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sua famiglia. E mentre da una parte contava i giorni di andarsene, non poteva sfuggire dall’altra parte a un senso quasi di rimorso di non saper restituire nulla a sua madre e al suo benefattore, in pagamento del bene che le avevano fatto, col darle una buona educazione e col metterla in grado di apprezzare i beni superiori della coscienza e della religione. Se non ci fosse stato un uomo tanto generoso da prendersi tutta una famiglia sulle spalle, che cosa avrebbe potuto essere una povera vedova con tre figliuoli piccini? Quale aiuto avrebbe dato il mondo alla figlia di un uomo che si era ucciso per isfuggire all’infamia di un processo? Queste idee, cozzando colle altre che venivano da Cremenno, facevano spesso un tal tumulto nel suo piccolo cuore, che spesso non poteva dormire la notte.



Una giovinetta di diciott’anni, educata a tutte le delicatezze spirituali di un collegio di monache, che chiamano peccato ogni filo di polvere dimenticato sui mobili, non poteva adattarsi senza ripugnanza all’unto e al bisunto di cose e di abitudini grossolane, alla materialità di una vita così rasente terra, agli schiamazzi, al vociare continuo, al fumo che i camini rimandano negli occhi, all’untume delle minestre di lardo, al puzzo delle stalle, al linguaggio nudo e mal vestito dei villani, che parlano secondo natura vuole, andando alle cose per le parole più corte.

«Il mio collegietto di Cremenno mi è sempre nel cuore — scriveva a suor M. Benedetta — e in questo basso mondo stento ad abituarmi.