Arabella/Parte prima/5
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V.
I cattivi affari del signor Paolino.
Il signor Paolino Botta delle Cascine Boazze aveva sposata la vedova di Cesarino Pianelli, madre di tre figliuoli, colle più oneste e generose intenzioni del mondo; ma non andò molto che si accorse di aver fatto uno sproposito. Ai figliuoli si aggiunsero altri figliuoli, mentre i tempi si facevano più difficili pei poveri agricoltori.
Beatrice credette, nel suo placido e incosciente egoismo, di poter godere lautamente dell’abbondanza in cui l’aveva posta suo marito. E questi, d’altra parte, era troppo buono e troppo innamorato, per non aggravare con un sistema di continue debolezze la condizione già cattiva dei tempi e delle cose.
Paolino, non più giovane e poco spiritoso, era in una continua preoccupazione di gelosia e di paura che il Paolino d’oggi potesse, agli occhi della bella moglie, valer meno del Paolino d’ieri: quindi un continuo sforzo in lui di sostenersi in dignità con spese maggiori delle sue forze, con una continua e quasi febbrile ricerca di cose nuove, di dolci sorprese, di tenere improvvisate, di troppo violenti trionfi personali, che a lungo andare, per la legge naturale delle cose, finiscono col logorare le ruote e il carro.
Fu quest’ambizione, mista confusamente di scrupoli e di affezione, che lo persuase a collocare i tre figliuoli della vedova in buoni collegi, i maschietti a Lodi presso i barnabiti, Arabella presso le madri canossiane a Cremenno, un paesello allegro di montagna, che respira l’aria del lago, dove la ragazzina potè ricevere una completa educazione, rifacendo nel clima dolce e salubre la sua costituzione non molto ricca di sangue e alcun poco logorata da precoci patimenti.
Arabella rimase presso le suore circa sei anni e imparò rapidamente e bene tutto ciò che le buone madri seppero insegnarle, aggiungendo di suo quel che aveva patito, cioè un senso malinconico delle cose e della vita, che la portava a nascondersi in Dio. Il suo povero babbo si era ucciso nel fior degli anni per sottrarsi alla vergogna d’un processo, e l’idea di un’anima in pena, che espiava il suo male forse senza speranza di perdono, aveva ancora la forza dopo cinque o sei anni di risvegliarla di sbalzo in mezzo alla notte al minimo scricchiolìo, al minimo soffio di vento, che paresse tra le fessure gemito o sospiro.
Suor Maria Benedetta, quando la vedeva più pallida, indovinando il segreto dolore della poverina, la segnava tre volte colla croce e la menava in disparte nel semi-oscuro coretto, nel sacro tiepore che manda l’olio delle lampade, dove, inginocchiate l’una dietro l’altra, la ragazzina davanti, ai piedi del Sacro Cuore pregavano, pregavano, inebbriandosi insieme nelle delizie dell’orazione mentale.
Intanto Arabella crebbe alta, con un corpo flessibile ed elegante, più ricco di grazia che di forme, che sfuggiva alle stesse pieghe larghe e goffe della divisa bigia di collegio. I suoi capelli d’un biondo chiaro, l’ambizione del povero babbo, eran cresciuti e cascavano in due lunghe treccie, che le buone madri cercavano d’allacciare e di nascondere.
Alle Cascine Boazze la fanciulla non passava che pochi giorni delle vacanze, in settembre, sforzandosi per un sentimento di riconoscenza e di delicatezza di farseli piacere quei prati lunghi e piani, quelle righe lunghe di salici smorti, che si accompagnano ai fossati, quei casolari tozzi sepolti nel fango o nella polvere delle strade calde. Il suo pensiero tornava sempre lassù a Cremenno, la sua patria spirituale, Cremenno che suor Maria Cherubina chiamava l’anticamera del paradiso, lassù dove l’occhio scende nei burroni e nelle valli fiorenti, e corre sugli specchi azzurri del lago Maggiore, dove infine un’anima agile e pia ha meno strada per toccare il cielo. A lei il secondo matrimonio della mamma non era piaciuto fin dal principio. Ma poichè era dovere d’accettare i fatti compiuti, si era proposto fin dai primi tempi di fare in modo che la sua vita non andasse a pesar troppo sulle spalle del padrigno. Già le pareva di aver troppo accettato; e poichè le suore eran contente di lei e le facevano la corte, non tardò a formulare il pensiero deciso della sua vocazione. Si sentiva naturalmente attirata a entrare nella famiglia delle sue maestre, a consacrare la sua esistenza all’istruzione nei collegi dell’ordine. Aiutava questa vocazione la vista del disordine crescente che ritrovava alle Cascine, una casa che reggevasi a forza di puntelli sopra un più nascosto e più profondo disordine amministrativo.
Come avesse potuto il signor Botta in pochi anni scendere e precipitare così basso, era un mistero per tutti, che la crisi agraria e i tempi difficili non bastavano a spiegare. Certo la scomparsa della buona sorella Carolina, che per molti anni aveva tenuto nelle mani il governo dell’azienda, e l’entrare in casa d’un’altra donna, non così pratica e avveduta, era stato il principio d’una decadenza, che una volta avviata, non ebbe più ragione di fermarsi. A questa condizione generale si aggiunsero alcune disgrazie.
Il signor Paolino, nel primo entusiasmo della luna di miele, si lasciò prendere dalla febbre del fabbricare. La vecchia Cascina non gli pareva più sufficiente ai bisogni della cresciuta famiglia e alle idee della bella moglie. Si mise nelle mani d’un capomastro e cominciò a tirar su dei muri nuovi. Ma nel tracciare i nuovi edifizî non si osservarono con abbastanza scrupolo i confini d’un canale di scarico, dov’era anche una testa di fontana, che dava un qualche dito d’acqua ai fondi del vicino.
Queste quattro goccie d’acqua tirarono addosso al signor Botta una causa, coll’ordine perentorio di sospendere i lavori. La causa, come sempre, andò per le lunghe e costò un fiume di denari. Finalmente, dopo quasi tre anni di rinvii, di ricorsi, di comparse, di sopraluoghi, di perizie, il signor Botta fu condannato a pagare sotto forma d’indennizzo una somma di lire quindici mila, una volta tanto, al signor Tognino Maccagno, quale amministratore e rappresentante dei fondi di proprietà Ratta. A queste quindici mila lire bisogna aggiungere le spese di processo, gli avvocati, le carte bollate e i conti di fabbrica. La casa nuova rimase lì, nè ritta, nè seduta, coi muri greggi che invocavano un tetto, ma non c’eran più denari. Vi piovve e nevicò sopra fin che piacque al padrone dell’acqua e della neve, fin che quei poveri muri pigliarono un aspetto di rovina prima ancora di nascere. Di contraccolpo ne soffrì la casa vecchia e il padrone, che tra la rabbia e il dolore, ammalò di mal di fegato con travaso d’itterizia.
Beatrice con tutti i figliuoli indosso (tre del primo letto, tre del secondo) si contentava della sua parte, dava qualche comando alle persone, non badando che fosse eseguito, girava per la casa, mal pettinata, mal vestita, trascinando le fascie e la cesta del suo poppante, sfogandosi con qualche vicina intorno ai suoi mali di stomaco, che le facevano sonare gli orecchi e le riempivano il capo di campanelli.
Era naturale che Arabella, tutte le volte che usciva dal suo collegio bianco e pulito, si trovasse male in quel vecchio e sgangherato cascinale, tra quei pilastri di vecchio mattone, che portano dei tetti sconnessi e anneriti dal tempo, nel lezzo acuto degli strami, che fanno monte in mezzo alla corte.
Alle Cascine c’era sempre una stanza riservata a lei, che durante la sua assenza serviva di deposito alle patate, ammonticchiate in un cantuccio. Dalla finestra l’occhio poteva scorrere sulla verde distesa dei prati fino all’antica abbazia di Chiaravalle, che usciva da un folto di pioppi e di salici cenericci con una severa e ardita dignità; ma anche in quella stanza dalle pareti ruvide e ruvidamente intonacate di calce, dai grossi travi del soffitto male spiallati, dai quadretti di vetro verdognolo sulle impannate, dal permanente odor di rinchiuso, essa stentava troppo a ritrovare la sua benevolenza, e l’energia di compatire, di operare, di concorrere cogli altri al bene della sua famiglia. E mentre da una parte contava i giorni di andarsene, non poteva sfuggire dall’altra parte a un senso quasi di rimorso di non saper restituire nulla a sua madre e al suo benefattore, in pagamento del bene che le avevano fatto, col darle una buona educazione e col metterla in grado di apprezzare i beni superiori della coscienza e della religione. Se non ci fosse stato un uomo tanto generoso da prendersi tutta una famiglia sulle spalle, che cosa avrebbe potuto essere una povera vedova con tre figliuoli piccini? Quale aiuto avrebbe dato il mondo alla figlia di un uomo che si era ucciso per isfuggire all’infamia di un processo? Queste idee, cozzando colle altre che venivano da Cremenno, facevano spesso un tal tumulto nel suo piccolo cuore, che spesso non poteva dormire la notte.
Una giovinetta di diciott’anni, educata a tutte le delicatezze spirituali di un collegio di monache, che chiamano peccato ogni filo di polvere dimenticato sui mobili, non poteva adattarsi senza ripugnanza all’unto e al bisunto di cose e di abitudini grossolane, alla materialità di una vita così rasente terra, agli schiamazzi, al vociare continuo, al fumo che i camini rimandano negli occhi, all’untume delle minestre di lardo, al puzzo delle stalle, al linguaggio nudo e mal vestito dei villani, che parlano secondo natura vuole, andando alle cose per le parole più corte.
«Il mio collegietto di Cremenno mi è sempre nel cuore — scriveva a suor M. Benedetta — e in questo basso mondo stento ad abituarmi.
«Non può immaginare, mia buona madre, quanta malinconia mi fa la vita dei pallidi astri e dei girasoli, che fioriscono in questo nostro umido orticello, dove la notte vengono a cantare le rane. Mi assale una specie di vertigine quando penso alle mille rose, che ornavano la nostra Madonna l’ultimo giorno del mese di maggio. Penso a loro così liete nella santa opera dell’educare e mi spavento quasi della mia inerzia di spirito. Anch’io ho un gran debito da pagare a Dio, e mi pare che ogni notte la pover’anima venga a bussare al mio uscio.
«A casa mi tornano tutte le memorie del passato e mi par di soffrire per me e per conto di un assente, che aspetta tutto da me. Quel giorno che potrò consacrare il mio cuore e la mia giovinezza all’esercizio del bene e alla preghiera perenne, soltanto allora mi sembrerà di aver trovata la mia strada: soltanto allora potrò dormire tutta una notte intera.»
L’ultima volta che venne alle Cascine tornò a scrivere con più malinconia:
— «A casa ho trovato nuove tristezze. Questo mio secondo padre, al quale devo pure della gratitudine, mi ha raccontate molte sue disgrazie, da cui non ho afferrato bene che un pensiero, cioè che io son di peso. E veramente che posso fare io per sollevare questo peso? Se è vero che gli affari dell’azienda vanno male, quale rimedio posso io opporre se non è una fervida preghiera a Colui che può tutto? dove potrei pregar meglio che in codesto pio luogo, dove ho imparato a conoscere il tesoro dei beni spirituali? Ho fatto domandare a Lodi quel che ci vuole per ottenere la patente di maestra e nel prossimo ottobre potrei dare gli esami. Così, se non potrò, nella mia miseria, portare alla Congregazione una dote (e lei sa che di mio non ho che dolorose memorie) cercherò di portarvi un titolo utile e una bella volontà di lavorare.»
Questo malinconico desiderio di rinchiudersi e di sottrarsi alla tristezza delle cose cresceva in lei fino al patimento nelle giornate bigie e in quelle piovose, quando il lungo cascinale colle molte bocche dei fienili aperte nella corte, coi porticati tozzi, ingombri di travi, di fascine, di attrezzi, coi tetti neri e lucenti, sgocciolanti acqua nelle tinozze, pareva sprofondarsi nella nebbia e nella mota.
In quella scolorita tetraggine com’era triste il vociare delle oche che starnazzano nel pattume! e che indefinita voglia di non essere, metteva indosso il piagnucolare del fratellino in fascie, che la mamma non sapeva consolare, un piagnucolare dolente, che saliva dalla cucina insieme al rotto frastuono delle faccende.
Tratto tratto la giovinezza voleva la sua parte. Al tornare, per esempio, d’una bella giornata pigliava con sè qualche libro, l’album, il panierino di lavoro e correva colla furia d’una passera spaventata verso una chiesuola detta la Colorina, isolata in mezzo al verde dei prati, a mezza strada tra l’Abbazia e il Camposanto.
Più che una chiesa, si poteva dire una vecchia cappelletta votiva restaurata e ingrandita al tempo della peste, non arredata ora che da un povero altare di legno inverniciato con quattro figure smorte su per le lesene sgretolate del muro. Serviva anche di deposito e di magazzino al becchino che vi raccoglieva gli arnesi del mestiere. Là dentro l’aria e il sole entravano liberamente per le finestre non difese che da logore impennate coi piombi scassinati, con ragnatele al posto dei vetri. Entravano nella chiesina le rondini, che avevano i nidi sotto le cornici di gesso; entravano i bimbi e le galline per la porticina sempre aperta sui campi, nella quale nei quieti meriggi di estate soffiava l’aria calda e profumata del fieno agostano ch’essiccava sul prato.
Arabella, sfuggendo alla sua malinconia, si rifugiava spesso alla Colorina, costeggiando un lungo canale d’acqua corrente e lucida, chiuso tra due filari di salici. Entrava, e chiuso col saliscendi interno la porta sconnessa, si trovava subito con Dio e colle ultime rondini dell’anno a riflettere sulla sua vocazione, a meditare sui dolori della terra e sulle immense cose che riempiono il cielo, a pregare per l’anima bisognosa del povero papà. Più che leggere nel libro di devozione, leggeva nella pagina azzurra del cielo, che dal suo banchetto vedeva attraverso a una larga finestra ovale: ed era un assopimento leggero di tutti i sensi in una visione senza contorni, nella quale sentiva diluire la sua piccola vita in un mare di gaudio.
Era la vigilia della Madonna di settembre. Arabella verso sera affrettavasi a dare gli ultimi punti al bucato della quindicina, di cui aveva davanti una cesta piena, sotto la finestra della sua camera, quando vide entrare papà Paolino più triste e più malato del solito. Si mise a sedere con l’aria stracca dell’uomo sfiduciato, finchè in mezzo a dei grandi sospiri uscì a dire:
— Puoi darmi ascolto due minuti, Arabella? —
Perchè non doveva ascoltarlo? il disgraziato era solito sfogarsi con lei quando la passione gli mozzava il respiro. Anche questa volta egli cominciò molto da lontano. Lo avevano tradito perchè si era fidato troppo degli uomini. Tutti rubavano, tutti mangiavano addosso a lui, povero uomo, che aveva il sangue alla gola. Tornò a parlare di una certa ipoteca... parola che alla monachella ignorante suscitava l’idea d’una cosa antipatica e odiosa, ostinata a voler fare del male a papà Paolino...
Un padre di famiglia, seguitava lui, non può fuggire e rinchiudersi in un convento. Come un capitano di mare, deve naufragare e abbruciare col suo bastimento. San Martino veniva avanti a gran passi, egli avrebbe dovuto rinnovare l’affitto coll’Ospedale, pagare gli interessi al sor Tognino e non aveva i mezzi abbastanza. La causa, i cattivi raccolti, la concorrenza, le malattie, i figliuoli, le spese, l’avevano mezzo rovinato. Bisognava ricorrere alle cambiali, cioè farsi strozzare o liquidare, vale a dire rovinarsi prima del tempo, perchè una liquidazione agricola significa perdere le scorte, i foraggi e i frutti del capitale versato sulla terra.
E poi dove andare? che cosa fare? se si fosse lumache! ma quando un uomo ha perso il credito, è peggio d’un cavallo che ha le gambe rotte...
E tante altre cose seguitò a tirar fuori dal petto quel benedetto uomo, lasciando sgocciolate sulle gote rese fonde e scialbe dal male quelle lagrime, che in presenza di mamma Beatrice si sforzava d’inghiottire in stranguglioni grossi e duri come noci.
Arabella l’ascoltò con attenzione, con pietà, con una commozione sincera e profonda, lontana le mille miglia dall’immaginare dove sarebbe andato a finire un discorso così patetico, che somigliava troppo a cento altri, perchè ella vi potesse supporre qualche cosa di nuovo. Cercò di mettere qua e là una di quelle parole che hanno bisogno d’una gran fede nella provvidenza per far bene; ma papà Botta pareva disperare anche della Provvidenza. Da tre domeniche non si lasciava vedere a messa. La sua vita e la sua morte erano nelle mani del sor Tognino.
Questo nome di sor Tognino, insieme all’altro di ipoteca, più di cento volte era tornato nei discorsi di papà Botta, come quello di un genio cattivo della sua casa.
— Mi dica, papà — chiese con un moto di lenta curiosità — questo sor Tognino non è quello stesso che ha fatto la causa di turbato possesso?
— Lui, precisamente. È un uomo forte, pieno di denari, che mi può fare del male e anche del bene.
— Come c’entra ancora?
— C’entra perchè io non l’ho pagato... cioè l’ho pagato parte con delle cambiali, parte con delle ipoteche.
— Se io potessi capire queste benedette parole...
— Bisogna però esser giusti anche con lui e riconoscere che mi usò sempre della cortesia. Volle mostrarsi forte nel suo diritto, ma non posso dire che abbia abusato della sua forza. La gente vista da vicino alle volte è migliore di quel che sembra da lontano. Io l’ho sempre trovato un uomo ragionevole. È appunto di lui che son venuto a parlarti, la mia figliuola.
— Se non lo conosco...
— Egli conosce te.
— Che vuole da me questo signore delle ipoteche?
— Ti ha incontrata due o tre volte sulla strada della Colorina; è un signore che passa in una carrozza coperta, con un cavallo grigio...
— Un uomo vecchiotto...
— Ma un vecchiotto in gambe. Possiede San Donato, o se non lo possiede, lo amministra, che è quasi lo stesso. L’ho trovato sabato quindici, a Melegnano, e venne ad offrirmi del miglio. Poi mi domandò se quella signorina, così e così, che incontra spesso sulla strada della Colorina, è mia figlia. Gli dissi: è mia figlia adottiva, ma è più che mia figlia.
Papà Botta si commosse all’idea del bene che avrebbe voluto fare ai figli di Cesarino Pianelli, e che il destino invece...
— Lo so, lo so — fu pronta a dire Arabella, posando una mano sopra un ginocchio del suo benefattore.
— E una bella e simpatica ragazza — seguitò il sor Tognino — e ha l’aria d’una donnina di talento. Come sarei contento — ripeto le sue parole — come sarei contento se mio figlio sposasse una ragazza così. E io: — la nostra Arabella ha tutt’altre idee e non pensa a maritarsi.
— Infatti... — si affrettò a dire la fanciulla, sorridendo e arrossendo un poco.
— E ci lasciammo, e amen: non se ne parlò più. Comprai il miglio e questo discorso m’era già uscito dalla mente, quando stamattina ricevo, guarda, ricevo una lettera, to’... — e trasse di tasca un foglio — una lettera sorprendente, che non ho osato far vedere a tua madre, perchè le donne si scaldano facilmente la fantasia e a me piacciono le cose misurate e ponderate. Sicuro! tu hai già fatto il tuo pensiero, e il tuo pensiero dev’essere per noi inviolabile e sacro come il Santissimo sopra l’altare. Prima di tutto la voce del cuore, e per quel che c’è di bello nel mondo, vorrei poter anch’io dare un bell’addio e ritirarmi sopra una montagna. Ma un padre di famiglia è come un capitano di mare. Quando ho sposato tua madre, Arabella, speravo bene di fare la vostra fortuna e Gesù è testimonio che se si fosse trattato del sangue, avrei dato il sangue. Le cose sono andate a male, pazienza! ma crepi io sotto la mia casa prima che domandi il sacrificio di nessuno. Questa lettera nessuno l’ha vista, si può leggere e si può abbruciare. Non te l’avrei nemmeno fatta vedere, se non mi si dicesse d’interrogarti; nè io posso rispondere, se non t’interrogo. Leggi e per tutta risposta dimmi un no, un sì, una parola che io scriverò tal e quale al sor Tognino, senza...
Un piccolo singhiozzo ruppe a questo punto un discorso, che il pover’uomo non aveva più la forza di sostenere.
Arabella, fattasi più presso alla finestra, lesse nella corta luce del tramonto le seguenti parole:
«Mio caro signor Botta.
«Vuol interrogare la buona Arabella in proposito del discorso di sabato? Mio figlio non cerca dote e quando scegliesse una moglie di suo gusto, sono disposto a far qualunque sacrificio. È libero il cuore della popòla? potrei dire, per esempio, al mio Lorenzo di passare qualche volta a caccia da queste parti? La cosa resti tra noi; ma fin d’adesso assicuro il signor Botta che se combiniamo l’affare io giro a mia nuora tutti i diritti ipotecari che posso vantare sulle Cascine. Tra buoni parenti non si guarderà al centesimo; anzi spero di fare un buon acquisto nell’esperienza del mio vicino per il buon andamento dei fondi, di cui sono un meschino e incapace amministratore. Mi mandi una risposta presto e buona.»
Arabella lesse due volte lentamente fin che le parole regolari e nette della lettera scomparvero nell’ombra della sera. Sebbene còlta all’improvviso, coll’animo caldo d’altri pensieri e a tutta prima l’idea del maritarsi le sembrasse un’assurdità, da riderci su, tuttavia, nel punto di aprir bocca, sentì correre sul cuore qualche cosa come un dubbio, o come un rimorso, che arrestò la deliberazione e la trattenne in una penosa sospensione d’animo.
Nel voltarsi a rendere la lettera, scorse il suo patrigno e benefattore raggomitolato sulla sedia, quasi nascosto dal buio, coi gomiti puntellati ai ginocchi, colla testa chiusa tra le mani come in due morse, nell’attitudine stanca e paurosa di chi aspetta una sentenza fatale. A quella vista non ebbe coraggio di togliergli tutte le speranze.
La campanella della Colorina prese a suonare i segni del rosario. Pareva una voce che parlasse da lontano, un avvertimento che uscisse dalla tristezza infinita dell’ombra e della pianura.
Dal portico saliva il piangere del piccolo Bertino malato, accompagnato da una cantilena della Bassa, in cui urtavano i ruvidi colpi della culla sballottata fuor di tempo.
Al piangere del piccino mescolavansi altre voci di ragazze e di donne, insieme al cigolìo dei secchi, al rotolare delle carriole che rientravano cariche d’erba, nell’ombra sempre crescente del casolare, in cui serpeggiava quasi un senso di paura.
Rimasero tutt’e due un lungo tratto in silenzio, occupati, smarriti nella grande quantità di pensieri, che passarono in mezzo tra l’uno e l’altra, che se avessero avuto figura, si sarebbero visti intrecciarsi, cercarsi e sfuggirsi agitati da una stessa passione.
Il benefattore non voleva sacrifici, ma perchè aveva aperta la questione? La speranza è sempre in ciò che non si ha, e molte volte in ciò che non si vuole. Questo buon uomo, che aspettava una parola di vita o di morte, aveva strappata una povera vedova con tre figliuoli dalla disperazione e dalla miseria e aveva procurato a una fanciulla, senza padre e senza protezione, i mezzi d’educarsi, d’essere qualche cosa, togliendola ai cento pericoli che circondano un’orfanella povera e abbandonata.
Quel Dio, a cui Arabella era disposta a sacrificare la sua giovinezza e la sua vita in espiazione, chi sa?, parlava forse per la bocca medesima di un uomo onesto e virtuoso, del quale s’era servito per operare i prodigi della sua bontà e della sua carità.
Arabella sentì subito in quel primo e improvviso conflitto di sensazioni e di pensieri che non basta essere santi a questo mondo, cioè comprese che è impossibile diventarlo, se non si comincia coll’essere pietosi e buoni. Non volendo mostrarsi arida e intollerante, si accostò al pover’uomo, che non osava alzare il capo, e gli disse: — Questa lettera, veramente, io me l’aspettavo così poco, che non so che cosa rispondere. Bisogna a ogni modo che io rifletta, che interroghi me stessa. Ne parleremo anche colla mamma. Io non conosco questa gente: e son così lontana dall’idea di maritarmi... Ma intanto si faccia coraggio, papà, non si avvilisca in questa maniera. Ha visto che Dio ci ha sempre aiutati in cento altre circostanze...
Paolino, soffocato dalle lagrime e dalla commozione che suscitava in lui la voce tenera e pietosa della figliuola, alzò un poco la testa, prese la mano della ragazza, se la strinse nelle sue, e voleva dire ancora ch’egli non cercava il sacrificio di nessuno, che aveva parlato solo per iscrupolo di coscienza, che qualunque fosse la risposta, il suo cuore non si sarebbe mutato per rispetto alla sua cara Arabella; ma di tutto ciò non potè dir nulla. Si sentiva un uomo strozzato.
La voce della mamma in fondo della scala chiamò a cena, e come se quel grido disturbasse due innamorati, papà Botta scappò via. Arabella raccolse il bucato e chiuse la finestra.
Peccato! camminava così serena e sicura nella strada della sua vocazione ed era già così vicina a toccare il porto della sua pace, che la monachella si irritò non senza qualche ragione contro questo improvviso ostacolo e si meravigliò di non trovare in sè il vigore e il rigore delle vere sante, che non odono che una voce.
Il dir di no e seguitare la sua via sarebbe stato più naturale e più semplice per lei e anche per la gente che si occupa dei fatti altrui, perchè, infine, nulla di più ridicolo d’una mezza monachella, che sulla soglia del convento si volta a sposare il primo che capita. Con tutto ciò al di sotto delle prime ragioni andava formolandosi e crescendo un’altra convinzione, fatta più di coscienza che di ragioni, una coscienza mista a uno sgomento indeterminato delle conseguenze, che il suo decidersi, qualunque fosse, avrebbe trascinato con sè.
Scese anche lei in cucina, come al solito, a cena. In casa Botta, seguitando gli usi antichi, ognuno pigliava un posto a una gran tavola, dov’erano distribuite molte scodelle in disordine, servite senza lusso di tovaglie e di tovaglioli. Un pentolone solo bagnava le zuppe dei padroni e dei castaldi, che tolta la ciotola in mano, sedevano in giro sui sacchi e sui barili a sbrodolarsi lo stomaco. Una unica lucerna a petrolio rischiarava il vasto camerone, ingombro più che arredato di vecchie tavole, di sedie spagliate e zoppe, di botticelle, di sacchi pendenti dal soffitto, di molta roba usata, inutile o dimenticata, che la pigrizia lasciava lì e il disordine pigliava a calci.
Bertino quella sera non fece che piangere tutto il tempo. Era arrivato anche l’attestato scolastico di Mario con delle note scadenti e una lettera scoraggiante del padre rettore. Mario, il maggiore dei due fratelli di Arabella, avrebbe dovuto corrispondere con più riconoscenza agli sforzi e ai sacrifici di papà Botta. La mamma ne aveva gli occhi rossi, ma ordinò alla figliuola di non dir nulla a quel povero uomo. In quella casa si giocava a chi sapeva più bene nascondere: e un male, che si poteva guarire a tempo, si copriva di cenci finchè fosse incancrenito.
Arabella, vestita d’una divisa scura di collegio, che davale già l’aspetto di monaca, cogli occhi fissi in una scodella d’orzo bollito nel latte, che impastava la bocca e urtava lo stomaco, sentì tutta la tristezza di quella gran casa in decadenza, una barca sdruscita, troppo piena di roba e di gente, che faceva acqua da tutte le parti, dove ogni sera venivano a radunarsi i rancori, le delusioni, le tristezze di giornate lunghe, piene di fatiche inutili.
Quel povero Bertino non cessò mai dal piangere. Era malato, si vedeva, d’un male che nessuno credeva necessario di curare e al quale ognuno dava un nome diverso. Sentendosi anche lei un gran peso alla testa, colse un pretesto e si ritirò prima del solito nella sua stanza, dove si chiuse al buio, per bisogno di raccogliere i suoi pensieri.
Perchè avrebbe dovuto maritarsi? Quando aveva ella pensato mai che ci fossero degli uomini al mondo e che ad uno di questi uomini avrebbe dovuto legare la vita e l’anima? La sua vita, più ricca di pensieri che di passioni, trattenuta anche dagli spontanei rigori d’una natura tenera e delicatissima, più irrigidita che scaldata dall’educazione sistematica della scuola e della chiesa, intimidita dalle apprensioni provate fin da bambina, non conosceva nessuno di quei ciechi fenomeni dell’istinto, che turbano la giovinezza di altre fanciulle. Dell’amore ne sapeva quel poco che una collegiale può capire dai Promessi Sposi e dai proverbi della gente onesta, e andava, tutt’al più, a immaginare una tenera e affettuosa benevolenza tra uomo e donna, che ha per misteriosa conseguenza un certo numero di figliuoli. E con questi scarsi elementi della vita essa era chiamata a decidere della sua vita. Chi era questo bravo uomo a cui avrebbe dovuto consacrare la sua benevolenza? L’aveva mai incontrato una volta sulla sua strada? Credeva anche lui in Dio e nel bene? Come poteva dunque esitare a rispondere una parola che la salvasse subito e per sempre da una terribile responsabilità?
Presa dalla voglia d’uscire al più presto da un’incertezza così penosa, accese un lume, levò dal cassetto un foglio e cominciò a scrivere a papà Botta i motivi morali, che non le permettevano d’accettare l’offerta del signor Tognino. La sua vita, scriveva, era già consacrata allo sposo celeste, e non era la vocazione d’un giorno, ma il pensiero dominante di tutta la sua giovinezza. Per questo voto aveva già ricevuti replicati affidamenti di grazia, talchè il venir meno alla promessa sarebbe stato per lei un tradire, un abbandonare sopra l’abisso un’anima bisognosa, l’anima del suo povero papà.
In questa convinzione che le maestre e i confessori avevano più volte ribadita nel suo tenero cuore, la fanciulla si sentì così dotta e agguerrita, che non le mancarono le parole calde e affettuose per convincere sè e gli altri; e dopo tre pagine la sua mano leggiera scriveva ancora, come se un angelo guidasse la penna, provando essa stessa una soave emozione nel rileggere parole e frasi scaturite quasi miracolosamente dalla ricchezza del cuore, e che le inondavano il viso di lagrime.
Sonavano le nove nel gran silenzio. Alle Cascine eran scomparsi i lumi e parevan già tutti addormentati. Dalla campagna non veniva che il rotolar sordo dei carri che battono la strada grossa, qualche abbaiare lontano di cani, due o tre volte il fischio del vapore della vicina stazione di Rogoredo. La notte era serena e scura, con un cielo gremito di stelle; per tutto un silenzio raccolto, entro il quale bisbigliava lo zampillo d’una bocca d’acqua che dava a bere ai prati. Arabella stava per chiudere la lettera, quando risonò improvvisamente un grido, che fece trasalire il cuore già gonfio e commosso.
Pareva la voce della mamma. No, era ancora il piangere dolente di Bertino. Sente uno sbattere d’usci e gente che corre. Poi subito la voce di papà Botta che chiama: — Arabella! — Salta in piedi: — Che c’è? — Vieni, io corro a cercare il dottore. — E sente di nuovo il passo di papà Botta scendere la scala e correre attraverso i campi. — Che cosa c’è mamma?
Corse, entrò nella stanza della mamma e la trovò col bambino in braccio che si dibatteva in feroci convulsioni. La voce del piccino, dopo quel gran grido, usciva soffocata come un rantolo dalla gola e le manine annaspavano con violenza nell’aria, come se si sforzassero di togliere un laccio, lì, alla gola.
La povera mamma si era accorta da poco tempo che il suo Bertino moriva. Mezza svestita, coi capelli in disordine, bianca come la neve, non sapeva dir altro che Gesù, Gesù.
Arabella prese lei il bambino in braccio, spalancò la finestra e ve lo portò in maniera, che la respirazione fu subito meno affannosa. Cercò coi diti di schiudere la piccola bocca inchiavata dalla convulsione; ma non potè. Finalmente venne il dottore, che giudicò un caso gravissimo di angina difterica.
Bertino un grassottello, roseo, coi riccioli biondi era il cuculo di tutti alle Cascine, e papà e mamma gli volevan bene anche per quest’ambizione. Ora papà pareva la morte in piedi, e la mamma, dopo aver brancolato un pezzo per la stanza senza conchiudere nulla, finì col cadere svenuta in mezzo alle donne.
Il dottore non potè contare che sull’aiuto intelligente di Arabella, che tenne fermo il bimbo, mentre gli bruciavano in gola, soffocando nelle sue braccia i guizzi tremendi del povero angelo, resa forte del coraggio che la donna attinge alla pietà, fatta avveduta e intelligente da quella buona maestra, la natura, che mette nel cuore della donna ciò che la scienza non fa che confondere nei libri.
Finita la crudele operazione, la sorella sedette accanto al lettuccio, dette delle ordinazioni, mandò via la gente, comandò come se il bimbo fosse suo, notò i consigli del dottore e non si mosse più per ventiquattro ore da quel suo posto, finchè durò la tremenda agonia, finchè il piccino non ebbe dato l’ultimo respiro.
Era la prima volta ch’essa vedeva soffrire a quel modo un’innocente creatura ed era il primo morto a cui chiudeva gli occhi; e le parve, attraverso i patimenti, di veder al di là, nel vasto mistero delle cose.
Nella lunga veglia, nel faticoso sforzo dell’animo non sapeva a volte distinguere tra sè e la povera mamma, che andava e veniva come un fantasma. Era un patimento solo che stringeva due cuori; se non che la giovinezza e la baldanza delle forze facevano sentire alla figlia anche una superiorità morale, che la piegava a un senso di protezione verso la povera donna. Senza volerlo si sentì l’anima della casa. Si meravigliò di non aver conosciuto prima quel grande amore che la legava al fratellino, e contemplandolo spirato, provò lo strazio di chi si sente portar via il cuore. Qualche cosa d’irrigidito scioglievasi in lei. Non mai aveva abbracciata con tanta effusione d’affetto e di lagrime la sua povera mamma, che le ricordò nel suo sfasciamento la Madonna addolorata ai piedi della croce. E anche questa stessa pia tradizione di dolori sacri e adorati prese nel suo cuore un significato novissimo di verità, di umanità, di grandiosa comprensione, come se l’umanità, saltasse fuori dalle venerate immaginette simboliche della via crucis.
Nel dolore immenso conobbe l’amore, si sentì madre anche lei in qualche maniera dei piccini e dei grandi, e quando, dopo un sonno profondo di alcune ore, si risvegliò nella sua stanza e ritornò col pensiero alle cose di qua, le parve di aver fatto un lunghissimo viaggio.
Rileggendo la lettera che aveva preparato per il suo padrino, la trovò fredda e artificiale, e soffrì di non sentirla più come prima. Forse vi sono al mondo per una donna due sorta di vocazioni, di cui essa non aveva finora conosciuta che la più semplice. Nascose la lettera e rimandò la risoluzione del delicato problema a un altro momento.
Continuamente ora avevano bisogno di lei. La mamma non faceva che piangere sul cadaverino e in quanto a papà Paolino metteva paura a vederlo. Lungo, scarno, col viso giallo, l’occhio itterico, i capelli irti come setole, cento volte faceva e rifaceva quelle maledette scale, rispondendo a caso alle domande dei famigliari, alle consolazioni del curato, dimentico degli altri grossi dispiaceri, che per riguardo a questo, si rassegnavano a tirarsi indietro. Arabella per mettere una nota di consolazione volle che il funerale del piccino fosse bello e gaio, come si usa in campagna cogli angioletti. Fece sonare a festa e mandò a raccogliere quanti fiori trovò. Preparò essa stessa la bara con molto verde e ordinò alle donne di condurre i bambini, di cui non c’è mai penuria, a ciascuno dei quali mise in mano un ramoscello di mirto. Tutti sentirono la seduzione di quei conforti, e quando il corteo si mosse sotto il sole d’una bella giornata di settembre e cominciò a sfilare lungo il canale pel viale dei salici che mena alla chiesa, tutti avevan gli occhi sopra la monachella, a cui dovevano l’edificazione commovente di quello spettacolo.
Il funerale, al ponte, s’incontrò in una carrozza, che si tirò in disparte. Un vecchio signore e un elegante giovinotto saltarono dal legno e stettero col cappello in mano a veder sfilare la processione. Arabella, che veniva in coda alle bambine, credette di riconoscere il cavallo e il legno del signor Tognino e immaginò chi poteva essere il giovane robusto che era con lui.
Il cuore, che aveva interamente dimenticato, balzò come al tocco d’uno spillo. Un profondo turbamento scosse il sangue. Il volto pallidissimo, stanco e sbattuto dalle lagrime, si accese improvvisamente d’una fiamma, che parve a chi la guardava dar fuoco ai sottili capelli biondi.
Fu, quella la prima volta che Lorenzo Maccagno vide la figlia di Cesarino Pianelli.