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piovve e nevicò sopra fin che piacque al padrone dell’acqua e della neve, fin che quei poveri muri pigliarono un aspetto di rovina prima ancora di nascere. Di contraccolpo ne soffrì la casa vecchia e il padrone, che tra la rabbia e il dolore, ammalò di mal di fegato con travaso d’itterizia.

Beatrice con tutti i figliuoli indosso (tre del primo letto, tre del secondo) si contentava della sua parte, dava qualche comando alle persone, non badando che fosse eseguito, girava per la casa, mal pettinata, mal vestita, trascinando le fascie e la cesta del suo poppante, sfogandosi con qualche vicina intorno ai suoi mali di stomaco, che le facevano sonare gli orecchi e le riempivano il capo di campanelli.

Era naturale che Arabella, tutte le volte che usciva dal suo collegio bianco e pulito, si trovasse male in quel vecchio e sgangherato cascinale, tra quei pilastri di vecchio mattone, che portano dei tetti sconnessi e anneriti dal tempo, nel lezzo acuto degli strami, che fanno monte in mezzo alla corte.

Alle Cascine c’era sempre una stanza riservata a lei, che durante la sua assenza serviva di deposito alle patate, ammonticchiate in un cantuccio. Dalla finestra l’occhio poteva scorrere sulla verde distesa dei prati fino all’antica abbazia di Chiaravalle, che usciva da un folto di pioppi e di salici cenericci con una severa e ardita dignità; ma anche in quella stanza dalle pareti ruvide e ruvidamente intonacate di calce, dai grossi travi del soffitto male spiallati, dai quadretti di vetro verdognolo sulle impannate, dal permanente odor di rinchiuso, essa stentava troppo a ritrovare la sua benevolenza, e l’energia di compatire, di operare, di concorrere cogli altri al bene della