Anime allo specchio/Il nome
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il vigile amore |
IL NOME.
— Che cosa mai conta un nome in amore? — osservò il giovane marchese Aimone Guigas abbandonando i remi e lasciando andare la sua piccola barca chiamata l’Arianna alla deriva. — Io fui sempre amato per me stesso, per quel tanto di gioventù, di forza e d’ardore ch’io diedi con slancio a ciascuna passione ed a ciascun capriccio, all’infuori e al disopra di quanto possono aver operato per immortalarsi i miei avi più lontani e per arricchirsi i miei avi più vicini.
— Tu lo credi veramente? — gli obbiettò Ottavio Ottaviani che stava di fronte sdraiato sui molti cuscini dell’Arianna con una sigaretta fra le labbra e le mani intrecciate sotto la nuca. Egli non aveva ancora trent’anni ma ne dimostrava venticinque per la sveltezza robusta e fine del suo busto modellato da una maglia bianca, per l’eleganza della piccola testa perfetta di profilo, bruna e ricciuta come quella dell’Ermes, sostenuta da un collo scultorio. E mentre esprimeva la sua domanda un poco scettica egli rideva esponendo una chiostra di denti abbaglianti in un volto glabro che il vento del mare aveva patinato di una tinta leggermente bronzea, la quale dava allo sguardo ed al sorriso uno straordinario risalto.
— Tu credi dunque che le donne ti abbiano amato solo e unicamente per te stesso, solo e unicamente perchè tu le hai amate, anche se tu non ti fossi chiamato il marchese Aimone Guigas che possiede in riviera una villa principesca e in città un palazzo storico? No, mio caro, non t’illudere. Le donne sono pratiche anche in fatto di amore e il nome di un amante conta per esse assai più che tu non lo creda.
— Ma scusa, e la piccola Flora che mi chiamò Florindo per tre mesi, perchè io non volli mai dirle il mio casato?
— La piccola Flora se n’era informata da me la sera stessa che ti conobbe e ti lasciò per tre mesi in quell’illusione perchè l’amore in incognito ti piaceva e ti lusingava.
— Ero dunque così ingenuo? Ma no, non fu possibile.
I due amici ridevano allegramente, cullati dal moto leggero della piccola imbarcazione su un mare liscio e bianco come latte nella calma dell’ora meridiana.
Ma a poco a poco gli occhi di Ottavio Ottaviani parvero seguire con troppa insistenza nel cielo alto il volo di qualche gabbiano e lo sfioccarsi di qualche nube in un silenzio meditabondo. Le sue sopracciglia rettilinee come quelle delle statue greche si univano alla radice del naso in una ruga diritta che segnava in lui il massimo sfogo della concentrazione spirituale.
— A che pensi? — gli chiese Aimone Guigas chinando verso di lui la sua piccola faccia irregolare dove i denti sporgevano alquanto rialzandogli il labbro come nei rosicanti.
— Penso ad un’avventura.
— E ti oscuri così?
— È forse l’unica avventura della mia vita il cui ricordo mi irriti e mi umilii.
— Umiliarti, tu, il bell’Ottavio adorato dalle donne?
— Sì, perchè sento che fui veramente vile, come solo le donne sanno qualche volta ridurci e perchè furono punto le qualità che tu credi abbiano per esse maggior valore quelle che rimasero maggiormente umiliate.
— Non comprendo.
— Comprenderai quando ti avrò narrata questa piccola storia sentimentale che, ti giuro, per la prima volta io racconto ad altri che a me stesso e che tentai con ogni mezzo di dimenticare, tanto grande fu sempre il disagio morale in cui mi lasciò la memoria di quel fatto.
L’Arianna si dondolava mollemente sul mare placidissimo del meriggio, cullando come dentro un’amaca sospesa tra cielo e onde i due giovani corpi distesi sui suoi cuscini e le due giovani anime abbandonate al ritmo delle confidenze.
— Quattro anni or sono, prima che morisse mio padre, — narrò Ottavio distendendosi in fondo alla barca, — dopo aver presa la laurea io, per consentire al suo desiderio, facevo pratica d’avvocato nello studio di un insigne giureconsulto suo amico e quantunque piuttosto negligente nel seguire l’orario e pieno di vivacità e di distrazioni, possedevo non so come la piena fiducia del mio principale e una sua molto spiccata predilezione.
Ero da quasi un anno nello studio ed avevo acquistata una certa famigliarità coi codici e la carta bollata, quando entrando il pomeriggio di un sabato nel gabinetto riservato dell’avvocato mi sentii rivolgere questa interrogazione:
— Volete partire questa sera o al più tardi domattina per Roma?
— Senza dubbio, commendatore, — risposi tutto sorpreso e lieto e gli domandai la cagione di questo improvviso ordine. Egli me lo spiegò con brevi e chiare parole.
Si stava per discutere a Roma una causa civile molto grave patrocinata da un suo collega al quale occorreva tutto un dossier di carte importantissime le quali si trovavano ancora per errore nelle sue mani.
Persona di fiducia doveva essergli inviata col prezioso deposito e con parecchie spiegazioni e delucidazioni verbali troppo delicate per essere confidate ad una lettera o al primo venuto. Egli aveva pensato a me come al messaggero più adatto, perchè giovane, intelligente, fidatissimo.
Naturalmente accettai promettendo di partire il mattino seguente e mentre uscivo dallo studio di corsa perchè era tardi e dovevo ancora occuparmi di parecchie disposizioni, m’incontrai faccia a faccia con Mario Scotti, l’esploratore, del quale ero amicissimo e che mi veniva a prendere quasi ogni sera per una passeggiata in automobile prima di pranzo.
Mario Scotti era piccolo e brutto, ricchissimo e intelligentissimo. Tornato tre mesi innanzi da un lungo viaggio d’esplorazione al Congo, dove aveva scoperto le sorgenti di non so più che misterioso fiume, aveva pubblicato una relazione interessantissima in un libro sapiente e al tempo stesso piacevole a leggersi come un romanzo di Giulio Verne, il quale gli aveva valso il premio della Società Geografica e l’ammirazione e le lodi di tutta la stampa italiana.
Egli godeva allora il suo quarto d’ora di celebrità e i suoi sei mesi di riposo prima di rimettersi nuovamente in viaggio e si circondava di pochi amici antichi e fidati che raccoglieva quasi ogni sera alla sua tavola in quel villino presso il Po, il quale era una meraviglia di architettura e di arredo orientale.
Vi si sentiva entrandovi quello che d’Annunzio chiamò «l’odore indefinibile del Sud» e pareva la dimora di un sultano o di un rajah europeizzati e raffinati, ma di un rajah o di un sultano che avessero bandito dal loro regno le donne e tutte le loro tentazioni.
Perchè Mario Scotti era e si confessava misogino. Troppo intelligente per illudersi di poter essere amato per altro che per le sue ricchezze e la sua notorietà e troppo orgoglioso per accettare una forma d’interessamento così poco lusinghiera per il suo infelice io fisico, s’era chiuso in una serena rinunzia ormai fatta d’abitudine la quale gli permetteva di commentare scetticamente le passioni degli amici e di consigliarli all’uopo con un suo amabile cinismo pieno di gaiezza e di arguzia.
La sua prima ed unica delusione d’amore, subita a vent’anni, lo aveva incitato al suo primo viaggio intorno al mondo e gettato in lui il germe di quella più nobile e più rara passione che ne aveva fatto in dieci anni uno scienziato e un artista.
— Stasera tu pranzi con me, — egli mi disse prendendomi per il braccio e costringendomi a salire nell’automobile accanto a sè. E poichè io mi schermivo adducendo a scusa le parecchie incombenze che mi rimanevano da sbrigare, fra cui l’acquisto di una valigia, perchè mio fratello partendo per il suo collegio in Svizzera s’era portata seco la mia, Mario Scotti rise sonoramente promettendo d’equipaggiarmi egli stesso per quanto mi potesse occorrere, non solo per andare a Roma, ma anche a Londra od a Singapore.
Mi lasciai convincere e cenai con lui e con pochi altri intimi in quella sua deliziosa sala da pranzo all’orientale, lucente e austera come una moschea dove i nostri abiti e le nostre calzature stridevano e stonavano come una profanazione, e alle due del mattino dopo una serata passata al tavolino del bridge o nel salotto da fumare me ne tornavo a casa nell’automobile di Mario recando con me una magnifica valigia in cuoio di Russia, la quale presso il suo complicato sistema di chiusura recava un quadretto rettangolare pure incorniciato in cuoio, col nome e la professione dell’amico in una bella stampa gotica: Mario Scotti. Esploratore.
— Lascerò a casa questo biglietto di presentazione troppo denunziatore, — pensavo osservando ch’esso era fissato alla maniglia con una semplice fibbia, ma giunto nella mia stanza pieno di sonno mi spogliai e mi addormentai immediatamente; e il mattino seguente mi rimase appena il tempo di buttare nella valigia le carte affidatemi dall’avvocato e i miei indumenti più necessari e di precipitarmi alla stazione per non perdere il treno.
Continuai a dormire per alcune ore solo nel mio scompartimento perchè era domenica e poca gente viaggiava, ma durante la fermata a Genova vi salì una signora bruna e florida col profilo alquanto accentuato e gli occhi neri e larghi delle romane, la quale mi sedette accanto, trasse un romanzo e s’immerse nella lettura.
Vestiva piuttosto vistosamente con un mantello a grandi scacchi bianchi e neri e un piccolo cappello nero sul quale si beccavano due piccioni viaggiatori e pareva trovarsi perfettamente a suo agio in quel vagone bene riscaldato coi piedi appoggiati al sedile di fronte, le spalle quasi aderenti allo schienale e il suo libro fra le mani, un libro di Pierre Loti.
Tanto ch’io mi vergognai del mio ozio e del mio sonno e aperta la valigia che tenevo accanto a me sul divano, vi cercai dentro alcuni atti notarili di cui non avevo preso sufficiente cognizione e mi posi a scorrerli con attenzione. Passai così a poco a poco tutte quelle carte importanti divise a piccoli fasci e ogni volta ch’io finivo di leggere un plico aprivo la valigia, ve lo riponevo, la richiudevo con cura. M’accorgevo intanto che la mia vicina osservava di sotto le ciglia i miei movimenti ed ogni qual volta il coperchio della valigia sollevato le poneva sottocchio il quadretto di cuoio che recava inserito il nome e la professione di Mario Scotti, ella vi gettava un rapido sguardo il quale subito si volgeva a me balenando di curiosità.
Mi venne interiormente una gran voglia di ridere. La viaggiatrice conosceva certamente di fama l’amico mio, forse ne aveva letto l’ultimo libro, Oltre la civiltà, quello che interessava e attraeva come un romanzo d’avventure e non le pareva vero che il caso le concedesse di viaggiare sola, per molte ore, accanto a quell’uomo celebre, pieno di temerità e di sapienza, che tutta l’Italia ammirava.
Dapprima forse non le era sembrata possibile tale fortuna, ma poi il nome, quel nome unico, seguito dalla parola «Esploratore» chiaramente impresso sul biglietto, non poteva lasciarle alcun dubbio.
Ero proprio io Mario Scotti, ero proprio io l’uomo fortunato al quale la bella viaggiatrice rivolgeva ora i più benevoli e i più ammirativi dei suoi sguardi.
Risolsi naturalmente di lasciarla nell’inganno e di secondarlo con abilità, divertendomi a quell’errore di persona dal quale potevo trarre qualche grazioso vantaggio, e riflettevo intanto con allegria alla bizzarria del caso, che faceva scambiare un uomo come Mario piccolo barbuto scimmiesco sebbene scienziato celebre, con un ragazzo come me, ch’era tutto il contrario.
Percorrevamo intanto quel lungo tratto delle gallerie liguri le quali concedono all’occhio del viaggiatore tanto rare e tanto brevi apparizioni di un magnifico paesaggio, così verde turchino che sembra visto in sogno e non nella realtà, e ciascuno di noi pareva assopirsi nel suo angolo, aspettando che cessasse il rombo e la luce del giorno tornasse.
D’un tratto il vetro di un finestrino forse non bene assicurato, cadde con un colpo secco e lo scompartimento si riempì di fumo, un fumo di galleria così acre e denso che ci costrinse a chiudere gli occhi e turarci le narici tossendo.
— Piccoli incidenti di viaggio, — io osservai risollevando sollecitamente il cristallo e la mia compagna soggiunse sorridendo:
— Piccoli incidenti che non debbono inquietare lei, abituato a ben altri pericoli.
— Oh Dio, signora, — mi schermii con modestia, — il fumo negli occhi non è piacevole sotto nessun tropico.
— Sempre meglio degli antropofagi e del serpente cobra, — ella insistette, lusingatrice, decisa a manifestarsi a qualunque costo quanto fosse bene informata sull’opera e sulle vicende di Mario Scotti.
Sorrisi a mia volta inchinandomi con una espressione di gradita meraviglia e cercai di sviare quel discorso che in realtà mi impacciava alquanto chiedendole s’ella abitasse a Roma.
— Sono romana, — ella rispose, — e benchè vedova da tre anni mantengo i migliori rapporti coi parenti di mio marito che stanno a Genova. Per questo e perchè a me piace moltissimo viaggiare, vengo spesso a trovarli ed a vivere con essi alcuni giorni.
— Le piace viaggiare? — domandai con amabile interessamento, non sapendo come continuare in altro modo il discorso.
— Immensamente, — ella esclamò con ardore, — e non leggo che libri di viaggi o romanzi esotici coloniali. I miei autori prediletti sono Loti e Farrère, il mio unico sogno un viaggio intorno al mondo, la mia unica passione....
S’interruppe esitando con una movenza piena di civetteria, scotendo il capo, sorridendomi negli occhi, confessandomi con tutta quella leggiadra mimica di donna ingenua e scaltra al tempo stesso, che la sua unica passione erano gli esploratori in generale e Mario Scotti, ossia io in particolare.
— Ciò è abbastanza strano per una donna; — osservai, — nelle mie peregrinazioni pel mondo incontrai ben raramente o forse mai signore che avessero i suoi gusti.
— Ciò si spiega, — ella replicò; — mio padre fu per molto tempo medico in Eritrea ed io vissi con lui nel continente nero sino a diciott’anni, ossia finchè mi sposai con un ufficiale che morì poi ad Adua. D’allora la nostalgia delle terre lontane e diverse mi fece cercare con avidità i libri che le descrivessero e le persone che le conoscessero.
Incominciai in cuor mio a temere di non trovarmi sufficientemente preparato per la parte che m’ero imposto e sebbene ella ritornasse continuamente sul suo soggetto preferito interrogandomi sulle mie esplorazioni, io cercai scaltramente di sottrarmene incominciando a farle la corte, argomento sul quale non mi occorreva una speciale preparazione.
— Perchè volete ch’io vi parli delle donne allo stato selvaggio mentre mi paiono tanto più interessanti le donne civilizzate? — le dicevo fissandola in fondo agli occhi con uno sguardo da ipnotizzatore di Caffè-concerto.
— Voi dovete certo magnetizzare le belve nel deserto se le guardate a quel modo, — ella osservava con un sorriso già alquanto incerto. E soggiungeva dopo una pausa: — Però, io non avrei mai immaginato un Mario Scotti così giovane e, lasciatemi dire, così bel giovane. Perchè evitaste sempre di pubblicare sui vostri libri il vostro ritratto? Chi sa quante lettrici vi sarebbero cadute ai piedi.
— Non mi piacciono le ecatombi di vittime umane, — rispondevo con una tranquilla fatuità che pareva alla mia amica disdegno superbo e pensavo intanto a Mario e ad una sua frase preferita: — Credete pure che quando si sono viste nude donne di tutti i colori, nero, rosso, giallo, bianco, e vicine alla natura quanto più è possibile esserlo, si guarisce di qualunque galanteria, di qualunque sentimentalismo e non si considera più l’amore che come la più bruta e la più brutta fra le necessità della specie.
Io non condividevo questa opinione forse perchè non avevo veduto che donne di un solo colore, il bianco, e la galanteria di cui non ero ancora guarito mi indusse a scendere un momento alla stazione di Pisa e ad offrire risalendo in treno alla mia bella compagna di viaggio un enorme mazzo di violette e di camelie.
Ella l’accolse con una esclamazione di gioia e vi affondò il viso come per odorare i fiori e baciarli insieme, mentre io mi scusavo di non poterle presentare che un comune mazzo di fiori cittadini, invece delle esili liane delle foreste tropicali o degli emerocali del deserto.
Insieme pranzammo nel vagone-ristorante, insieme divorammo gaiamente aranci e biscotti comprati per via e insieme discendemmo finalmente a Roma divenuti amici. Da alcune ore non parlavamo più di viaggi e d’esplorazioni ma di noi stessi ed io mi ero accorto con piacere che gli entusiasmi orientali della mia compagna erano alquanto ostentati, la sua coltura esotica piuttosto superficiale e che, come tutte le donne belle, preferiva ad ogni altra cosa di piacere e d’essere corteggiata.
Io non le lasciai mancare quest’omaggio e baciandole la mano mentr’ella saliva in una vettura di piazza le chiesi il permesso di rivederla.
— Vi attenderò domani all’ora del thè, — ella consentì con un ultimo sguardo balenante e si ritrasse nel buio della carrozza che partiva.
— Domani le svelerò il mio vero nome, — risolsi avviandomi in un’automobile all’albergo; — le dirò che quest’inganno fu un piccolo scherzo e ne rideremo insieme, traendo da ciò una nuova intimità.
Il giorno seguente fui occupato senza posa ad eseguire il delicato incarico affidatomi ed erano già le sei di sera quando mi riuscì di liberarmi degli avvocati e di correre dalla mia novella amica.
Ella aveva indossato un kimono autentico di seta grigio-perla tutto fiorito di glicine e mi aspettava in un minuscolo salottino giapponese fra idoletti, stuoie, paraventi e crisantemi che pareva uno scenario di Madame Butterfly. Ella sembrava più alta e più florida fra quelle minuterie fragili messe insieme con un certo gusto e un discreto discernimento e fu tutta felice delle lodi ch’io le prodigai con la generosità più atta a propiziarmela.
— Il vostro elogio, il primo vi assicuro, di un vero competente mi rende immensamente orgogliosa, — ella mi diceva languidamente sorbendo il thè, mentre io seduto accanto a lei braccio contro braccio osservavo l’ansare affrettato del suo seno nel triangolo della scollatura a punta.
Io non badavo già più alle sue parole, e dimenticai completamente di chiamarmi Ottavio Ottaviani o Mario Scotti quando le cinsi le spalle e la baciai a lungo sulla nuca scoperta.
— Mario, Mario, — ella sospirava sotto le mie carezze, — come mi piace il tuo nome!
E solo allora mi rammentai che m’ero proposto di confessarle il mio vero essere, ma poichè me ne mancava il coraggio dissi a me stesso che il momento non sarebbe stato opportuno e tacqui.
Tacqui ancora il domani e il posdomani e continuai nella piccola viltà di quell’inganno per tutto un mese.
Lettere frequenti di mio padre mi richiamavano a casa, un breve severo biglietto dell’avvocato mi accusava di non aver meritato la sua fiducia con quella specie di diserzione che non aveva ragione nè scusa e mi avvertiva che non facevo più parte del suo studio.
Ma io ero follemente innamorato e indifferente ormai a tutto quanto non fosse Elena, la bellezza di Elena, l’amore di Elena.
Ella continuava a chiamarmi Mario ed a credermi Mario Scotti ed io per inerzia e per paura la lasciavo nel suo errore.
Mi dicevo, ragionando con falsa logica, ch’ella amava ora la mia persona, la mia tenerezza, il mio ardore e che il nome ormai non contava più nulla nel legame sentimentale e sensuale che l’univa a me.
Assicuravo me stesso che io non la disingannavo semplicemente per evitarmi i suoi stupori, le sue domande, forse una sua leggiera contrarietà e cercavo di convincermi come nella mia condotta non vi fosse da un mese una menzogna piuttosto vile, ma solo una dissimulazione alquanto puerile.
In fondo al cuore però soffrivo di questa abolizione di me stesso e non entravo una volta nel suo salottino giapponese senza propormi di svelarle prima di uscirne il mio nome.
Ma non appena io la guardavo in quei suoi larghi occhi balenanti, non appena la sentivo fremere agile e forte fra le mie braccia e udivo la carezza molle e tenera della sua voce in quel nome che non era il mio, mi smemoravo d’ogni più fermo proposito, e invece di confessarle il mio inganno le domandavo tremando:
— Mi ami, Elena? E perchè, dimmi, perchè mi ami?
— Perchè mi piaci, perchè hai questa bocca, questi occhi, questi capelli, perchè sei tu, — ella mi rispondeva passandomi sul viso dolcemente le sue dita sottili ed io ripetevo come trasognato: — Perchè sono io, nevvero, solo perchè sono io ti piaccio? Se fossi un altro non mi ameresti così?
Ella allora mi scuoteva ridendo, scherzava su quelle mie stranezze d’uomo troppo intelligente e perciò leggermente pazzoide, che la divertivano e la inquietavano al tempo stesso.
Ero giunto ad augurarmi che ella venisse a conoscere la verità per caso da altri che da me stesso, ma io conoscevo a Roma pochissima gente che avevo d’altra parte evitato ed ella faceva una vita piuttosto riservata e solitaria.
Inoltre ella credeva ch’io abitassi nel villino d’un amico come le avevo raccontato il giorno del nostro incontro e non era venuta mai a cercarmi nell’albergo dove in verità alloggiavo e dove si sapeva il mio nome.
Una volta Elena mi aveva pregato di portarla con me nel mio primo lungo viaggio di esplorazione, ma il mio viso s’era talmente oscurato alle sue parole e il mio silenzio era stato così poco incoraggiante ch’ella non aveva più osato insistere nè tornare sull’argomento.
Si era a questo punto e la nostra relazione sempre più tenera e più fervida durava da un mese e mezzo, quando una lettera di mia madre la quale mi scriveva di rado ma sempre per ragioni gravi, mi avvertì che la salute di mio padre le destava da un paio di settimane qualche preoccupazione e che desiderava consigliarsi con me onde farlo visitare da un diagnostico di valore e costringerlo a intraprendere una cura.
Mi occorreva dunque partire senza indugio, lasciare Elena e tutte le gioie, le trepidazioni, le esaltazioni ch’ella rappresentava; occorreva lasciarla almeno per qualche tempo, per qualche settimana, corrispondere con lei soltanto per mezzo delle parole scritte, leggere e non più udire le sue espressioni così appassionate e tenere, vivere con lei per mezzo di tutte le facoltà dello spirito, ma non più sentirla palpitare fra le mie braccia.
— Scrivere, scrivere, — riflettei d’un tratto fermandomi in mezzo alla mia stanza che percorrevo meditando in lungo e in largo; — perchè ella mi scriva dovrò dirle il mio nome; questa volta non c’è scampo, non c’è più vigliacco pretesto che tenga, questa volta dovrò confessarle ch’io sono l’avvocato Ottavio Ottaviani e non l’esploratore Mario Scotti.
E mi sforzai a ridere volendo immaginare il volto stupefatto e gaio di Elena, ma riuscendo solo a vedere in fantasia la ruga diritta e profonda che si scavava sulla sua fronte nei momenti d’irritazione e di sdegno.
— Parto, — le dissi col primo bacio, e la vidi impallidire, le sentii piegare la fronte sulla mia spalla con un no! così implorante che mi trapassò il cuore di felicità.
Ma quando le parlai brevemente della malattia di mio padre ella sporse le labbra con una piccola smorfia di superba contrarietà e mi osservò:
— Non sapevo che tu avessi un padre e specialmente che tu gli dovessi curare gli acciacchi della vecchiaia.
Sentii che il coraggio di parlare mi mancava un’altra volta e le fermai al polso una catena a grosse maglie d’oro che intendevo offrirle dopo la confessione per ottenere il suo perdono.
Ella ritornò carezzevole e dolce, non parlò più della mia partenza come se non vi credesse e uscì con me nella sera primaverile piena di stelle e di canzoni.
— Domani sarò lontano, — io mi ripetevo frattanto col petto chiuso in uno spasimo e quando rientrammo a notte alta in casa sua, quando fummo nella sua stanza da letto tutta azzurra, per l’ultima volta, io la strinsi con frenesia incontro a me sul mio cuore, e gemendo, singhiozzando senza lagrime le dissi che l’amavo e che dovevo lasciarla, le giurai che sarei ritornato a lei fra poco, perchè senza di lei non sapevo e non potevo più vivere.
Piangevamo entrambi avvinghiati e stretti come una cosa sola sul piccolo letto coperto di broccato azzurro e all’improvviso, naturalmente, spontaneamente, nella sincerità dolorosa di quel momento, io sentii di poter rivelare il mio segreto, dire il mio nome come quello di un povero essere angosciato che re o servo, genio o idiota, creso o mendicante non ha che lo stesso valore di umiltà e di sofferenza dinanzi alla vita e alla passione. Glielo dissi senza guardarla, col viso nascosto nella curva del suo collo sul quale sentivo pulsare le vene e scorrere calde e lente le lagrime.
— Piccola mia, perdonami se ti ho ingannato, — mormorai colla voce strozzata in gola, ed ella credette ch’io alludessi a mio padre e rispose con un lieve gemito.
— Piccola mia, tu non mi conosci ancora e mi chiami Mario, ma io ho un altro nome, non sai? un altro nome col quale tu mi chiamerai d’ora innanzi.
I suoi occhi si sbarrarono senza pianto in faccia a me, m’intimidirono col loro fulgore. Ella attendeva in un silenzio sospeso la spiegazione di quelle oscure parole.
— Io non sono Mario Scotti, — aggiunsi in fretta, convulsamente, — sono un amico intimo di lui e il nome che tu leggesti sul biglietto il giorno del nostro incontro ti ha tratta in inganno. Ma tu hai amato me, per me stesso all’infuori del mio nome. Tante volte me l’assicurasti ed è vero, dimmi che è vero; non tacere così, non guardarmi così, Elena!
La ruga diritta dello sdegno e del disprezzo le incideva alla radice del naso un solco profondo come una cicatrice e i suoi occhi foschi e cattivi come non mai occhi umani m’erano apparsi prima d’allora, mi fissavano con una crudeltà così fredda e beffarda che non ne potevo sostenere lo sguardo.
— Sei stato vile, — ella sibilò senza dischiudere i denti e scivolò dal letto lentamente, andò a sprofondarsi in una poltrona, sovrappose una gamba all’altra e accese una sigaretta.
Io mi degradai fino all’ultima umiliazione tanto la desideravo in quel momento, così com’era bellissima e corrucciata come una dea, perversa e tortuosa come una serpe.
Mi buttai ai suoi piedi, baciai le sue ginocchia supplicando d’essere perdonato, d’essere illuso ancora una volta, un’ultima volta.
Ella mi allontanò col piede, come una cosa immonda, mormorando con gli occhi altrove e il viso disgustato: — Vattene!
Fuori, nella strada, sotto gli alberi neri e il cielo più nero, nella notte fresca e silenziosa, fra le cose tranquille e pure che assolvono e consolano gli uomini di tutte le loro colpe e di tutte le loro miserie, ritrovai me stesso col mio cuore sanguinante e calpestato ma ancora vivo, col mio nome dimenticato e rinnegato ma ancora mio.
E partii all’alba senza che quella ch’io aveva amato fino all’annientamento sapesse chi ero e dove andavo.
★
— Non narrasti mai quest’avventura a Mario Scotti? — domandò Guigas dopo un lungo silenzio dell’amico durante il quale questi accese una sigaretta, buttò il cerino sull’acqua e rimase a guardarlo attentamente finchè si spense.
— No, — rispose Ottavio riscuotendosi dalla sua fissità; — forse lo avrei divertito troppo. E poi quasi per una specie di strano pudore lo sfuggii dopo d’allora provando dinnanzi a lui non ostante tutte le autodifese e i ragionamenti in mio favore uno strano disagio, un’intima vergogna come se avessi commesso una colpa a suo danno. Del resto, — soggiunse afferrando i remi, — non l’avrei narrata nemmeno a te se non mi avesse incitato a farlo il tuo discorso di poc’anzi e la calma suadente di questo mare che ci isola dal resto dell’umanità e induce alle confidenze ed alle confessioni. Quest’ora ambigua ha un fascino infido al quale non bisognerebbe mai soggiacere.
— C’è il canto delle sirene sul mare a quest’ora, — rise assentendo Aimone Guigas.
E Ottavio balzò in piedi profilando sull’azzurro il suo bel torso di statua e con una gagliarda vogata diresse l’Arianna verso terra.
— Turiamoci le orecchie colla cera e approdiamo, — gridò ai venti con tutta la forza della sua voce giovanile quasi per disperdere con quel richiamo baldanzoso l’ultima ombra delle antiche malinconie.
E l’eco dormente negli scogli si destò e ripetè lungamente quel grido.