Annali (Tacito)/VI
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LIBRO SESTO
SOMMARIO
- Anno di Roma dcclxxxv. Di Cristo 32.
C. Gn. Domiz. Enobardo e M. Furio Camil. Scribon.
- An. di Roma dcclxxxvi. Di Cristo 33.
Consoli. Ser. Sulpizio Galba, e L. Cornelio Sulla.
- An. di Roma dcclxxxvii. Di Cristo 34.
Consoli. Paulo Fabio Persico e L. Vitellio.
- An. di Roma dcclxxxviii. Di Cristo 35.
Consoli. C. Cestio Gallo e M. Servilio Noniano.
- An. di Roma dcclxxxix. Di Cristo 36.
Consoli. Sesto Papinio Allenio e Q. Plauzio.
- An. di Roma dccxc. Di Cristo 37.
Consoli. Gn. Accrronio Procolo e C. Ponzio Negrino.
I. Entrati1 consoli Gneo Domizio e Cammillo Scriboniano; Cesare uscito per lo mare, che è tra Capri e Sorrente, costeggiava la campagna, con mezza voglia, o finta, di entrare in Roma; e spesse volte smontò vicino, per que’ giardini sul Tevere, e tornossi ai suoi scogli e solitario mare per vergogna di sue scelleratezze e libidini; ove sì s’imbestiò, che al modo de’ re barbari contaminava nobili donzelli. Nè pure i corpi vaghi e lascivi, ma in questi una fanciullesca modestia, in quegli lo splendore della famiglia, gli erano Incitamenti. E trovaronsi allora non più uditi siniscalchi delle nefande camere, e architetti di quanto in esse si puote. Schiavi andavano alla cerca, e conducienti, donando a’ pieghevoli, minacciando gli abbominanti; e se padri o parenti resistevano, rapimento, forza e sfogamento in quelli come fatti schiavi, s’usava.
II. In Roma nel principio di quest’anno, come non si fosser prima le malvagità di Livia sapute e punite, si diceano atroci parole, contro eziandio ai ritratti e memorie di lei ***: e che i beni di Seiano si scamerassero e mettessero nel fisco, quasi con la medesima ressa, come se ella importasse; e forse che questi non erano Scipioni, Silani e Cassj; tra’ quali gran nomi ingeritosi, non senza riso, Togonio Gallo di bassa mano, pregava il principe a sceire un numero di senatori, de’ quali venti per volta, tratti per sorte, con l’armi a canto, gli facesser la guardia quando egli entrava in senato; avendo creduto aver daddovero Tiberio per una lettera chiesto, che uno de’ consoli lo conducesse salvo da Capri a Roma.
Egli, tra le cose gravi talora usato burlare, ringraziò i Padri dell’amorevolezza: „Ma chi si arebbe a lasciare? chi a scerre? sempre i medesimi o scambiarli? stati di magistrato o novizj? risedenti o privati? chi parrann’eglino a cignersi in su la porta del senato le coltella? non volere anzi vita, se l’aveva a difender con l’armi„. Con tali parole corresse2 Togonio; e intanto il suo parere non dissuase.
III. Conficcò bene Giunio Gallione, che volea i soldati pretoriani, finito il lor soldo, poter sedere ne’ quattordici gradi, domandandogli quasi presente: „Che hai a far tu di soldati? allo imperadore sta il comandarli e il premiarli. Hai trovato forse quel che non seppe il divino Augusto? o pur sei lancia di Seiano, che vorresti accender fuoco e tirar gli animi rozzi con questo zimbello d’onore a guastar gli ordini della milizia?„ Quello che Gallione guadagnò della sua studiata adulazione, fu l’esser cacciato allora di senato, e appresso d’Italia; e dicendosi che egli avrebbe troppi agi in Lesbo, isola nobile e amena, elettasi; fu rimenato in Roma e messo in prigionia di magistrati3. Nella medesima lettera, Cesare percosse con grande allegrezza de’ Padri, Sestio Paconiano, stato pretore, dicendolo audace, nocivo, spiatore de’ segreti d’ognuno, e ministro di Seiano al tradire di C. Cesare. Quando ciò si seppe, sgorgareno i primi odj, e dannavasi al sommo supplizio, ma egli disse che aveva in seno una accusa.
IV. E cintala a Latinio Laziale, fu grato vedere spia e reo, due odiatissimi. Laziare, come dissi, fu capo al condurre alla mazza Tizio Sabino, ora primo al gastigo. Allora Aterio Agrippa la prese co’ passati consoli: „Se essi s’accusaron l’un l’altro, perchè tacere ora? Il verme della conscienza e la paura gli ha riuniti; ma non deono i Padri le udite cose passare con silenzio. Rispose Regolo: „Indugio non leva gastigo; farebbe il bisogno presento il principe.„ Trione disse: che di gare e male parole tra’ colleghi meglio era non tener conto. Riscaldandosi Agrippa, Sanquinio Massimo consolare disse: „Di grazia. Padri, non aggiunghiamo fastidi al principe, stuzzicando piaghe maligne; saprà egli ben medicarle„. Ciò diede al morire scampo a Regolo, e tempo a Trione. Aterio fu odioso, per sonno e lussuria marcio; del principe, quantunque crudele, come neghittoso non temeva; e sempre a rovine di grandi in taverne e ma luoghi pensava.
V. Di poi Cotta Messalino (quei dalle crude sentenze, e perciò malvoluto ab antico) fu accusato, il prima che si potè, di più cose: aver chiamato C. Cesare maschio-femmina4, e cena d’esequie annovale, quella ch’ei fece per lo natale d’Augusto co’ sacerdoti, dolendosi della potenza di M. Lepido e di L. Arunzio, co’ quali piativa moneta; aver detto: „Loro favorirà il senato e me il mio Tiberiolino.„ Di tutto sollecitavan convincerlo i primi della città, se e’ non s’appellava a Cesare. Eccoli ima lettera, a modo di difesa, che, narrato prima il principio della sua amicizia con Cotta, e li molti servigi da lui ricevuti chiedeva non facessero criminali le parole, massimamente dette nell’allegrie delle mense.
VI. Notevole fu di quella lettera, questo principio: „Che mi vi scrivere, o come, o che non vi scrivere in questo tempo, facciali gl’Iddii e le Iddie di me più strazio, che io tutto di non mi sento entro fare, se il so.„ Tanto gli erano crude giustiziere le stesse sue scelleritadi. Però soleva ben dire quel sovrano in sapienza5: „Se gli animi de’ tiranni avessero sportello; noi vedremmo là entro i cani, i flagelli, cioè le loro crudeltà, libidini e pessime pensate, fare strazj di quegli animi, come de' corpi gli spaventevoli strumenti.„ Però, nè gran fortuna, nè vita amena potevan sì fare che Tiberio stesso non confessasse i suoi martori e supplizi interni.
VII. Avendo dato a’ Padri licenza di giudicare Ceciliano senatore, che dato avea quelle accuse a Cotta, lo dannarono nel medesimo, che Aruseio e Sanquinio, che accusaron L. Arunzio. Nè mai ebbe Cotta (nobile sì, ma povero per biscazzare, infame per male operare) onore come questo d’esser vendicato a pari d’Armizio di virtù santissime. Vennesi alle accuse di Q. Serveo, e di Minuzio Termo. Serveo fu pretore, e seguitò Germanico: Minuzio cavaliere, onesto amico di Seiano; perciò venne di loro maggior pietà. Per lo contrario, Tiberio dicendoli, stumie de’ ribaldi, comandò a Gn. Cestio senatore, che quanto a lui ne aveva scritto, dicesse al senato: e Cestio prese l'accusa. Peste misera di que’ tempi, che i primi del senato d’ogni cosuzza e parolazza, detta ora o mill’anni fa, palese e segiula, in piazza e a mensa, di strani e di congiunti, amici e non più veduti, m che che materia: e beato il primo: chi per difender sè, i più, quasi per male appiccaticcio, fossero rapportatori. Minuzio e Serveo essendo dannati, arricchiron le loro spie. Giulio Affricano di Santogna in Gallia e Seio Quadrato furono alsì dannati. La causa non rinvengo. Ben so, molti scrittori, molte pene e morti aver lasciato, per istracchi dalla quantità, o per non dare a’ lettori la sentita malinconia delle troppe o noiose. A me son capitate molte cose memorevoli, da altri passate.
VIII. Una è: che in quel tempo che niuno voleva avere avuto con Seiano amicizia, M. Terenzio, cavalier romano, accusatone, ebbe cuore6 di difenderla in senato con queste parole: „Farebbe forse più per me misero negare questo peccato, che confessarlo; ma fia che vuole, dico, che fui amico di Seiano: n’ebbi desiderio: e, ottenutolo, allegrezza; perchè io lo vedeva compagno del Padre al governo delle coorti pretoriane; poscia della città e della milizia: gli amici o parenti di lui, pieni d’onori; quanto uno era accòsto a Seiano, tanto potere in Cesare: chi con lui male stava, sempre stare in paura o vergogna. Niuno nomino; ma difendo me, e gli altri, che non fummo della congiura. Noi adoravamo, non Seiano da Bolsena, ma un membro, per lo parentado fatto, di casa Claudia e Giulia: un tuo genero o Cesare; un tuo compagno nel consolato; uno che faceva nella repubblica gli uffìcj tuoi. Non abbiamo a guatar noi chi tu esalti sopra gli altri, nè perchè gl’Iddii hanno a te dato l’universale disponimento; a noi rimane la gloria dell’ubbidirti; guardiamo quanto ci è davanti, cioè chi da te abbia ricchezze, onori e podestà di giovare e di nuocere; le quali cose niuno negherà essere state in Seiano: spillare i concetti7 o disegni segreti del principe, nè lecito è, nè sicuro: nè può riuscire. Considerate, Padri Coscritti, chi fu Seiano, non l’ultimo dì, ma sedici anni: che insino a Satrio, a Pomponio, c’inchinavamo, chè l'esser conosciuti dai suoi liberti e portinai, ci parerà un bel che. Che voglio adunque? difender ogn’uno? no; ma che si faccia giusto divario. Chi ha voluto con lui tradire la repubblica, ammazzare lo imperadore, puniscasi; chi gli è stato mero amico, e servigio gli ha fatto, sia. come te, o Cesare, senza pena.„
IX. Questo generoso parlare, e l’ essersi trovato uno che sborrò il rattenuto da tutti, operar sì, che i loro accusatori, tra per questo peccato, e per altri, furon dannati ad esiglio, o morte. Venne poi altra lettera di Tiberio, contro a Sesto Vestilio, stato pretore, caro a Druso fratello, però tirato in corte. Dispiacque l’aver poetato (o si credette) delle disonestà di C. Cesare; onde cacciato di casa, con la vecchia mano si punse le vene: poscia legatelesi, supplicò, e per lo riscritto crudo, le sciolse. Seguita una frotta d’accusati di maestà; Annio Pollione, Viniciano suo figliuolo, Appio Silano, Scauro Mamerco, Sabino Calvisio, tutti di sangue chiari, e alcuni di sommi onori. A’ Padri ne venne triemito; e chi non era di tanti illustri parente o amico? Pure Celso tribuno d’una coorte di Roma, uno delli accusanti, liberò Appio e Calvisio. Gli altri tre, disse Cesare, che insieme col senato giudicherebbe altra volta; e male fiancate diede a Scauro.
X. Non eran fuori di pericolo anco le donne, che, non potendosi d’occupata repubblica, di lagrime s’accusavano; e fu fatto morire Vizia vecchierella, per aver pianto Fufio Gemino figliuol suo. Fatte furon queste cose dal senato; e il principe fece morire due, i più antichi di sua famiglia, statigli a Rodi e in Capri sempre al fianco, Vesculario Fiacco, messaggero nel tradimento di Libone, e Giulio Marino, compagno di Seiano all’acciacco di Curzio Attico. Tanto più ne giovò di vederli presi alle reti8 loro. L. Pisone pontefice (miracolo allora in sì chiaro uomo) morì di sua morte. Non propose mai cosa servile di sua volontà; quando era forzato, le moderava con sapienza; ebbe, come ho detto, padre censore: visse anni ottanta; meritò in Tracia le trionfali; ma la sua maggior gloria fu la continovata podestà di Roma, non solita, però più grave a ubbidirsi, da lui temperata a maraviglia.
XI. Avvenga che prima i re, poscia i magistrati, quando andavano fuori, per non lasciare senza capo la città, eleggessero per a tempo, chi rendesse ragione, e rimediasse ai subiti casi. Dicono che Romulo vi lasciò Dentro Romulio, Tullio Ostilio, Numa Marcio, Tarquinio Superbo, Spurio Lucrezio. Poscia anche i consoli sostituivano il che oggi si raffigura, quando per le feste latine si mette uno che faccia l’ufficio del consolo. Augusto nelle guerre civili occupato, fece Cilnio Mecenate, dell’ordine de’ cavalieri, suo luogotenente in Roma e Italia. Quando fu poi padrone d’ogni cosa, per lo gran popolo, e per li tardi giudizj legali, diè podestà ad uomini, stati consoli, di tenere in freno i servi, e que’ cittadini che intorbidano se non veggono alzata la mazza. Messala Corvino fu il piamo che l’ebbe: e in pochi giorni la lasciò, quasi non atto. Statilio Tauro, benché molto vecchio, si portò egregiamente. Seguitò Pisone per anni venti, con pari loda, e per decreto de’ Padri ebbe l’esequie pubbliche.
XII. Quintiliano, tribuno della plebe, propose a’ Padri la dimanda di Caninio Gallo, uno de’ quindici, di ricevere un libro della Sibilla, e se ne vinse il partito. Cesare scrisse, che il tribuno, come giovane, sapeva poco d’antichitade: e garrì Gallo che, consumato in iscienza e divinità, simil cosa trattasse in senato: scarso di numero, senza certo autore, sentenza del collegio, lettura e censura dei maestri, usate a simili versi; e avvertì che Augusto, veduto molte sciocchezze leggersi sotto grandi nomi9; ordinò che tra tanti giorni si portassero al pretore, e vietò tenerle i privati. Come fecero gli antichi allora che per l’arsione del Campidoglio, nella Guerra Sociale da Samo, Ilio, Eritri, Affrica, Sicilia e colonie d’Italia, trassero i versi della Sibilla o Sibille; e commisero a’ sacerdoti che con ogni umano potere cernessero i veri. Così anche allora questo libro fu a’ quindici dato a cernere.
XIII. Nel detto anno, per lo gran caro fu per levarsi il popolo; e molte cose molti giorni domandò nel teatro, con licenza non usata a imperadori; di che alterato, riprese i magistrati e i Padri per non l’avere raffrenato con l’autorità pubblica: e ricordò quanto grano, e onde, conduceva egli più che Augusto. Per lo che il senato distese un severo bando per gastigare all’antica il popolo. I consoli spacciatamente il puliblicarono. Il non vi por bocca egli, credette doversi attribuire a civiltà, e fu a superbia.
XIV. Nel fine dell’anno Geminio Gelso e Pompeo, cavalieri romani, furono uccisi per la congiura di Seiano. Geminio gli fu amico perchè spondea e vivea morbidamente, non per cosa di conto. Giulio Celso, tribuno, allentò in carcere la catena, o incappiatalasi al collo si strangolò. Rubrio Fabato, facendo Roma spacciata, se ne fuggiva alla misericordia dei Parti. Veramente costui10, preso nello Stretto di Sicilia, e rimenato da un centurione, non dava cagioni capaci del suo dileguarsi. Pure dimenticato, anzi che graziato, scampò.
XV. Nel consolato di Sergio Galba e L. Silla, Cesare, essendo da marito le figliuole di Germanico, nipoti sue, dopo lungo pensare, congiunse Giulia11 a M. Vinicio natio della terra di Galles in Campagna; il padre e l’avolo furon consoli, la famiglia cavaliera: di dolci costumi, dicitore ornato; e Drusilla a L. Cassio, di casa popolare romana, ma orrevole e antica; dal padre tenuto sotto; uomo di più pianezza che industria. Scrisse al senato, lodando i giovani alquanto; poscia, renduto di sua assenza ragioni stravaganti, entrò in cose più gravi; Che s’era per la repubblica fatto nimici; però chiedeva che Macrone prefetto, con qualche tribuno e Centurione; entrassero sempre seco in senato. Fecesi partito largo di quanti e quali volesse. Ma egli, non che in senato, non entrò mai pure sotto un tetto della città, se bene spesso per tragetti intorno le aliava, e se n’andava.
XVI. Furia d’accusatori uscì addosso agli usurari, che arricchivan più che sopra il prestare e possedere in Italia non dispone la legge di Cesare dettatore già dismessa; perchè l’interesse privato dà dei calci al ben pubblico. L’usura è mal vecchio della città, e di sollevamenti e discordie ch’è, ch’è12, cagione; però ancora ne’ tempi antichi e costumi men guasti si correggeva. Conciossiachè le Dodici Tavole primieramente la tassarono il più a uno il mese per centinaio, che prima facessi a modo de’ricchi; poi fu per legge de’ tribuni ridotta a un mezzo; poi ogni usura vietata, e per molti ordini della plebe, provveduto alle sottilissime malizie, onde rimettea sempre, quasi pianta succisa. Avendo adunque Gracco pretore tali accuse innanzi, increscendoli di tante rovine, le rimise al senato. I Padri spaventati, perchè, chi n’era netto? ne chiedero al principe grazia generale, e l’ottennero, con tempo diciotto mesi a rassettarsi lo stato, ciascuno secondo la legge.
XVII. Quindi nacque strettezza violenta di moneta; perchè i debitori tutti a un tratto erano stretti: il fìsco e la camera, per tanti dannati e lor beni venduti, avevano inghiottito tutti i contanti; perciò il senato fece che gli usurai se ne pigliassero li due terzi in terreni in Italia; ma essi richiedeano per lo intero: nè era onore a’ richiesti fallir di fede. Così si serpentava, tranquillava, alla ragion si gridava: e le vendite e compre, trovate per rimedio, la strettezza accresceano, perchè i compratori col nascondere il danaro, e i tanti venditori coll’offerire gli stabili, gli smaccavano; e i più indebitati con più fatica vendeano; fallivane molti, e n’andava con la roba la dignità e la fama; onde Cesare vi porse aiuto, contando due milioni e mezzo d’oro a’ banchi, che li prestassero senza prò per tre anni a chi obbligasse al popolo stabili per lo doppio. Così la fede tornò: e a poco a poco ancora i privati prestavano; e la legge del pigliarsene stabili, non s’osservò; trattandosi tali cose con rigore nel principio, poi si tralasciano.
XVIII. Ritornarono le prime paure per l’accusa di maestà data a Considio Procolo; il quale festeggiando tutto sicuro per lo natal suo, rapito, portato in senato, dannato e morto, tutto fu uno: e a Sancia sua sorella levossi acqua e fuoco. L’accusatore fu Q. Pomponio; cervello inquieto, che diceva, aver questo e altro fatto per entrare in grazia del principe, e liberar Pomponio Secondo fratello suo. Ancora fu scacciata in esilio Pompeia Macrina, il cui marito Argolico, e Lacone suocero de’ primi delli Achei, Cesare aveva afflitti; e il padre, romano cavaliere illustre, e il fratello stato pretore, in sull’esser condannati, s’uccisero. Il peccato loro era, che Teofane di Metellino, loro bisavolo, fu intimo di Pompeo Magno, e dopo morte da quella greca adulazione adorato per celeste.
XIX. Dietro a costui, Sesto Mario, il più ricco di tutte le Spagne; fu d’aver giaciuto con sua figliuola rapportato, e gittato giù dal Sasso Tarpeo: e acciò non fosse dubbio, che lo gran danaio suo fu lo peccato suo13, Tiberio volle per sè proprio le cave dell’oro, benché incamerate. Insanguinato ne’ supplizj, fece ammazzar tutti gl’incarcerati per conto di Seiano. Giaceva infinito macello14 d’ogni età e sesso, e chiari e vili, sparsi e ammontati. Gli amici e parenti, venuti a piagnerli, a guatarli, non v’eran lasciati badare da’berrovieri, postivi a notare i più addolorati, e le corpora fetide accompagnare al Tevere; dove ondeggianti, o approdanti, niuno arderle nè toccarle osava: all’umanità forza e paura, alla pietà crudeltà contrastava.
XX. In questo tempo C. Cesare, che a Capri andò con l’avolo in compagnia, sposò Claudia di M. Silano: e dell’essere sentenziata la madre, confinati i fratelli, non fiatò; il suo bestiale animo convertendo di maliziosa modestia, con la quale sempre che Tiberio mutava vestito, egli simile abito, e poco svariate parole, usava. Onde s’appiccò il bel detto di Passieno oratore: „Non fu mai miglior servo, nè peggior signore.„ Non lascerò quello che Tiberio indovinò a Sergio Galba, allora consolo, il quale fatto venire a sè, con vari ragionamenti tastò; e disse in greco: „Anche tu, Galba, un dì assaggerai l'imperio:„ tardi, e corto significandogliene, per arte caldea, appresa nell’ozio di Rodi dal maestro Trasullo, la cui eccellenza così cimentò.
XXI. Quando egli voleva sapere un secreto, in cima d’una casa posta sopra uno scoglio, un suo liberto fidato, balioso, che legger non sapea, facea per quelle rocce la via innanzi, e conduceva su l’indovino; se ei pareva ignorante o ciurmante, gli era data la pinta in mare perchè non ridicesse il domandato. Condotto adunque Trasullo su per quei greppi, e domandato; predisse appunto lo imperio, e ciò che doveva avvenire a Tiberio, il quale commosso, gli domandò se egli aveva studiato la nascita sua, e qual fortuna corresse quell’anno e quel dì. Egli, calculato tempi e aspetti de’ pianeti, prima si rimescolò; poi atterrì: e quanto più squadrava, più gli s’arricciavano i capelli; finalmente gridò, che in gran punto, e forse ultimo era. Allora Tiberio l’abbracciò, e rallegrossi, ch’ei s’era apposto del pericol suo; ma non dubitasse; e sempre quanto disse ebbe per oracolo, e lui per intrinseco amico.
XXII. Io veramente per questo e altri casi somiglianti, giudicar non saprei se le cose de’ mortali vengono per destino e ferma necessità, o pure accaso. I savi maggiori antichi, e loro Sette discordano, tenendo molti, gl’Iddii non tener conto di nostro nascere o morire, nè, in breve, di noi uomini, però i buoni aver male, e i rei bene le più fiate. Altri dicono in contrario; che le cose il lor fato portano non da’ pianeti15, ma da principj e cagioni naturali, che intrecciate tirano l’una l’altra; ma ci lasciano arbitrio d'eleggerci qual vita vogliamo; e a quella eletta, le cose per natura tirate avvengono; nè sono beni e mali quelli che al volgo paiono; anzi molti dalle avversità combattuti, tollerandole con fortezza, son beati: e per le gran ricchezze i più, male usandone, miserissimi. Le destinate cose per lo punto del nascere, avvengono ai più de’ mortali; ma perchè alcuni le pronosticano al contrario per inganno o ignoranza dell’arte, ella non è creduta. E pur di chiare sperienze ne ha veduto l’antica età e la nostra, avendo il figliuolo del detto Trasullo predetto a Nerone l’imperio, come si dirà a suo tempo per non allontanarci più dal proposto.
XXIII. Nel detto consolato si pubblicò la morte d’Asinio Gallo per digiuno: se volontario o no, incerto è. Cesare domandato, se si dovea seppellire, ebbe faccia di dire: „Come no?„ e dolersi del caso che ’l ci avesse tolto prima che udir sue ragioni; come fosse in tre anni mancato tempo di giudicare quel vecchio consolare e padre di tanti consolari. A Druso fu levato il cibo: e nove dì visse16 rodendo la miseranda lana de’ materassi. Vuole alcuno che Macrone avesse ordine che pigliando le armi Seiano traesse Druso di palagio, dove era sostenuto, e lo desse per capo al popolo. Ma perchè si diceva, che la nuora e’l nipote tornavano in grazia, Tiberio non che pentere, ne incrudelì.
XXIV. E rimproverò al morto il laido corpo, e l’animo pestifero a’ suoi, e nimico alla repubblica: è fece leggere ciocch’egli aveva detto e fatto dì per di: atrocità non udita, avergli tenuto tanti anni raccoglitori de’ mai visi, sospiri, borbotti; e che un avolo gli potesse udire, leggere, pubblicare, chi’l crederà? Ma ci sono le lettere di Azio centurione, e Didimo liberto, che ragguagliavano puntualmente: „il tale schiavo all’uscir di camera lo battè; il tale lo spaventò„: Ed io (si vanta Azio17) le tali parole terribili gli accoccai: ed egli, morendo, sputò le cotali,„ e conta: Come, prima fece il pazzo e mandava a Tiberio cotali bestemmie sciocche; poi, disperato della vita, sensate; che avendo egli ucciso la nuora, il figliuolo del fratello, i nipoti, e pieno di morti tutta la casa, ne patisse le pene dovute al nome e nobiltà dei suoi passati e avvenire. I Padri davan pure in su la voce a chi leggeva, quasi abbominassero; ma tremavano e stupivano che osasse sì sagace uomo, e copiatore di sue magagne, lasciare ivi leggere, e quasi rotto il muro, vedere il suo nipote bastonare dal centurione, percotere dalli schiavi, in vano chieder del pane.
XXV. Le lagrime non eran rasciutte, quando s’intese, Agrippina (che dovette, morto Seiano, voler viver per qualche speranza) veduto che la crudeltà seguitava, essersi levata il cibo; se già non le fu tolto, perchè tal morte paressi volontaria. Tiberio scagliò di lei cose bruttissime: e che morto Asinio Gallo, suo adultero, le fu noia il vivere. Ma Agrippina ne volle troppo, si strusse di regnare; e per le cure virili lasciò i vizj delle femmine. Soggiunse Cesare, che ella era morta in tal dì che fu gastigato Seiano due anni innanzi; se ne facesse memoria; e che per la bontà di lui18 non morì di capestro, nè gittossi alle Gemonie. Funne ringraziato e ordinato che il dì diciassette d’ottobre, che ambo morirono, ogn’anno s’offerisse un dono a Giove.
XXVI. Poco di poi Cocceo Nerva, che sempre col principe era, dotto in ogni divina e umana ragione, sano e florido, deliberò morire. Tiberio gli stava intorno, pregava; domanda: „Come è ciò? che rimorso avrei, che fama, se il mio più caro amico, senza veruna cagione, fuggisse il vivere?„ Nerva gli voltò le spalle, e più non mangiò. Chi sapeva la sua mente, diceva: che, vedendo egli la Repubblica a mal partito, volle per ira e paura morire candido e non manomesso. La rovina d’Agrippina (chi ’l crederà?) rovinò Plancina. Fu moglie di Gn. Pisone: fece della morte di Germanica pubblica allegrezza: quando Pison cadde, i preghi d’Augusta, e non meno l’esser nemica d’Agrippina, la ressero; quell’odio e quel favore mancati, la giustizia ebbe luogo: e accusata de’ peccati già chiari, ne pagò di sua mano la pena, più tarda che indegna.
XXVII. A tanti duoli e pianti della città s’aggiunse, che Giulia di Druso, stata moglie di Nerone, si rimaritò a Rubellio Blando, il cui avolo fu da Tivoli, cavalier romano: e se ne ricordano molti. Al fine dell’anno morì Elio Lamia. Ebbe esequie da censore, titolo di governatore di Soria, e poi di Roma, d’orrevole famiglia; prospetto vecchio, e per quel governo vietatoli, più riputato. Morto poi Flacco Pomponio, vicepretore di Soria, si lesse una lettera di Cesare, che si doleva che i più valenti, e atti a governare eserciti, ricusavano le province, e gli bisognava pregarne li consolari; non sì ricordando che Aruuzio, già dieci anni, non s’era lasciato ire in Ispagna. Ancora morì quell’anno M. Lepido, della cui moderanza e saviezza, ne’ libri passati assai è detto: della nobiltà, basta dire di casa Emilia; cava ricca di cittadini ottimi; ve n’ebbe di corrotti, ma grandi.
XXVIII. Essendo consoli Paulo Fabio, e L. Vitellio, voltati molti secoli, venne la fenice in Egitto: materia a i dotti della contrada e della Grecia, di molto discorrere di tal miracolo. E degno fia, ove convengono, ove discordano raccontare. Tutti scrivono esser quest’uccello sagrato al sole: nel becco e penne seviziate, diverso dagli altri. Degli anni, la più. comune è, che ella venga ogni cinquecento: alcuni affermano, mille quattrocento sessantuno: e che un’altra al tempo di Sesostride, altra di Amaside, la terza, di Tolomeo terzo re di Macedonia, volarono nella città d’Eliopoli, con gran seguito d’altri, uccelli, corsi alla forma nuova. E’ molto scura l’antichità, da Tolomeo a Tiberio fu meno di dugencinquant’anni; onde alcuni tennero questa fenice non vera, nè venuta d’Arabia; e niente, aver fatto dell’antica memoria, cioè, che forniti gli anni, vicina al morire fa in suo paese suo nidio: gettavi il seme; del nato e allevato feniciotto la prima cura è di seppellire il padre; accaso noi fa, ma provasi con un peso di mirra a far lungo volo; se gli riesce, si leva il padre in collo, e in su l’altare del sole lo porta e arde; cose incerte, e contigiate di favole19. Ma non si dubita che qualche volta non si vegga questo uccello in Egitto.
XXIX. In Roma continuando le morti, Pomponio Labeone, che, come dissi, resse la Mesia, si segò le veni; e Passea sua moglie altresì. Sì pronto era l'ammazzarsi20 per fuggire manigoldo: e perchè i dannati eran gittati a’ fossi, e pubblicati lor beni; ma dei morti, prima che giudicali, valevano i testamenti, e seppellivansi i corpi, pregio della morte affrettata. Cesare scrisse al senato: Aver proibito a Labeone il capitargli a casa, e solo inteso disdirgli l’amicizia all’usanza antica; ma egli frugato dalla coscienza dell’assassinata provincia, e altre colpe aveva voluto ricoprire col concitargli quest’odio: e spaventato a sproposito la moglie, che quantunque colpevole non portava pericolo. Fu accusato di nuovo Mamerco Scauro, nobile, grande avvocato ma vizioso: rovinollo non l’amicizia di Seiano, ma l’odio non meno pestifero di Macrone, che usava le medesime arti, ma più coperto: e mostrò il soggetto d’una tragedia di Scauro, i cui versi s’adattavano a Tiberio. Ma Servilio e Cornelio l’accusarono d’adulterio con Livia, e negromanzia. Scauro, da vero Emilio, non aspettò la sentenza: e Sessizia sua moglie, gli fu al morire consigliera e compagna.
XXX. Punivansi ancora talvolta le spie21. Servilio e Cornelio, infami per questa rovina di Scauro, avendo, per moneta presa da Vario Ligure, abbandonato l’accusa, ne furono confinati in isole, privati d’acqua e fuoco; e dannato e cacciato di Roma Abudio Rusone, stato edile, per aver messo in pericolo Lentulo Getulico, di cui era stato luogotenente d’una legione, rapportando, che egli sì aveva destinato genero un figliuolo di Seiano. Getulico allora governava l’esercito della Germania di sopra, dal quale era per somma clemenza e discreta severità adorato; e all’altro vicino esercito, retto da L. Àpronio suo suocero, non poco grato. Onde ardì scrivere a Tiberio (così fu ferma fama): „Che non aveva cercato il parentado con Seiano di proprio consiglio, ma di Tiberio: l’uno come l’altro s’era ingannato; nè doveva Tiberio del comune errore andar franco, e gli altri in perdizione. La sua fede era intera; e manterrebbela se non gli fossero tese insidie; mandargli lo scambio, vorrebbe dire il comandamento dell’anima; però capitolassero, come per lega, ch’egli si stesse nel suo governo22; d’ogni altra cosa Tiberio fosse signore.„ Questo fu grande ardimento, ma l’avverò l’esser costui solo, tra tutti i parenti di Seiano, rimasto salvo, e in molta grazia perchè Tiberio si conosceva da tutti odiato, decrepito, e più con la riputazione che con le forze attenersi.
XXXI. L’anno che furon consoli C. Cestio e M. Servilio, vennero a Roma nobili Parti, senza saputa del re Àrtabano. Costui, di fedel che era a noi, e giusto co’ suoi, per timore di Germanico, divenne, morto lui, superbo e tiranno; fidandosi nelle vittorie ottenute contro a’ vicini, spregiando la vecchiezza di Tiberio, come non più atto all’arme: e standogli l’Armenia in sul cuore; della quale, morto Artassia, investì Arsace suo primo figliuolo; schernendoci di più e mandandoci a chiedere il tesoro che Vonone lasciò in Soria e Cilicia: che si rimettessero i confini vecchi tra i Persi e’ Macedoni; burbanzando che rivoleva quantunque ebbe Ciro, e poi Alessandro. Mossero i Parti a mandare a Roma di segrèto, principalmente Sinnace, di gran famiglia e ricchezza; poi Abdo castrato, che in Partia non è dispregio, anzi mezzo alla potenza. Questi due con altri grandi, non v’essendo chi far re del’ sangue Arsacido, perchè Artabano gli aveva ammazzati o eran piccoli, chiedevano da Roma Fraate, figliuolo del re Fraate; bastare il nome solo del sangue arsacido appresentato da Cesare in ripa all’Eufrate.
XXXII. Tiberio, che desiderio ne aveva, onora e mette in ordine Fraate al regno paterno; seguendo suo umore di condurre le cose di fuori con sagacità e consiglio, senz’armi. Artabano saputo il trattato, or si stava per paura, or s’infocava a vendetta; la lentezza appo i Barbari è viltà; il dar entro, atto reale; nondimeno s’attenne al vantaggioso; e convitato Abdo, sotto spezie di favore, gli diede veleno lento. Sinnace con infìnte, doni e negozj, trattenne. Fraate in Sorìa, lasciata la vita dilicata romana, ove era avvezzo per tanti anni, e non potendo reggere quella dei Parti, si morì; ma Tiberio non lasciò l’impresa; elesse, a ingelosire Artabano, Tiridate del medesimo sangue; e a racquistare l’Armenia Mitridate Ibero, accordandolo col fratello Farasmane, che possedeva il loro paese, e tutto il maneggio d’Oriente diede a L. Vitellio. Di costui trovo fama rea per Roma, e memorie sozze, ma resse quelle contrade con antica virtù; tornossene: e la paura di C. Cesare, e la pratica di Claudio lo cangiarono in brutto esempio di servile adulazione23; cederono le qualità prime all’ultime, e scancellò le virtù giovenili con viziosa vecchiezza.
XXXIII. Mitridate persuase Farasmane ad aiutare, con forze o inganni, la sua impresa: e corrotti con molto oro i ministri d’Arsace, l’avvelenarono; e grande oste d’Iberi l’Armenia assalì, e prese la città d’Artassata. A tali avvisi Artabano ordina Ordde l’altro figliuolo alla vendetta: consegnagli gente Parta; mandagli da assoldare stranieri. D’altra banda Farasmane ingrossa d’Albani, solda Sarmati, i cui satrapi, detti sceptruchi, presero a loro usanza presenti e parte da ogni banda. Ma gl’Iberiani, furti di siti, spinsero per lo Caspio a furia i Sarmati in Armenia. Gli aiuti de’ Parti mal potevan congiugnersi, avendo il nimico presi i passi; un solo lasciatone tra ’l mare e piè de’ monti Albani, chiuso la state da’ venti etesj pignenti a terra il mare, che quel greti e stagni riempie, che il verno secca, retropignendolo i mezzigiorni.
XXXIV. Ad Orode adunque così d’aiuti sfornito, Farasinane ingrossato presentava battaglia; e sfuggito, lo travagliava, gli cavalcava intorno al campo, impediva le vettovaglie, metteva guardie a modo d’assediò; tanto che i Parti, non usati a vergogna, sollecitavano il re a combattere. Gagliardi erano di cavalli; e Farasmane anche di fanti; perchè iberi e Albani, selve abitando, sono al patire e durare più avvezzi; e tengonsi discesi da Tessali nel tempo che Giasone24 menò via Medea, figliuoli avutone; tornò nel voto palagio di Bela e nella vedova Coleo. Hanno nel nome di lui e nell’oracolo di Frisso gran divozione: e niuno sacrificherebbe montone, credendosi che Frisso fusse portalo da quell’animale; o fu lo stendale della nave. Messi l’uno e l’altro in battaglia, mostrava il Parto l’imperio dell’Oriente, il chiarore arsacido; e per contra l’ignobilità ibera e le forze venderècce; e Farasmane: „Che non serviron mai Parti; quanto era la loro impresa più degna, tanto sarebbe la vittoria più gloriosa, e la fuga trista e dannosa: essere l’esercito orrido; il Medo orato; essi gli uomini, quei la preda.„
XXXV. Punse non pure la voce del capitano i Sarmati, ma ciascun sè, a scagliar via le frecce, e venire a furia alle mani. Vedresti vario combattere; il Parto con l’usata arte di correr dietro o fuggire, e pigliar campo al ferire; i Sarmati, lasciato l’arco, che poco tempo serve, avventarsi con aste e spade: e ora, come in battaglia di cavalli, il viso o le spalle voltando, ora come di fanti, urtando e ferendo, la caccia davano o ricevevano. E già gli Albani e gl'Iberi pigliavano, urtavano, e mal conducevano i nimici; ferendoli i cavalli di sopra e fanti da presso. Farasmane e Orode, dove era valore accendendo, e dove pericolo soccorrendo, si facevano molto vedere; e perciò conosciutisi, con grida, arme e cavalli s’affrontano. Farasmane più furioso feri ’l nimico per la visiera: non raffibbiò, perchè fu dal cavallo portato oltre, e il ferito da’ suoi più valorosi salvato. Ma i Parti, credendo al falso grido ch’ei fusse mòrto, cedettero, incodarditi, la vittoria.
XXXVI. Artabano si mosse con tutte le forze del regno, e fu superato dagl’Iberi più pratichi di quei luoghi; nè perciò si partiva, se Vitellio, legioni adunando, e spargendo d’assalire la Mesopotamia, non gli metteva paura di guerra romana. Allora, lasciò l’Armenia, e fu spacciato; dicendo Vitellio a que’ popoli: „Che volete voi fare d’un re che nella pace vi scanna e nella guerra vi rovina?„ Sinnace adunque suo nimico, come dissi, induce Àbdagese suo padre, e altri per sè disposti, (e allora vie più per le continove sconfitte) a ribellarsi, correndovi a poco a poco quelli, che stati soggetti per paura e non per amore, trovati i capi rizzaron le creste. E già non rimaneva ad Artabano, che la guardia di sua persona; gente forestiera sbandita, che non conosce il bene e non cura il male, ma vive prezzolata di far tradimenti. Con sì fatti si fuggì ratto, e lungi a’ confini della Scizia, spèrando aiuto dalli Ircani e Carmani parenti suoi; in tanto potersi pentire i Parti, che amano il padrone che e’ non veggono, e schifano il presente.
XXXVII. Ma Vitellio, essendo fuggito Artabano, e volti i popoli a nuovo re, conforta Tifidate a colorire suo disegno, e lo conduce col nerbo del suo esercito alla riva dell’Eufrate. Ivi, per far buon passaggio, sacrificando Vitellio alla romana, porci, pecore e tori, e Tiridate un cavallo, riferiscono i paesani, l’Eufrate essere senza pioggia ingrossato a dismisura; fare bianchi giri di schiuma che pareano diademe, segno di passo felice: e certi più sottili dicevano, l’impresa nel principio agevole, ma non durevole; perchè degli agurj di terra e di cielo puote uomo fidarsi, ma il fiume, che corrente è, mostra e rapisce. Fatto, ponte di navi, passò l’esercito: e prima venne in campo con molte migliaia di cavalli Ornospade, che già fuoruscito aiutò gloriosamente Tiberio a finire la guerra di Dalmazia, onde fu fatto cittadino romano; tornò poi in grazia del re, ed ebbe il governo della Mesopotamia, così detta per essere in mezzo dell’Eufrate e Tigri, incliti fiumi. Appresso venne altra gente con Sinnace: e Abdagese, capo di quella parte, col tesoro e apparecchio del re. Vitellio, bastandogli aver mostrato l’armi romane, fece a Tiridate e a’ grandi le parole: „Ricordassonsi egli d’esser nipote di Fraate e allievo di Cesare, e di quanto all’uno e all’altro devea; eglino di mantenere ubbidienza al re, riverenza a noi, e ciascun l’onor suo e la fede„ e tornossi con le legioni in Soria.
XXXVIII. Ho detto insieme le cose in due anni fatte fuori, per dare all’animo riposo dai mali della città. Non mitigavan Tiberio, dopo tre anni che Seiano fu morto, le cose che pur sogliono gli altri; tempo, preghi, satollanza: anzi puniva i casi dubbi e stantiti per gravi e freschi. Per tal paura Fulcinio Trione, non aspettò gli accusanti; fe’ testamento25 pieno di parole brutte contro a Macrone, e a’ principali liberti di Cesare, al quale dava di rimbambito o quasi sbandito, stando fuor tanto. Le rede lo trafugavano; e Tiberio lo fece leggere, o per mostrar pazienza dell'altrui libertà, o per non curare sua infamia, o per aprire alli eccessi di Seiano, statovi tanto al buio, ogni finestra, o per vederne il vero in quello specchio de’ suoi, vituperi, non appannato d’alito d’adulazione. In que’ giorni si tolse di vita Cranio Marziano senatore accusato da C. Gracco di maestà; e fu per la medesima dato l'ultimo supplizio a Tazio Graziano, stato pretore:
XXXIX. Trebellieno Rufo s’ammazzò di sua mano; e Sestio Paconiano, per versi contro al principe fatti in carcere, vi fù strangolato. Stava Tiberio da Roma non lungi, nè tramezzato dal mare, come soleva; per aver tosto gli avvisi, e fare lo stesso di o la dimane, i rescritti a’ consoli, e quasi vedere il sangue per li rigagnoli correre, la mano del carnefice alzata. Al fine dell’anno morì Poppeo Sabino, di bassa mano, onorato da’ principi di consolato e delle trionfali, e de’ governi maggiori, già ventiquattro anni; non per gran sapere, ma per capacità de’ negozi, bastevole e non più26.
XL. Nel seguente consolato di Q. Plautio e Sesto Papinio. ** La morte di L. Aruseo parve niente; tanto se n’era fatto il callo. Spaventò bene il caso atroce di Vibuleno Agrippa, cavalier romano, che, quando gli accusatori ebber detto, nel senato stesso si trasse di seno e inghiottì tossico; e caduto e boccheggiante, fu da’ famigli di peso portato in carcere, e già freddo, an-andellatogli la strozza. Nè il nome regio difese Tigrane, già re d’Armenia, allora reo, da supplizio cittadinesco. Ammazzaronsi C. Galba, stato consolo, per un’aspra lettera di Cesare, che gli vietò l’andare al governo, e due Blesi, perchè essendo sacri beneflcj destinati per casa loro, quando fioriva, prolungati, quando fortuneggiò*, ora, quasi vota, dati ad altri, intesero questi esser cenni di morte, e la si presero. Lepida Emilia maritata, come dissi, al giovane Druso, avendol di molte colpe incaricato, steo la scellerata senza pena mentre visse Lepido suo padre; poi fu accusata del tenersi un suo schiavo; la cosa era chiara; onde ella senza difendersi s’ammazzò.
XLL In tal tempo i Clitari, vassalli d’Archelao di Cappadocia, essendo stretti a pagare estimo e tributi a nostra usanza, si ritirarono in sul giogo del Monte Tauro, e tenevansi, per la natura de’ luoghi, contro alla poco guerriera gente del re; quando M. Trebellio legato, mandatovi da Vitellio governatore di Sorìa con quattromila nostri legionari, e un fior d’aiuti, due colli, ove i Barbari s’eran posti, detti il minore Cadra, l’altro Davara, trinceò, e costrinse a darsi, chi tentò l’uscita, col ferro; gli altri, con la sete. Tiridate, di volontà de’ Parti, riebbe Niceforio e Antemusiada e l’altre città poste da’ Macedoni con grechi nomi, e Alo e Artemita, città de’ Parti; allegri l’un più dell’altro d’avere scambiato la maladetta crudeltà d’Artabano allevato tra Sciti, alle piacevolezze sperate da Tiridate condito di gentilezza romana.
XLII. Adulazione grandissima trovò in Seleucia città potente, murata; la quale non imbarberita, ma ritraente dal fondator suo Seleuco, di trecento de’ più ricchi e savi fa come un senato. Il popolo vi ha la sua parte quando son d’accordo, si fanno beffe de’ Parti; quando si recano in parte, l’una contr’altra chiama aiuto, e ’l chiamato si fa di tutti signore: come dianzi avvenne, regnando Artabano, che sottomise la plebe a’ grandi, a suo prò, essendo l’imperio popolare vicino a libertà, quel de’ pochi a tirannia. Or venuto Tìridate, l’esaltano con li onori usati ne’ re antichi e altri moderni più ampi: e svillaneggiavano Artabano, dicendolo di madre Arsacido, tralignante nel resto. Tiridate lasciò Seleucia a governo del popolo: e consultando del quando incoronarsi, ebbe lettere da Fraate e da Gerone governanti il forte del regno, che lo pregavano d’aspettarli un poco. Non volle a questi barbassori mancare; e andò e Tesifonti, residenza dell’imperio. Mandandola essi d’oggi in domane, Surena lo incoronò con le usate solennità, presenti molti e approvanti.
XLIII. E se nel cuore del regno, e altri sudditi, si presentava incontanente, non v’era che dire; cedeano tutti. Baloccatosi27 nel castello con le femmine, e’l tesoro che vi lasciò Artabano, diede tempo a pentirsi; perchè Fraate e Gerone, e gli altri, che non s’eran trovati a porgli la diadema, chi per paura, chi per invidia d’Àbdagese, che comandava la corte e il nuovo re, si rivoltarono ad Artabano; e trovatolo in Ircania, lordo, spunto, e sfamarsi con l'arco, lo spaventarono, quasi venuti ad ucciderlo; ma datogli la fede, che anzi a rendergli il regno, si riebbe, e domandò la cagione di sì subito mutamento. Gerone rispose; Tiridate esser fanciullo: non regnare uno Arsacida, un guerriero, ma un nome vano, uno straniero morbido; Abdagese esser il re.
XLIV. Conobbe il pratico a regnare, che i falsi amici odio non fingono; e a furia chiamò aiuti di Scizia: e senza dar tempo a’ nimici a pensare, nè agli amici a pentire, corse via così lordo per muovere nel volgo rancura28. Non preghi, non inganni, non arte, lasciò per guadagnare i dubbi e confermare gli amici. Avvicinandosi con grande oste a Seleucia, Tiridate era sbattuto dalla fama d’Artabano, e già dalla presenza, e confuso da’ consiglieri. Alcuni volevano che ei l'affrontasse e combattesse subito: „Son gente accattata, spedata per lo lungo cammino; nè tutti il vogliono; quei che lo favoviscon testè gli eran dianzi traditori e nimici.„ Ma Abdagese consigliava tornare in Mesopotamia; e difesi dal fiume, intanto chiamare aiuti armeni, elimei, e altri addietro; e con essi, e que’ che manderebbe il capitan romano, tentar fortuna. Attennesi a questo; perchè Abdagese faceva alto e basso, e Tiridate non era aperto. Partironsi come in fuga: gli Arabi cominciarono, e gli altri seguirono d’andarsene a casa, o nel campo d’Artabano; e Tiridate con pochi in Soria si ripassò; e così liberò tutti dal biasimo del tradimento.
XLV. Nel detto anno in Roma s’apprese gran fuoco, che arse Aventino e la parte del Cerchio congiuntagli; del qual danno Cesare cavò gloria, pagando per la valuta delle case e isolati29, milioni dua e mezzo d’oro, liberalità cotanto più grata a tutti, quanto meno murava per sè. Nè fabbriche pubbliche fece, che il tempio d’Augusto, e la scena al teatro di Pompeo; e quelle finite, non consacrò; sprezzando ambizione, o per troppa età. Fece stimare il danno di ciascuno, da’ quattro mariti di sue bisnipoti, Gn. Domizio, Cassio Longino, M. Vinicio, Rubellio Blando: e i consoli nominaron P. Petronio per quinto. Molti onori furono al principe, secondo gl’ingegni, ghiribizzati e vinti; nè si seppe quali accettasse o no, per la presta morte. Entrarono consoli sezzai a Tiberio, Gn. Accronio e C. Ponzio, salito già Macrone in troppa potenza, che s’era prima, e più allora, guadagnato Caio Cesare; a cui morta la moglie Claudia, prestava la sua Ennia, struita d’innamorare, e legar di matrimonio il giovane, che per montare all’imperio nulla disdicea: e le false infinte avea (benchè uomo rotto) imparate in collo all’avolo;
XLVI. il quale, conoscendolo, dubitava a quale de’ due nipoti lasciar la repubblica. Il figliuol di Druso era sangue suo, e più caro, ma troppo tenero; quel di Germanico, nel fiore della gioventù, bramato da tutti, perciò l’odiava: pensò a Claudio, d’acconcia età e studioso di buone arti; ma era scemo. Successor d’altra famiglia, era alla memoria d’Augusto, al nome de’ Cesari, onta e offesa; ed egli stimava più la fama negli avvenire che la grazia de’ presenti. Quello adunque che non potè egli per lo dubbioso animo e infermo corpo fare, lasciò al destino; mostrò bene per motti d’antivederlo; come, quando a Macrone rinfacciò: „Tu volti le spalle al sole occidente e il viso all’oriente;„ e a Caio Cesare, che ragionando si rideva di Silla, pronosticò: „Tu avrai tutti i suoi vizj e niuna delle virtù.„ E baciando con molte lagrime il nipote minore, a lui, che ne faceva viso arcigno, disse: „Tu ucciderai costui, e altri te„: Aggravando nel male, non lasciava pur una delle sue radicate libidini: e per prò’ parere, pativa; e anche era usato ridersi dei medici30, e di chi, passati i trenta anni, domandava altrui, che gli sia sano, che no.
XLVII. In Roma intanto si gettavano i semi delli ammazzamenti dopo Tiberio ancora. Lelio Balbo accusò di maestà Acazia, moglie già di P. Vitellio. Fu dannata; ordinossi il premio all’accusante. Giuno Ottone, tribuno della plebe, l’impedì; ambi n’acquistaro odio, e Ottone appresso l’esiglio. Di poi Albucilla, quella dalli tanti amadori, stata moglie di Satiro Secondo, scopritore della congiura, fu rapportata per insidiatrice del principe; e con lei, come scienti e adulteri, Gn. Domizio, Vibio Marso, Lelio Arunzio. Dello splendore di Domizio dissi di sopra; Marso ancora per antichi onori e lettere riluceva; ma quel vedersi per lo processo lettosi in senato, che Macrone i testimoni interrogò, i servi collò; e quello non avere lo imperadore contro costoro niente scritto, o per non sapere, o per la infermità, davan sospetto di calunnie false di Macrone per la nota nimicizia sua con Arunzio.
XLVIII. Perciò Domizio pensando a sua difesa, e Marso quasi deliberato morir di fame, non s’uccisero. Arunzio, dagli amici confortato, al medesimo rispose: „Non a ogni uno star bene le medesime cose: esser vivuto assai; nè aver da pentirsi che d’essersi lasciato calpestare, già da Seiano, or da Macrone, sempre da qualche potente; e perchè? per non tollerare le loro scelleratezze. Quando passasse questi pochi dì che Tiberio può vivere, come scamperebbe dal giovane che succede? Se natura del dominare aveva mutato e guasto Tiberio di tanta sperienza, come poteasi aspettar meglio di C. Cesare, fanciullo, ignorante, scorretto, alle mani di Macrone? il quale eletto a spegner Seiano, come più tristo di lui, travaglia la repubblica più tristamente. Antivedeva servitù più crudele; però fuggiva i mali presenti e soprastanti.„ Così quasi profetò e svenossi; quanto egli ben facesse, per le cose che seguirono, apparirà. Albucilla si dette piano: il senato la incarcerò. De’ mezzani alle sue libidini, Grasidio Sacerdo, seduto pretore, fu portato in isola, Ponzio Fregellano raso del senato; Lelio Balbo ebbe l’uno e l’altro con applauso; essendo parso dicitor sanguinolento contro gl’innocenti.
XLIX. In quei giorni Sesto Papinio, di famiglia consolare, si diede morte subita e laida, gittatosi da alto. Dicevasi, perchè la madre, già rimandata, l’aveva con carezze lascive indotto a cosa che non seppe sgabellarsene che con la morte. Ella ne fu accusata in senato, gittossi alle ginocchia de’ Padri, e molto durò a dire del suo fiero dolore di cotal caso e della compassionevole donnesca fragilitade; nondimeno fu sbandita dalla città per dieci anni; intanto a quell’altro figliuol minore sarebbe passato il furor giovenile31.
L. Già il corpo, già le forze abbandonavano Tiberio, ma non l’infingere. Col medesimo fiero animo, volto e parlare, e tal volta con piacevolezze sforzate, copriva sua manifesta mancanza. A ogni poco mutava luogo: e finalmente al Capo di Miseno nella villa già di Lucullo32, si giudicò33. Quivi la sua fine venuta si conobbe così: Soleva Caricle, gran medico, ne’ mali del prìncipe, se non medicarlo, dargli consigli. Venne a lui, quasi per sua bisogna, e presol per mano, come per amorevolezza, gli tastò il polso. Ei se n’accorse, e forse adirò; ma, per non parere, fece venir vivanda, e si pose fuor del solito a mangiare, quasi per onorar l’amico nel suo partire. Caricle accertò Macrone che il polso mancava, e non ve n’era per due giorni. Adunque quivi trattando, e fuori spacciando, agli eserciti, e a tutto provvidero sollecitamente. Alli sedici di marzo misvenne: e stimandosi passato, C. Cesare con gran turba di rallegratori uscì fuori per farsi, la prima cosa, gridare imperadore. Eccoti nuova che a Tiberio torna vista e favella, e chiedea cibo per ristoro del suo sfinimento; cadde il fiato a tutti; chi andò chi là: ciascuno si faceva mesto e nuovo. Cesare attonito ammutolì, come caduto di cielo in abisso. Macrone, coraggioso, disse: „Affogatel ne’ panni, e ognun se ne vada.„ Tal fine ebbe Tiberio34 d’anni settantotto:
LI. figliuolo di Nerone, di casa. Claudia anche per madre, benchè adottata nella Livia, e poi nella Giulia. Sin da’ primi anni corse dubbia fortuna, perchè col padre ne andò in esiglio; entrato figliastro in casa Augusto, l’urtarono molti e molti, viventi Marcello e Agrippa, poi Caio e Lucio Cesari: e Druso suo fratello aveva più grazia co’ cittadini. A partiti pessimi fu con la moglie Giulia, non potendo l’ostica sua disonestà inghiottire nè sputare. Tornato da Rodi, fu della vota casa del principe dodici anni padrone, e da ventitrè imperadore. Variò con li tempi i costumi di vita, e fama ottima fu quanto visse privato o comandò sotto Augusto: coperto, e di finte virtù, viventi Germanico e Druso; tra rio e buono, vivente la madre; crudelissimo e pieno di lussurie nascose, mentre Seiano amò o temè: all’ultimo la diè pe ’l mezzo a tutte le scelleraggini e sporcizie, quando, rimossa ogni tema e vergogne, secondò sua natura.
Fine del Libro sesto.
- ↑ Con buon giudizio pare al Lipsio che con li tre anni che mancano sia compiuto il quinto libro, e cominci il sesto.
- ↑ In senato non s’entrava con arme. Quando Tiberio vi era, fuori stavano soldati alla guardia. Non gli piacque che venti senatori v’entrassero armati per lui guardare, non se ne fidando, tenendoli tutti per nimici, e ricordandosi dì quel che intervenne a Cesare dettatore. Ma per nascondere questo suo timore, la mise il valent’uomo in canzona.
- ↑ Erano le prigionie, o libere per li nobili, sostenuti in case d’alcuno di magistrato pubblico o di privato, mallevadore di rappresentarli; o militari, e legavasi assai lunga catena alla destra del prigione, e sinistra d’un soldato alla guisa de’ nostri stincaiuoli; o erano cameracce per li vili o scellerati, o giudicati a morte. Nelle quali erano di legnami o d’altro, come il rovere: del quale vedi la postilla al §. XXIX del 4 libro; e il Tulliano, del quale Cicerone contra Verre; e Salustio nel Catilinario: Est locus in carcere, quem Tullianum vocant, detto dal re Tullio Ostilio che lo trovò per per pena avanti al supplizio de’ casi più gravi o come era il sesterzio, lungo miglia dua e mezzo fuori della città. Vedi Lipsio nel lib. 15 di questi Annali.
- ↑ Per accoppiare questo scherzo della disonestà di Caio col seguente di Cotta, che chiamò cena del mortòro quella fatta per lo natale di Tiberio, che tanti uomini faceva morire.
- ↑ Platone nel 4 della Repubblica. Lucrezio nel terzo esprime il rodimento della coscienza mirabilissimamente:
Sed melus in vita paenarum pro malefactis
Est insignibus insignis, scelerisque luela,
Carcer, et horribilis de saxo iactus deorsum,
Verbera, carnifices, robur, pix, lamina, taedae:
Quae tamen etsi absunt; at mens sibi conscia facti
Praemetuens adhibet stimulos, torretque flagellis:
Nec videt interea qui terminus esse malorum
Possit, nec quae sit paenarum denique finis,
Atque eadem metuit magis haec ne in morte gravescant.Iniquilatem meam ego cognosco, et peccatum meum contra me est semper, dice David. Però voleva fuggire e nascondersi Caino, morto Abele, tremando a verga a verga, che chiunque lo trovasse non l’uccidesse, come dice la Genesi al 4. Aristotile nel 9 dell’Etica, c. 3, dice: „Che l’ uomo scellerato sè stesso odia, uccide, nimica: nulla ha in sè che bene gli voglia: lo rode e lacera la sua coscienza„.
- ↑ Aminta nel settimo di Q. Curzio fa una simil professione magnanima d’essere stato amico di Pilota: e Cassio Cleno in Xifilino d’aver seguitato la parte di Nigro, la qual mosse Severo a lasciargli la metà de’ beni confiscati.
- ↑ Diminutivo di spiare: per vie occulte e strette sottrarre. Con metafora passata in proprietà diciamo spillare la botte per assaggiarla, traendone non per la cannella il vino, ma per lo spillo, cioè picciol pertugio, fattovi con istrumento detto anche egli spillo, e dagli antichi squillo.
- ↑ Malum consilium consuliori pessimum, era il proverbio romano, nato, come dice Agellio, dalla malignità de’ sacerdoti fatti venir di Toscana a ribenedire la statua d’Orazio Cocle, percossa da saetta; che anzi la maladissero e fecerla sì abbassare, che non vi desse mai sole. Confessaronlo per tormento, e furono uccisi. E i fanciulli per Roma cantavano il sopraddetto verso, tradotto da quel d’Esiodo [testo greco] col quale Democrate da Scio (come riferisce Aristotile nel terzo della Rettorica) morse Menalippide de’ troppo lunghi periodi; peggiori per chi gli fa che per chi gli ode: Capiti suo malum suit ille qui alteri malum suit: longa vero anabole, ei qui fecit pessima.
- ↑ Augusto de’ libri sì fatti ne arse dumila, dice Svetonio in Augusto 31.
- ↑ Leggi sane is, perchè quel sanus repertus era troppo sproposito.
- ↑ Svetonio la dice Livia o Livilla.
- ↑ Spesso spesso, dicesi per cose troppo spesse e indegne che a pena son credute; corresi a chiamar, s’egli è pur vero, con maraviglia dicendo: Che è? che è? che sent’io?
- ↑ L’arcivescovo di Toledo in mezzo a due vescovi disse: Io vo in carcere in mezzo a un grande, amico mio, e un gran nimico mio. Turbandosi quelli, seguitò: Il grande amico è l’innocenza; il nimico è l’arcivescovo di Toledo. Silio a’ cento diceva, l’ira di Tiberio essere il peccato suo.
- ↑ Il porre innanzi agli occhi è gran virtù. Tacito se ne compiace molto in questi libri, come qui e altrove.
- ↑ Se il cielo ha forza in noi, Dante nel 26 del Purgatorio ne tratta divinamente.
Il cielo i vostri movimenti inizia, ec.
- ↑ Anche qui rappresenta questa morte tragica, come Dante quella del conte Ugolino, con pietà sopr’umana. Lo fa vivere anch’egli nove giorni, e tra il quarto e ’l sesto i quattro figliuoli forse perchè l’età che cresce consuma più il cibo che quella che solamente si nutre; o pure la più robusta si regge più.
- ↑ Gloria di manigoldo: simile a quella di colui che nel quindicesimo di questi Annali rapporta a Nerone d’aver dicollato Subrio con un colpo e mezzo, non al primo, perch’e; sentisse la morte, secondo il precetto di Caligola; perchè l’uccider tosto è pietade.
- ↑ Carezze di Ciclope fu questa.
E voglio, Utino mio, mangiarti il sezzo,
dice Omero.
- ↑ Abbellite. Voce latina, compta: l’usavano gli antichi; e diceano contigie le cirimonie e ogni abbellimento. In Francia le donne di parto quando nel letto raffazzonate aspettano le visite, si dicono stare in contigia.
- ↑ Perchè, oltre alle ragioni qui dette, fuggivano i tòrmenti; e Tiberio l’avea caro per non parer quel desso che ammazzasse tutti i grandi; e le giustizie faceva fare al senato ed ei le grazie.
- ↑ I Locresi nel luogo del giudizio tenevano sopra il capo della spia un capestro; e non provando, l’adoperavano in lei.
- ↑ I grandi di Francia a’ tempi nostri impararono forse di qui a tenere i governi per lo re, contro alla voglia del re, e non volere scambio. Epaminonda vedendosi la vittoria in pugno, non ubbidì a suoi Tebani di consegnar l’esercito allo scambio mandatoli; e combattè e vinse; nondimeno il magistrato lo dannò alla morte. Egli disse che moriva volentieri, si veramente che nel suo sepolcro si scrivesse: Qui giace Epaminonda, che per avere sì fatto che la sua patria poteva usar le sue giustissime leggi, fu per quelle fatto morire ingiustamente. Al popolo, che aveva l’appello, non ne patì l’animo, e liberollo.
- ↑ Caligola voleva esser creduto il vago della Luna, e domandò Vitellio: Non l’hai tu veduta meco giacersi? rispose attonito, con gli occhi in terra e bocina tremolante: A voi tali Iddii i dato di potervi l’un l’altro vedere. Seppe far l’arte meglio quel Gemino, che disse di sì, e giurò; e n’ebbe venticinquemila.
- ↑ Narrano questa favola Valerio Flacco, Apollonio, Ovidio.
- ↑ Vendicavansi de’potenti col lasciarne detto ogni male ne’ testamenti, che come voci ultime eran credute la stessa verità.
- ↑ I valenti gli eran sospetti, gl’inetti vergogna pubblica. Vedi la post. i, §. LXXVII del i lib.
- ↑ Così non fece Tiberio, che mai non fu lento a impadronirsi: mature facto opus est: mentre il cane si gratta, la lepre se ne va.
- ↑ Rancore significa odio; e s’usa, rancura, compassione; e oggi non s’usa. A me viene rancura della perdita di questa voce bellissima, e ne’ libri antichi spessissima. Dante nel ventesimo del Purgatorio:
Come per sostener solaio o tetto
Per mensola talvolta una figura
Si vede giugner le ginocchia al petto,
La qual fa del non ver vera rancura
Nascer a chi la vede. - ↑ Ceppi di case, a muro comune congiunte. Sparziano dice che furono 335. Nel quindicesimo di questi Annali si dice che in Roma, dopo che arsa fu (forse per fattura di Nerone), si rifecer le strade larghe, ordinate, diritte, le traverse a misura, le piazze maggiori, le case non sì alte, co’ portici avanti, cinte ciascuna di suo proprio muro spiccato dal vicino; come ancora noi veggiamo le nostre torri e case antiche per sicurezza delle arsioni, e divìsion della città. Vedi il Lipsio a 398.
- ↑ Leggiadramente dice il Cavalca: „Avicenna conta molti mali delle medicine. Sono velenose, fiaccano la natura, fanno più presto invecchiare, volano col tristo umore il buono, parte de’ vitali spiriti, e molta virtù delle membra. Chi a’ medici si dà a sè si toglie. Astinenza è somma medicina a sanità di corpo e d’animo. „ Vedi Anneo Ruberto, lib. i, cap. 5.
- ↑ Facezia tanto più bella, quanto in questo autor più rare, più forse per la gravità della storia che per sua natura; essendo i sali, e’ parlari urbani propri de’ grandi ingegni. La lingua nostra n’è vaga e piena. Sono cosa gentile, e fanno nell’uditore più effetti buoni; impara senza fatica quello che non avrebbe trovato egli: maravigliasi, rallegrasi, e pargli esser amato; perchè chi noi non amiamo, non ci curiamo di tener allegro.
- ↑ La comperò fiorini cinquantamila dugento da Cornelia, che l’aveva comperata settemila cinquecento dalle rede di Mario: tanto crebbe, dice Plutarco, in sì breve tempo la ricchezza di Roma e la pompa.
- ↑ Si fermò nel letto caduto e abbandonato senza più forza, balia, o gina da poter muoversi. Questo significa, giudicarsi.
- ↑ Gli fa parallelo un grande de’ tempi nostri, che patendo di simili sfinimenti, ne gli venne uno, che durato oltre modo, nè potendosi mancare delle dovute onoranze, vennero i cerusici. Al primo taglio gridò, seguitarono per lo migliore. Radamisto, come dice questo autore nel dodicesimo, affogò ne’ panni la sorella e ’l zio.