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342 il nome

quando fummo nella sua stanza da letto tutta azzurra, per l’ultima volta, io la strinsi con frenesia incontro a me sul mio cuore, e gemendo, singhiozzando senza lagrime le dissi che l’amavo e che dovevo lasciarla, le giurai che sarei ritornato a lei fra poco, perchè senza di lei non sapevo e non potevo più vivere.

Piangevamo entrambi avvinghiati e stretti come una cosa sola sul piccolo letto coperto di broccato azzurro e all’improvviso, naturalmente, spontaneamente, nella sincerità dolorosa di quel momento, io sentii di poter rivelare il mio segreto, dire il mio nome come quello di un povero essere angosciato che re o servo, genio o idiota, creso o mendicante non ha che lo stesso valore di umiltà e di sofferenza dinanzi alla vita e alla passione. Glielo dissi senza guardarla, col viso nascosto nella curva del suo collo sul quale sentivo pulsare le vene e scorrere calde e lente le lagrime.

— Piccola mia, perdonami se ti ho ingannato, — mormorai colla voce strozzata in gola, ed ella credette ch’io alludessi a mio padre e rispose con un lieve gemito.

— Piccola mia, tu non mi conosci ancora e mi chiami Mario, ma io ho un altro nome, non sai? un altro nome col quale tu mi chiamerai d’ora innanzi.

I suoi occhi si sbarrarono senza pianto in faccia a me, m’intimidirono col loro fulgore.