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sione; ma non potè. Finalmente venne il dottore, che giudicò un caso gravissimo di angina difterica.
Bertino un grassottello, roseo, coi riccioli biondi era il cuculo di tutti alle Cascine, e papà e mamma gli volevan bene anche per quest’ambizione. Ora papà pareva la morte in piedi, e la mamma, dopo aver brancolato un pezzo per la stanza senza conchiudere nulla, finì col cadere svenuta in mezzo alle donne.
Il dottore non potè contare che sull’aiuto intelligente di Arabella, che tenne fermo il bimbo, mentre gli bruciavano in gola, soffocando nelle sue braccia i guizzi tremendi del povero angelo, resa forte del coraggio che la donna attinge alla pietà, fatta avveduta e intelligente da quella buona maestra, la natura, che mette nel cuore della donna ciò che la scienza non fa che confondere nei libri.
Finita la crudele operazione, la sorella sedette accanto al lettuccio, dette delle ordinazioni, mandò via la gente, comandò come se il bimbo fosse suo, notò i consigli del dottore e non si mosse più per ventiquattro ore da quel suo posto, finchè durò la tremenda agonia, finchè il piccino non ebbe dato l’ultimo respiro.
Era la prima volta ch’essa vedeva soffrire a quel modo un’innocente creatura ed era il primo morto a cui chiudeva gli occhi; e le parve, attraverso i patimenti, di veder al di là, nel vasto mistero delle cose.
Nella lunga veglia, nel faticoso sforzo dell’animo non sapeva a volte distinguere tra sè e la povera mamma, che andava e veniva come un fantasma. Era un patimento solo che stringeva due cuori; se non che la giovinezza e la baldanza delle forze facevano sentire alla figlia anche una superiorità morale, che