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dinò alla figliuola di non dir nulla a quel povero uomo. In quella casa si giocava a chi sapeva più bene nascondere: e un male, che si poteva guarire a tempo, si copriva di cenci finchè fosse incancrenito.
Arabella, vestita d’una divisa scura di collegio, che davale già l’aspetto di monaca, cogli occhi fissi in una scodella d’orzo bollito nel latte, che impastava la bocca e urtava lo stomaco, sentì tutta la tristezza di quella gran casa in decadenza, una barca sdruscita, troppo piena di roba e di gente, che faceva acqua da tutte le parti, dove ogni sera venivano a radunarsi i rancori, le delusioni, le tristezze di giornate lunghe, piene di fatiche inutili.
Quel povero Bertino non cessò mai dal piangere. Era malato, si vedeva, d’un male che nessuno credeva necessario di curare e al quale ognuno dava un nome diverso. Sentendosi anche lei un gran peso alla testa, colse un pretesto e si ritirò prima del solito nella sua stanza, dove si chiuse al buio, per bisogno di raccogliere i suoi pensieri.
Perchè avrebbe dovuto maritarsi? Quando aveva ella pensato mai che ci fossero degli uomini al mondo e che ad uno di questi uomini avrebbe dovuto legare la vita e l’anima? La sua vita, più ricca di pensieri che di passioni, trattenuta anche dagli spontanei rigori d’una natura tenera e delicatissima, più irrigidita che scaldata dall’educazione sistematica della scuola e della chiesa, intimidita dalle apprensioni provate fin da bambina, non conosceva nessuno di quei ciechi fenomeni dell’istinto, che turbano la giovinezza di altre fanciulle. Dell’amore ne sapeva quel poco che una collegiale può capire dai Promessi Sposi e dai proverbi della gente onesta, e andava, tutt’al più,