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eran scomparsi i lumi e parevan già tutti addormentati. Dalla campagna non veniva che il rotolar sordo dei carri che battono la strada grossa, qualche abbaiare lontano di cani, due o tre volte il fischio del vapore della vicina stazione di Rogoredo. La notte era serena e scura, con un cielo gremito di stelle; per tutto un silenzio raccolto, entro il quale bisbigliava lo zampillo d’una bocca d’acqua che dava a bere ai prati. Arabella stava per chiudere la lettera, quando risonò improvvisamente un grido, che fece trasalire il cuore già gonfio e commosso.
Pareva la voce della mamma. No, era ancora il piangere dolente di Bertino. Sente uno sbattere d’usci e gente che corre. Poi subito la voce di papà Botta che chiama: — Arabella! — Salta in piedi: — Che c’è? — Vieni, io corro a cercare il dottore. — E sente di nuovo il passo di papà Botta scendere la scala e correre attraverso i campi. — Che cosa c’è mamma?
Corse, entrò nella stanza della mamma e la trovò col bambino in braccio che si dibatteva in feroci convulsioni. La voce del piccino, dopo quel gran grido, usciva soffocata come un rantolo dalla gola e le manine annaspavano con violenza nell’aria, come se si sforzassero di togliere un laccio, lì, alla gola.
La povera mamma si era accorta da poco tempo che il suo Bertino moriva. Mezza svestita, coi capelli in disordine, bianca come la neve, non sapeva dir altro che Gesù, Gesù.
Arabella prese lei il bambino in braccio, spalancò la finestra e ve lo portò in maniera, che la respirazione fu subito meno affannosa. Cercò coi diti di schiudere la piccola bocca inchiavata dalla convul-