Arabella/Parte prima/4
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IV.
La Colomba tornò a casa un po’ più tardi del solito, avendo voluto prima parlare con suo cognato Berretta circa le voci, che correvano su questa benedetta eredità.
Essa temeva che Ferruccio avesse a trovarsi implicato in qualche brutto intrigo e desiderava ancora più di prima che, potendo, cambiasse aria al più presto.
Trovò il Berretta più brutto del solito nel bugigattolo della portineria, tutto occupato a far dei punti in una vecchia livrea di casa Mainona, al lume di un moccoletto di sego, che se rompeva il buio della stanzuccia sfigurava davanti al chiaro della strada. A S. Antonio il giorno si prolunga di un’ora buona: e in certe giornate serene il sole arriva quasi a tempo a veder la minestra in tavola.
— Ho visto Ferruccio — cominciò la Colomba, mettendosi a sedere senza tirar le braccia dai grossi fagotti, che appoggiò sui ginocchi — e mi ha detto che il suo principale gli ha aumentato il mese. È una bella cosa, ma non vorrei che con questi denari il povero figliuolo avesse a comperarsi dei fastidi e molto meno degli aggravi di coscienza. Che razza di uomo è questo vostro principale? Io non l’ho visto che alla sfuggita e mi ha la figura di una faina. È vero che ha fatto i denari in ogni maniera? che a Milano possiede certe case dove, per esempio, non vorrei che Ferruccio andasse a dire il rosario? e che storia è questa del testamento rubato, che so io? di un’eredità di quattrocento mila lire, che il bravo uomo, si dice, avrebbe fatto scappare? Voi che cosa ne sapete? perchè io ho sentito oggi parole di fuoco e quando la gente comincia a tirar sassi contro un cane rabbioso, c’è pericolo che i sassi rompano qualche cosa e colpiscano la testa della gente che passa. Ferruccio è un povero chierico che ha ancora la sua prima innocenza e non vorrei che si trovasse, senza accorgersi, implicato in un affaraccio. Il gatto bianco che va a dormire nel carbone bisogna che si svegli nero la mattina. Siam povera gente a cui piace morire in pace; e il male, parlando con poco rispetto, è come la rogna: chi l’ha l’attacca.
Il Berretta lasciò cadere il lavoro sui ginocchi e, guardando la cognata attraverso i vetri grossi degli occhiali, prese a dire con un tono mezzo canzonatorio:
— Vedete che io faccio il sarto.
— Il fare il sarto non v’impedisce di vedere chi va e chi viene dalla vostra porta, e non deve nemmeno impedirvi d’occuparvi del bene del vostro figliuolo.
— Egli aveva trovato un benefattore che lo faceva studiare.
— Lasciamo stare questa storia, che non c’entra adesso. Se il figliuolo non si è sentito di fare il prete, ha mostrato della forza d’animo e della coscienza a buttare il collarino nelle ortiche. Di preti senza vocazione il Signore non sa che cosa farne. Io parlo del Ferruccio d’oggi anima benedetta!
— Se gli danno sessanta lire al mese... — brontolò svogliato il portinaio, ripigliando a far dei punti nella livrea.
— Scusate, Pietro: ci sono dei mestieri, in cui si possono guadagnare comodamente duecento e trecento lire al mese solamente ad aprir l’uscio al diavolo. Se voi mi servite per sessanta lire di chiodi in minestra e se io devo digerire la vostra generosità, grazie della vostra minestra: preferisco la polenta condita di fame. Ora i rimorsi sono come un carico di chiodi per la coscienza.
Il sarto chinò il capo, addentò il gruppo del filo e se lo rosicchiò, alzando le spalle, come se il discorso non lo riguardasse.
— Che cosa c’è di vero dunque in questa storia dell’eredità? — tornò a domandare la Colomba, appoggiando il viso al fagotto rosso.
— Domandate a me?
— Con chi parlo se non con voi? — scattò a dire la donna, facendosi rossa come il suo fagotto. — L’Angiolina l’ortolana, Aquilino Ratta, se non isbaglio, un ometto magro che parla bene...
— Conosco io questa gente? — ribattè il portinaio, quasi contento di poter rispondere alle domande con altre domande altrettanto noiose e inconcludenti.
— È impossibile che non ne sappiate qualche cosa. La Ratta non è morta qui?
— E sono io il confessore delle vecchie che muoiono?
— Saprete almeno dire se il vostro padrone è un galantuomo e se quel che dicono di lui sono bugie?
— Io? — tornò a domandare il Berretta, indicandosi colle grosse cesoie. — Io faccio il sarto.
— Sapete almeno quel che vi costa l’acquavite che bevete in un giorno e che vi rende stordito come un’oca? — proruppe la Colomba alzandosi, colle fiamme ai pomelli del viso, fiutando nell’aria il puzzo di cui era impregnato lo stanzino. — Io sono venuta per il bene di Ferruccio e non per sapere gli affari degli altri, e molto meno i vostri. Voi fate il sarto e io compero la roba al Monte: state allegro e diverrete grasso, Berretta. — E se ne andò dopo aver infilato l’un dopo l’altro i due fagotti nello stretto passaggio dell’invetriata.
Il Berretta buttò le cesoie sul tavolo con grande fracasso, soffiando forte di dispetto e di disperazione. Che venivano a rompere la testa a lui? potevano battere un morto con più profitto. Quando un uomo è sull’orlo d’essere impiccato, è giusto a lui che si deve far la questione di che filo è fatta la corda. Lui non conosceva nessuno, nè Aquilino, nè Pasqualino, nè Maddalena, nè Bartolomeo; lui faceva il sarto. Chi sa dire fin dove un uomo è galantuomo e fin dove è briccone? ma quando il sor Tognino avesse dato corso alla denuncia, non c’era più un cane in Milano che avrebbe potuto salvare un povero tristo dal cellulare. A quest’idea il povero Berretta rabbrividiva fin nel fondo degli ossi e non era che per cacciar quel freddo dalla midolla che, non avendo più vino, raccomandavasi all’acquavite.
La Colomba co’ suoi due fagotti infilati sulle braccia, traversò mezzo Milano nell’ora che già cominciavano a illuminarsi le botteghe e a spuntare le fiammelle rossiccie dei lampioni a gaz nella lunghezza delle strade.
Dal Carrobbio alla via di San Barnaba è una bella passeggiata ma la buona donna che dalle undici batteva il selciato e aveva fatto più di una scala, non sentì la fatica, se non quando pose il corpo a riposare sopra una sedia. Allora le gambe e i due polsi indolenziti dal peso della roba cominciarono a protestare e si lamentarono tutta la notte. Ma fin che fu in moto ella non si accorse del peso degli anni e del corpo, come se un pensiero più forte di lei la tirasse dietro e la facesse camminare un dito sollevata da terra.
Quel benedetto figliuolo le stava sul cuore.
Dacchè Ferruccio aveva lasciato il Seminario, vale a dire da quasi un anno, non aveva mai potuto imbroccare una buona strada e c’era pericolo che domani avesse a trovarsi da capo, al sicut erat in principio, perchè non basta dire: questo è pane... ma bisogna sapere di che cosa è fatto il pane che si mangia. Ora, quando Ferruccio avesse dovuto ingrassare il corpo a danno dell’anima, nè la Colomba, nè la Nunziadina non avrebbero permesso, e bisognava tornar da capo a cercare un boccone meno duro.
Seguendo le peripezie per cui era passato il ragazzo ne’ suoi vent’anni di vita, dal dì che era venuto al mondo, dando la morte alla sua mamma, il pensiero della Colomba tornava indietro e arrestavasi alla storia della povera Marietta, che aveva sposato il Berretta, ma che proprio un gran bene non l’aveva mai voluto a quel povero martoro di sarto. La Marietta era stata una testa romantica e anche Ferruccio aveva una tendenza a scaldarsi l’immaginazione dietro alle idee. Era un ragazzo da poter far bene una vita tranquilla, nella bottega d’un mercante o d’un libraio, era più stoffa da maestro che pasta d’uomo d’affari, molto meno affari confusi, in cui il diavolo c’entra o coi corni o colla coda. Quel vederlo rintanato in una stanzuccia oscura, in mezzo ai libri mastri, obbligato a scrivere numeri tutto il santo giorno, a litigare col quattrino, a fare il tiranno colla povera gente (lui, con quel cuore di piccione), a imparare le malizie dell’interessaccio sotto la guida di quella vecchia volpe, era una condizione che stringeva lo stomaco, anche prescindendo dalle belle voci che correvano.
Camminando, per dir così, su questi pensieri, che non le lasciavano sentire il sasso, la Colomba arrivò a casa, salì le scale ed entrò, mentre la Nunziadina appoggiata alle gruccette metteva il formaggio nella pentola della minestra.
La piccola tavola era preparata nel mezzo della cucina, coi soliti tre posti, rischiarati da una lampadina a petrolio coperta da un verde paralume di carta. La Nunziadina, quantunque non arrivasse colla punta del mento all’altezza della tavola, saltellando sulle gruccette come un passerino sugli staggi della gabbia, accudiva con agile abilità alle faccende di casa, cercando di render utile la sua piccola persona, anche nei momenti che le sue mani preziose non rammendavano il pizzo. La Colomba prima di uscire la mattina per andare al Monte, preparava il riso e il lardo e il pentolino all’altezza della nanina, che pensava ad accendere il fuoco e a mettere la minestra in tavola per l’ora che la sorella e Ferruccio tornavano pieni di fame e di freddo.
— Tu hai tardato più del solito stasera e anche Ferruccio non è ancora tornato. Cominciavo a pensar male. Vedi il sor Galimberti?
— Cara madonna, non l’avevo visto, sor Galimberti: son così stanca — disse la Colomba, lasciandosi cadere sopra una sedia.
— Come va la nostra Colomba? — chiese colla solita tenera tranquillità e pazienza il delegato, che stava sorbendo una tazza di caffè. — La nostra Nunziadina ha voluto favorirmi una goccia del nèttare degli dèi, e io stavo dicendo che in Milano non ci siete che voi che sapete fare un caffè buono. Dopo che hanno inventato tante macchinette e filtri e diavolerie, non c’è più quell’aroma che si sentiva ai nostri tempi: non è vero Colomba?
— Noi andiamo all’antica: lo facciamo nel bricco, rimestandolo con un legnetto.
— Sarà effetto del legnetto allora — soggiunse il delegato con un riso grasso in fondo alla gola — ma un caffè come il vostro non lo si beve nemmeno al Cova. Quando sarò in punto di morte vi farò avvertire, perchè io credo che questo aiuti a salvar l’anima.
— Lei vien giovane e grasso tutti i giorni e parla di morire. Lei non ha fastidi — disse la Colomba, inginocchiandosi sulla pietra del camino per ravvivare il fuoco sotto la pentola.
— Giovine? da quanto tempo mi conoscete, Colomba! Vostro padre aveva ancora la Sostra di legna, carbone e carbonella in piazza della Rosa, quando io vi conobbi la prima volta. Allora io non era che un modesto sorvegliante urbano e so che la mia palandrana e il mio cappellone vi facevan tanto ridere; specialmente la Marietta rideva, quel diavolo pieno di spirito, di cui ero innamorato come un gatto e che avrei sposato, se non fosse stata la vergogna di quella benedetta palandrana tanto disprezzata.
— Chi sa? forse le cose sarebbero andate meglio.
— Non si sa mai la storia delle cose che non sono accadute; ma è certo che io ho sofferto quando ho inteso che ne sposava un altro. Amen, lasciamo stare i poveri nostri morti e datemi notizie della vostra salute.
Il sor Galimberti in memoria del tempo passato aveva conservato della benevolenza verso le due beate, che veniva di tempo in tempo a trovare, sicuro di bere un buon caffè con molto zucchero in fondo alla chicchera.
Era un buon omaccio al di là della cinquantina, morbido e pesante, con un tono di voce carezzevole, che la qualità del mestiere non aveva mai potuto inasprire. Dall’umile ufficio di sorvegliante urbano era passato per gradi al titolo di delegato di pubblica sicurezza, acquistandosi la stima dei superiori, che riconoscevano nel Galimberti una specialità nel rintracciare i fili del manutengolismo. In Verziere, alla Vetra e al Mercato del Foro Bonaparte, il sor Galimberti era conosciuto e riverito da tutte le più vecchie ortolane e pescivendole, alle quali compiacevasi ancora di offrire delle pastiglie di poligala, di cui aveva sempre indosso una scatoletta contro i rantoli del catarro bronchiale.
Mentre la minestra dava gli ultimi bollori borbottando, la Colomba, che aveva sempre il suo figliuolo sul cuore, condotta dalle malinconiche reminiscenze del delegato a ricordare la povera Marietta, pensò di chiedere al vecchio amico di casa quegli schiarimenti che non aveva potuto ottenere dal Berretta.
— Lei che vive nel mondo e ha molte reti in mano, conoscerà anche il signor Tognin Maccagno...
— Notus in Judea... — disse il delegato, aprendo la scatoletta bianca delle sue pastiglie.
— Che vuol dire?
— Che lo conosco da un pezzo.
— Che uomo è?
— Come uomo ha del talento, perchè, quando si arriva quasi dal nulla a possedere due o tre case in Milano, bisogna riconoscere che il talento c’è. Del resto è quel che si dice un uomo svelto, simpatico, che spenna le sue galline senza farle strillare. Io ho avuto qualche breve rapporto con lui e l’ho sempre trovato amabilissimo e niente affatto usuraio e tiranno. Sicuramente, se voi mi domandate se nella sua vita non ha mai prestato del denaro al cinquanta per cento, io non ve lo so dire. Se mi domandate se non ha fatto mai qualche torto alla sua legittima consorte, caro Iddio, come posso mettere la mano nel fuoco? Ho conosciuto anche la riverita signora Maccagno, una brutta donna sempre malcontenta, che il nostro Tognino sposò insieme a una casa del Borgo. Ma il bell’uomo aveva altri giri... e credo che le belle donnette non gli dispiacciano anche adesso che è vecchio, più vecchio di me forse una decina d’anni. E talis pater tale qualis filius, da quel che sento.
«Del resto, che cosa pretendete, cara la mia donna? che un uomo padron di casa, faccia il suo interesse senza sequestrare il paiolo di una povera famiglia e senza far piangere una vedova spettinata? Eh, eh, con queste idee quanti sono i galantuomini in Milano! Il mondo, care le mie donne, non sta a guardare tanto pel sottile; quando si tratta degli uomini fortunati, li prende come sono, li giudica in blocco, col loro attivo e col loro passivo. Voi vivete in un guscio e non potete giudicare che cosa è la vita. Voi quando avete ascoltato la vostra messa, pagato il fitto, mangiato una minestra e recitato un rosario, andate in letto a dormire; ma il mondo è un campo di battaglia. E allora vi dirò che pochi uomini in Milano hanno saputo e sanno vedere un buon affare, procedere spediti senza mettere il piede in fallo, girare le posizioni difficili, tirar l’acqua al loro molino, come sa fare il nostro riverito sor Tognino; pochi uomini sanno conoscere e far ballare gli uomini come sa farli ballare quest’ometto mezzo miope, col suo passetto strisciato, colla sua voce secca che non ammette repliche, co’ suoi ragionamenti tutti d’un pezzo, che v’imbrogliano il codice. E non c’è pericolo che rasenti la legge, ve’: la conosce più lui la legge che tutti gli avvocati. E con tutto questo non credo che sia egoista, tutt’altro. Questa gente sa essere avara e prodiga a seconda della passione che soffia. Se vi rovina un uomo, non ha gusto di lasciarlo morir di fame sopra una strada, ma procurerà che sia almeno ricoverato in un ospizio.
— Uomini come questi Dio li lascia giudicare al diavolo — proruppe la Colomba, rimestando con una certa furia nella pentola. — Non voglio che Ferruccio resti un giorno di più a questa scuola.
— Eh, voi esagerate: oggi il sor Tognino è arrivato in porto e può darsi anche il lusso di fare il galantuomo e il generoso. Gli uomini abili come lui, che hanno una gran pratica di mondo, sono i primi a credere all’esistenza e all’importanza dell’onestà: e sotto questo rispetto potrà fare del bene al vostro Ferruccio. So, per esempio, che fa dei sacrifici per suo figlio e che ha ricevuto molto bene in casa la nuora, a cui ha preparato un bell’appartamento... Quando si è vicini a toccare il mezzo milione, è una sciocchezza fare il birbante... — Il sor Galimberti tornò a ridere col suo riso grasso in cui correvano delle piccole note bronchiali.
— Noi abbiamo un’altro catechismo: non voglio più ch’egli rimanga un giorno, in quella casa.
— È qui, è qui — venne a dire la Nunziadina, e saltellando sulle grucce, andò incontro al ragazzo, che entrò col passo barcollante, tutto stravolto in viso: — Da dove vieni così scalmanato, benedetto figliuolo? si direbbe che tu abbia camminato in un fosso. Le zacchere ti vanno fin sopra la testa.
Ferruccio entrò con aria distratta, e senza salutare nessuno, buttò il cappello e il soprabito sopra una sedia.
— Questo è il figliuolo della povera Marietta — disse la Colomba, indicandolo col mestolo al Galimberti.
— Un bel ragazzo grande, che somiglia tutto alla sua povera mamma... — Osservò il delegato, che parve raccogliersi sopra una sua idea. Se avesse osato parlare, il buon uomo avrebbe voluto aggiungere: — E dire che potrebbe essere mio figlio! e che ciò non è avvenuto per una spanna di palandrana...
Ma non volle più oltre disturbare le due donne. Salutò e promise di tornar presto. Mentre la Nunziadina lo accompagnava all’uscio, la Colomba tirò in disparte il ragazzo e gli disse:
— Perchè così scalmanato? che c’è di brutto? dove sei stato?
— Ho dovuto correre fino alle Cascine.
— A far che?
— A chiamare in fretta la madre della signora Arabella.
— Che è capitato?
— Una cosa orribile, zia... Io tremo ancora... — e il ragazzo, scoppiando in un pianto dirotto, si lasciò cadere sulla sedia.