicognara; una di Giuseppe Giuriato su Lepanto e il seguito dello studio di Rinaldo Fulin sugli Inquisitori dei Dieci. Continua la serie dei Documenti per servire alla storia dei Banchi di Venezia stampati da Francesco Ferrara. Curioso e importante per la storia della diplomazia veneta sono i Dispacci di Michele Surian, decifrati da Luigi Pasini e pubblicati dal Bartoli. Vi sono aneddoti storici, e letterari, cioè della moglie di Marin Faliero, di Paolo Giovio, e del Goldoni quando fu a Firenze. E una copiosa rassegna bibliografica da notizia e giudizio di parecchi lavori storici.
- ↑ Sulla serie degli Eponimi assiri, e i confronti fattine colla cronologica giudaica. Roma, 1870, in fol.