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scendere e precipitare così basso, era un mistero per tutti, che la crisi agraria e i tempi difficili non bastavano a spiegare. Certo la scomparsa della buona sorella Carolina, che per molti anni aveva tenuto nelle mani il governo dell’azienda, e l’entrare in casa d’un’altra donna, non così pratica e avveduta, era stato il principio d’una decadenza, che una volta avviata, non ebbe più ragione di fermarsi. A questa condizione generale si aggiunsero alcune disgrazie.
Il signor Paolino, nel primo entusiasmo della luna di miele, si lasciò prendere dalla febbre del fabbricare. La vecchia Cascina non gli pareva più sufficiente ai bisogni della cresciuta famiglia e alle idee della bella moglie. Si mise nelle mani d’un capomastro e cominciò a tirar su dei muri nuovi. Ma nel tracciare i nuovi edifizî non si osservarono con abbastanza scrupolo i confini d’un canale di scarico, dov’era anche una testa di fontana, che dava un qualche dito d’acqua ai fondi del vicino.
Queste quattro goccie d’acqua tirarono addosso al signor Botta una causa, coll’ordine perentorio di sospendere i lavori. La causa, come sempre, andò per le lunghe e costò un fiume di denari. Finalmente, dopo quasi tre anni di rinvii, di ricorsi, di comparse, di sopraluoghi, di perizie, il signor Botta fu condannato a pagare sotto forma d’indennizzo una somma di lire quindici mila, una volta tanto, al signor Tognino Maccagno, quale amministratore e rappresentante dei fondi di proprietà Ratta. A queste quindici mila lire bisogna aggiungere le spese di processo, gli avvocati, le carte bollate e i conti di fabbrica. La casa nuova rimase lì, nè ritta, nè seduta, coi muri greggi che invocavano un tetto, ma non c’eran più denari. Vi