Al parlamento austriaco e al popolo italiano/Parte seconda/V
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V.
L’AVVENIRE ECONOMICO DEL TRENTINO.1
Se la storia e la geografia d’Italia, fossero largamente
note a tutti gli italiani e non solo alle
classi più colte, il problema delle terre irredente
non avrebbe oggi bisogno nè di apostoli nè di
propagandisti. Saprebbero tutti che l’Italia politica
non coincide con l’Italia naturale, saprebbero
che al di là del confine politico ma al di
qua della catena alpina vi sono più di ventimila
chilometri quadrati di terre che sono italiane
geograficamente perchè mandano le loro
acque all’Adriatico e sono aperte alle brezze italiche
e ricche di vegetazione meridionale, come
sono italiane per la lingua, la storia, i costumi,
le aspirazioni, gli affetti. Saprebbero che una di
queste terre — la tridentina — è così incuneata
fra Lombardia e Veneto da esservi in queste
regioni importanti località situate assai più a
nord della media latitudine trentina. Saprebbero
che quel mare, che fu detto per secoli il Golfo
di Venezia, è in buona parte possedimento austriaco.
Ed invece non solo il popolino, ma i grandi giornali vi parlano di Trento e Trieste definendole terre d’oltr’alpe; e v’è chi crede che fra Trento e Trieste ci sia un ponte come fra Buda e Pest; v’è tra gli stessi autori di testi geografici per le scuole medie chi proclama esser l’italianità del Trentino limitata alle classi colte; chi crede che per visitare Trieste e Trento occorra sapere il tedesco....
Tutto questo è prova di grande ignoranza, ma in certe nozioni e definizioni errate che si divulgano c’è non solo della fenomenale insipienza, c’è anche mal animo. C’è della cattiveria in chi (credendo così di tagliar corto ad ogni discussione sui problemi d’oltre confine) afferma essere il Trentino una provincia sterile, sassosa, tanto selvaggia e povera da non valere le ossa di un bersagliere italiano.
L’espressione è anzitutto errata geograficamente.
La Val d’Adige, pur racchiusa tra monti che precipitano con pauroso aspetto, è un fiume di verzura; e nelle alpestri valli laterali chi voglia raggiungere le guglie, i pinnacoli, le vette nevose, i sassi insomma, deve avere la pazienza di traversare campi e pascoli e selve immense. È errata l’espressione dal punto di vista economico, perchè il Trentino ha nelle sue viscere dei veri tesori di ricchezza. Ma è sopratutto cattiva. Perchè, se anche il suolo fosse tutto spine e sterpi e brulle roccie, non son di sasso i cuori che lassù palpitano italicamente e si volgono ai cuori dei fratelli d’Italia implorando aiuto.
Il Trentino non è un paese che possa definirsi povero, considerato nella sua potenzialità, e meno ancora può dirsi destinato a impoverire con la sua annessione al Regno d’Italia.
Uno sguardo alle sue condizioni economiche nel secolo scorso, permette di proiettare un po’ di luce sull’avvenire.
Il Trentino appare oggi come un paese agricolo. Esso fu invece un centro industriale di primissima importanza.
Le miniere costituirono pel paese una immensa ricchezza dal 1100 al 1600, tanto che esso si guadagnò il nome di California d’Europa ed ebbe il primo codice minerario di Europa.
Il lavoro minerario dette luogo a copiose immigrazioni di operai, e fu così abbondante e rimunerativo che uno storico coscienzioso fa risalire ad un miliardo di franchi la somma pagata ai lavoratori delle miniere del solo Monte Argentario, presso Trento, nel periodo di cinque secoli.
Miniere e ferriere occupavano ancora migliaia di operai in tutte le valli trentine nella prima metà del secolo scorso, fin verso il 1860.
Fiorentissima era l’industria della seta. Rovereto ebbe per le sue numerose filande fama mondiale e consumava non solo tutto il prodotto di bozzoli del paese, ma buona parte di quello del Veneto e del Lombardo. Nel 1870 ben diecimila persone trovavano occupazione nelle filande trentine.
Accanto al lavoro della seta, esplicantesi nelle filande vi era quello dei torcitori, delle tessiture e delle filature.
Largamente sviluppate erano nel Trentino altre industrie, la concia delle pelli, la fabbrica di carta, la confezione della birra a Rovereto, le raffinerie di zucchero a Trento, gli stabilimenti della lana e della chioderia in Val di Ledro; molti altri prodotti vegetali e minerali, quali il sommaco, la magnesia, lo spato, il gesso venivano lavorati in stabilimenti trentini per l’esportazione.
La piccola città di Ala aveva undici notevoli fabbriche di velluto. Sempre verso la metà del secolo scorso esistevano nelle valli del Chiese e del Sarca parecchie ferriere e fabbriche di vetro. Quella di Pinzolo e quella d’Algone occupavano ciascuna cento operai.
Tutta questa fiorente industria subì un terribile crollo allorchè, con l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, il Trentino veniva, da un’esosa barriera doganale, privato del suo naturale mercato: la pianura del Po.
Fu difficoltata l’introduzione dall’Italia dei bozzoli necessari per alimentare i filatoi. L’industria della seta occupa oggi appena 1500 operai. Le cartiere furono costrette a limitare la loro produzione causa il dazio d’importazione nel Lombardo-Veneto; per la stessa ragione le fabbriche di vetro, di cappelli di lana, di magnesia, di zucchero, private dei mercati italiani, cessarono ogni attività.
Le ferriere giudicariesi non potendo, in causa dei dazii, nè importare il ferro dalla Val Trompia, nè esportare la merce lavorata, cessarono una dopo l’altra. I lavori minerari si sospesero fra il 1860 e il 1870.
Altre cause disgraziatamente concorsero a questo disastroso crollo dell’industria trentina: i commovimenti politici che assorbirono le migliori attività ed energie, le terribili malattie del baco da seta contro cui nulla poteva allora la scienza, i frequenti disastri elementari, tutta una serie di flagelli scatenatisi proprio in quel momento in cui l’industria stava dovunque, mercè le grandi scoperte scientifiche, perfezionandosi, trasformandosi, ingrandendosi e avrebbe avuto bisogno di protezione, di intelligenze, di capitale. Protezione non si ebbe. Le intelligenze più vive dovettero emigrare per sfuggire all’oppressione austriaca; la guerra avea ingoiato uomini e capitali; e per ultimo il secolare e grandioso commercio di transito e di fiere importantissime nella valle atesina, che aveva sempre fatto affluire capitali ingenti, veniva di un colpo soppiantato dalle linee ferroviarie internazionali, rapidamente sviluppatesi in tutta l’Europa Centrale. L’agricoltura che vivea appoggiandosi all’industria della seta e al commercio di transito fu pure trascinata a rovina.
La barriera doganale costringeva il Trentino a rinunciare ai cereali della vicina vallata del Po e ad approvvigionarsi in Ungheria sottostando a enormi spese ferroviarie.
Il paese tutto fu piombato nella miseria più avvilente. Sentì tutta la dolorante verità del grido antico: Guai ai vinti!
Corsero allora tra il 1870 e il 1885 gli anni più terribili, più tristi pel Trentino.
Un governo saggio sarebbe intervenuto, avrebbe compresa la necessità di una pronta azione di soccorso, non foss’altro per non raddoppiare le ragioni del malcontento.
L’Austria no. Essa si mantenne non solo indifferente ed estranea di fronte alla sorte miserevole del Trentino. Gli fu nemica. Al paese che avea bisogno di cure e di medico riserbò solo frustate e carnefici. Lo abbandonò alla furia dissanguatrice dell’amministrazione tirolese.
Nei conflitti economici come nei conflitti nazionali, la popolazione italiana, divenuta dopo il 1866 una quantità trascurabile di fronte ai grossi nuclei di altre razze, fu sempre la Cenerentola. Nella stipulazione dei trattati doganali gli interessi degli italiani tutti, ma specialmente quelli del Trentino, furono sacrificati a quelli dell’intero Stato. L’abolizione famosa della clausola sui vini italiani, avvenuta nel 1892, arrecava all’erario austriaco, nel decennio 1892-1902, un aumento di introiti pel dazio vini di ben cento milioni, mentre il Trentino pel deprezzamento e svalutamento dei suoi vini, danneggiati dalla concorrenza regnicola, perdeva sessanta milioni! Il deputato Antonio Tambosi invano chiese che lo Stato dedicasse poche centinaia di migliaia del lauto guadagno per lenire le conseguenze, della crisi viticola del Trentino.2
Il Trentino, situato all’estrema periferia dell’impero, privato di ogni rapporto commerciale col mezzogiorno, per trovar nuovo campo di smercio ai propri prodotti nell’interno della monarchia e vincere la concorrenza delle regioni moravo-boeme industrialmente progredite da decenni e decenni, avrebbe avuto bisogno di facilitazioni ferroviarie; si trovò invece costretto a subire le tariffe di trasporto più elevate dell’impero per garantire con la complicità del Governo lauti dividendi alle ferrovie private della Meridionale, non comprese nella rete di Stato che alla sua volta offriva all’industria tedesca condizioni privilegiate.
Urgentissima necessità sarebbe stata quella di indennizzare il paese dell’impossibilità di aver grano a buon mercato, sia con l’abolizione dei due dazi — quello provinciale e quello governativo — sia con noli di favore, giacchè il grano ungherese veniva pel trasporto aggravato di una spesa del 20 per 100 del valore del prodotto. Invano si pregò e supplicò. Il Governo austriaco generoso a milioni nel proteggere gli industriali dello zucchero e i produttori dello spirito (che, sia detto fra parentesi, sono tutti principi della casa imperiale) non sacrificò un centesimo pel Trentino.
Anno per anno i deputati trentini al Parlamento deplorarono che nei bilanci dello Stato i contributi dati al Trentino per lavori pubblici rappresentassero, proporzionalmente alla popolazione, appena la terza, la quarta, fin la decima parte di ciò che si dava al Tirolo e in genere alle provincie tedesche. Proteste inutili! I deputati parlarono sempre al vento!
Eppure furono un’inezia i torti fatti direttamente al Trentino dal Governo di Vienna in confronto di quelli che esso tollerò ci fossero inflitti dalla Dieta del Tirolo, costituita con una stragrande maggioranza tedesca, dovuta non a diritto di numero o proporzionale, ma a privilegio di razza. Invano il Trentino chiese di formare una provincia autonoma, di esser sciolto dall’innaturale e illogico legame col Tirolo, e di poter essere arbitro dei propri destini.
Il Tirolo si avvinghiò al Trentino come un polipo mostruoso e per mezzo secolo altro non fece che opera di soffocamento e di dissanguamento.
Servano a conferma di ciò le cifre e i fatti.
Esiste nella provincia del Tirolo un fondo detto di approvvigionamento, destinato ad aiutare i comuni poveri negli anni di carestia, e formato col provento del dazio provinciale sul grano pagato in prevalenza dagli italiani.
La carestia ci fu più e più volte. Ma il fondo non venne usufruito. Lo si adoprò invece altrimenti. Con esso si crearono bellissimi istituti educativi, sanitari, agrari pei tedeschi in terra tedesca, senza alcun compenso pei trentini; si costruirono strade pel Tirolo in proporzione tripla che pel Trentino; si sono dati sussidi ai Comuni tedeschi dieci volte maggiori di quelli dati agli italiani; si sono pagate spese di guerra, indennità ai nobili feudali con esclusivo o prevalente vantaggio dei tedeschi.
Nei bilanci ordinari della provincia il Trentino ebbe annualmente — e ne fu data dimostrazione rigorosa — assai meno di quello che pagava. Nelle spese straordinarie l’appetito tirolese a danno del Trentino non conobbe limiti. La tristamente celebre inondazione del 1882, per constatazione di periti del Governo, recò maggiori danni al Trentino di quel che al Tirolo; ma questo ebbe un sussidio di dieci milioni 880 mila corone, quello di soli due milioni e 166 mila.
Il Tirolo vide costrutte la maggior parte delle sue strade dalla provincia; i comuni del Trentino dovettero invece costruirsi a proprie spese le più importanti vie di comunicazione, spendendo, fino al 1898, quasi dieci milioni di corone, mentre la provincia vi concorreva con sole 141 mila corone!
E la triste rassegna potrebbe continuare!
Un paese così amministrato, così saccheggiato, dirò meglio, in uri periodo di terribile crisi, dovea inevitabilmente andar incontro allo sfacelo.
I comuni, costretti ad assumere a proprio carico grosse spese che doveano esser compito della provincia, dovettero esigere enormi imposte locali e far debiti. Nel 1890 il Trentino avea 23 015 630 corone di debiti comunali e consorziali; il Tirolo, più vasto, più popolato, ne avea solo 14 440 850. Così su ogni cittadino del Trentino il debito pesava in proporzione di 62 corone, su ogni tirolese di sole 32 corone. Il debito ipotecario assunse proporzioni favolose in confronto del valore fondiario. La piccola proprietà fu rovinata. In trentotto anni, dal 1860 al 1898, si ebbero più di trentaduemila aste forzate di lotti di terra del medio valore di 918 corone l’una! Nei due primi decenni si ebbero in qualche annata più di millecento aste all’anno!
L’industria fu semplicemente distrutta. Rimaneva come unica risorsa possibile pel paese l’agricoltura. Ma essa fu, per colmo di sventura, come già accennavo, colpita da un’interminabile sequela di disastri elementari. Solo dopo il 1885, col cessare delle funeste malattie del baco da seta e dell’uva, con l’ingresso in un periodo climatico meno inclemente e con la erezione del Consiglio provinciale d’agricoltura, che ebbe bensì pochi mezzi a disposizione, ma usufruì del beneficio immenso di essere autonomo e indipendente (fu ed è l'unica istituzione autonoma del Trentino!), si notò un risveglio salutare e un ragguardevole progresso nella coltivazione dei bachi, nell’allargamento della produzione vinicola, nell’allevamento del bestiame e nella selvicoltura.
Ma per quanto migliorata l’agricoltura trentina era ed è di gran lunga insufficiente a mantenere la popolazione; per cui venne la necessità dell’emigrazione.
Mancano statistiche sicure per l’emigrazione nei primi anni; ma da un complesso di ricerche si può stabilire che fino al 1890 circa l’emigrazione temporanea in Europa fu da venticinque a trentamila persone all’anno; quella stabile diretta verso le Americhe oscillò da cinque a diecimila all’anno. Per valutare l’importanza dell’emigrazione transoceanica basti sapere che oggi si calcola sieno quarantamila i trentini residenti negli Stati Uniti. Secondo rilievi esatti degli ultimissimi anni la emigrazione temporanea è ora ridotta a ventimila persone all’anno, la stabile da due a tremila.
Sono torme di contadini e montanari laboriosi, sobri, intelligenti che approfittando dell’esperienza di intere generazioni si sono assicurate, traverso mille angustie, senza il sussidio di pubblici o privati provvedimenti, vie proficue nel vecchio e nel nuovo mondo.
Si deve a questa emigrazione se al paese si è sollevato dagli enormi debiti accumulatisi sulla possidenza; e se il capitale paesano — fattosi ora abbastanza copioso e raccolto da molteplici istituzioni bancarie locali — ha fruttato il grande beneficio nazionale d’impedire, o diremo meglio di rendere inutile e superflua la invasione del capitale tedesco.
Accanto all’emigrazione dei lavoratori, altrettanto viva fu quella delle forze intellettuali. A centinaia i figli della borghesia scesero nel Regno per occuparsi nell’insegnamento, ne’ pubblici uffici, nel commercio, nelle industrie, raggiungendo assai spesso posizioni insigni, e rimanendo, esuli nelle cento città d’Italia, come gli ambasciatori del Trentino verso i fratelli redenti.
I primi successi, o dirò meglio, i primi miglioramenti ottenuti nel campo agricolo, l’accumularsi dei primi risparmi dovuti all’emigrazione, l’affacciarsi alla vita delle nuove generazioni, messe direttamente in contatto con la dura realtà, di una magra esistenza che non lasciava speranza a immediate rivendicazioni politiche e obbligava a ricercare i mezzi dello sviluppo nazionale ed economico dentro i limiti della piccola patria, determinarono dopo il 1885 delle arditissime iniziative per una risurrezione industriale del paese.
Alla testa del movimento si mise un uomo del popolo, Paolo Oss Mazzurana, il geniale podestà di Trento, che elaborò un vasto programma tramviario, base prima allo sfruttamento delle ricchezze della regione alpestre e nella applicazione, allora appena intravista, della forza elettrica all’industria additò l’avvenire al paese.
Fu egli — coadiuvato nella divulgazione delle sue idee da Vittorio Riccabona, lucida mente di economista e tempra tenace di apostolo, — fu egli l’ideatore dell’impianto elettrico comunale di Trento che ebbe il vanto di essere la prima grande impresa elettrica municipalizzata in tutta Europa; fu il promotore del rinnovamento edilizio di Trento; come a lui e agli amici suoi spetta la prima organizzazione del credito e il tentativo di promuovere l’industria degli alberghi.
Se non che il Governo, da prima simulatamente, poi apertamente osteggiò con accanimento il programma economico di Paolo Oss Mazzurana.
Del grande programma tramviario e ferroviario solo una piccola parte — e dopo moltissimi anni — fu eseguita e in modo deficiente. La ferrovia della Valsugana fu costrutta anzichè con criteri commerciali, con intenti militari e come ferrovia puramente locale; la tramvia d’Anaunia si ebbe dopo venticinque anni dacchè fu richiesta e il paese vi dovette contribuire con somme esorbitanti. Le congiunzioni col Regno, traverso le Giudicarie, e lungo la riviera del Garda e la tramvia di Fiemme sono ancora nel mondo dei progetti.
Ben serve a illuminare l’azione nefasta del Governo austriaco il suo contegno nella questione della tramvia di Fiemme. Questa valle è la più nordica della regione e la più insidiata dai pangermanisti; è al tempo stesso la più ricca del Trentino per selve, per minerali e marmi, ed è bella quanto lo sono i recessi più belli del vicino Cadore.
Congiungerla con Trento volea dire farla prosperare economicamente e nazionalmente conservarla italiana.
Quando si vide che il Governo, spalleggiato dall’amministrazione provinciale del Tirolo, e dalla città di Bolzano, non volea assolutamente costruire questa ferrovia e tentava invece eseguire un’altra linea che abbandonando la via naturale segnata dal corso dei fiumi congiungesse, con enormi difficoltà tecniche e immenso dispendio, la valle, attraverso un valico alpino con la regione prevalentemente tedesca di Bolzano (nell’Alto Adige) allo scopo di attirare i valligiani di Fiemme in un centro tedesco e così snazionalizzarli, — quando si vide questo, Trento e i comuni interessati furono pronti ad ammannire essi il capitale necessario alla costruzione della linea vagheggiata.
Ma il Governo si oppose invocando il suo diritto di tutela sui comuni per impedire che si assumessero oneri troppo gravi.
Intervennero allora tutti i cittadini di Trento proprietari di case e offrirono garanzia alla città con ipoteca sulle loro case. Il Governo si oppose ancora. In qual paese del mondo si è mai verificata una simile coercizione della libertà economica?
Così per fare opera anti-italiana — per fortuna il Governo malgrado l’aiuto ottenuto da pochi traviati e da mestatori immemori dei loro doveri verso la patria non riuscì nel suo intento — il Governo ha impedito lo sviluppo economico di tutta una valle e con ciò ha danneggiato tutto il paese.
Messo sulla via dell’opposizione a ogni iniziativa locale, il Governo non conobbe più limiti alla sua opera vessatoria e contò sull’aiuto del partito militare, capeggiato dall’assassinato arciduca e dagli eterni nemici del Trentino, i tirolesi.
Questi ultimi divennero sempre più feroci, istigatori di nuovi tormenti, fomentatori di discordie, come se volessero vendicarsi del fatto che il Trentino da loro spogliato e derubato era divenuto così poco redditizio da render loro sempre più difficili le antiche ruberie.
Paolo Oss Mazzurana avea popolarizzato l’idea delle centrali elettriche, perchè mediante essa rifiorissero le industrie; ma appena il Governo vide elaborati progetti per grandiose centrali, creò ostacoli e ne impedì l’erezione. E impedì del pari tutte le altre imprese — filovie, alberghi, ecc. — sorrette o finanziate da capitale non tedesco.
Molta speranza si ebbe — e questa è storia degli ultimissimi anni — nell’industria dei forestieri; ma appena, attratte dalla bellezza dei laghi e delle Dolomiti, si affacciarono le prime correnti di ospiti, intervenne il Governo. Esso aiutò la nascente industria in quanto attirava in paese gente tedesca e sopratutto animata da propositi di germanizzazione; la combattè in quanto portava in una regione italiana ospiti italiani. Per cui ebbero privilegi tutti gli ostieri scesi da Tedescheria, persecuzioni gli albergatori trentini e regnicoli; agli alberghi eretti da tedeschi sia pur in località lontane dall’abitato si concessero linee telefoniche, comunicazioni postali, ecc., agli alberghi italiani si riservò l’opprimente sorveglianza della polizia; ai primi il Governo trovò modo di fate gratuita réclame nelle sue pubblicazioni ufficiose, per gli altri tollerò e incoraggiò anzi la sistematica diffamazione della stampa tedesca; alle società alpine di Germania il Governo concesse ovunque terreni per costruire rifugi e alberghi, negò agli italiani uguale diritto. Incoraggiò i tedeschi a collocare ovunque scritte, segnavia, insegne tedesche; bandì invece come se fossero insegne di petrolieri tutte le tabelle delle associazioni sportive italiane, dal Touring al Club Alpino.
Poichè il movimento dei forestieri esige comode e belle vie il Governo — in passato così trascurante — pensò alla fine a costruirne anche nel Trentino, ma ne affidò il còmpito non a ingegneri civili, sibbene agli ufficiali dello stato maggiore.
Le nuovissime vie costruite nell’ultimo decennio, o hanno esclusivo scopo militare o servono a collegare le vallate nordiche del Trentino con le regioni tedesche, col solito scopo di staccarle da Trento.
Nessuna delle nuove vie tende al cuore del paese, nessuna o quasi agevola le comunicazioni con le provincie del Regno, ove spende il maggior prodotto del paese: il legname. Il contadino che deve portare a spalla di animali e assai più spesso sulle spalle sue le derrate nei paesi d’alta montagna rimane sbalordito nel vedere come invece esistano, strade meravigliose per trainar cannoni sulle più eccelse vette e a ragione si indispettisce quando gli si contende l’uso di quelle vie per trasportare un po’ di legna. V’è una sola razza di gente cui sia lecito, oltre ai soldati, di calcare impunemente quelle strade. Sono i turisti dagli occhiali d’oro, dalle barbe bionde, dal piumotto sul cappello. Ma se per caso vi passa un forestiero italiano, allora sbucano dagli agguati gendarmi, doganieri e soldati che senza pietà ammanettano e portano in carcere sotto l’accusa — mai provata e pur ogni giorno ripetuta — di tradimento. Nè l’avventura che tocca ai malcapitati ospiti regnicoli si risolve in un incidente di poche ore, come di solito avviene presso le frontiere degli altri Stati. Sono assai spesso settimane di carcere che toccano agli incauti e sfortunati.
L’industria dei forestieri si è così risolta nella caccia organizzata all’italiano, nel sussidio sfacciato ai germanizzatori e nell’aumento della prepotenza militarista.
L’azione germanista nel campo di quest’industria non è riuscita a recar danni sensibili nazionalmente parlando; l’industria però in quanto volea richiamare ospiti italiani se non è fallita è rimasta in stadio di incubazione ed in quanto potea avvantaggiarsi degli ospiti tedeschi si trovò inceppata dalla naturale reazione del paese. Così che mentre il Tirolo ha nel concorso dei forestieri la base della sua vita economica, il Trentino non ha avuto alcun tangibile progresso.
L’intrigo pangermanista e militarista ha del resto impedito lo sviluppo del paese in ogni altro campo.
Da anni esistono nel Trentino delle commissioni incaricate di combattere la pellagra. Ebbene la loro opera più importante fu l’erezione di grandi forni provinciali, in tutti i territori di confine, dove non ci son nè pellagrosi e quasi neppur consumatori di pane. Quei forni che portan l’insegna di «forni contro la pellagra» non sono che caserme e depositi militari di confine, abilmente mascherati.
Vi sono poi speciali commissioni e commissari per migliorarci pascoli alpini; anche questi commissari non sono che agenti dell’autorità militare e tendono a ridurre la pastorizia secondo le vedute o i capricci dello stato maggiore.
L’unica grande industria promossa dal Governo fu l’industria delle fortificazioni su cui vissero orde di avventurieri che ingaggiaron sempre o quasi sempre operai stranieri. Il campo trincerato di Trento con le cinquanta opere fortificatorie ha costato al Governo non meno di un miliardo!
Il bilancio delle industrie attuali, che malgrado tanta opposizione poteron sorgere negli ultimi vent’anni sulle rovine delle antiche e in seguito all’impulso dato da Paolo Oss Mazzurana, è ben magro. Nè di ciò è da meravigliarsi. Meraviglia invece che la tenacia degli abitatori, che il loro vivo affetto al paese abbiano potuto dar vita a qualche, sia pur modesto, stabilimento.
L’industria che (astrazion fatta da quelle complementari all’agricoltura) impiega il maggior numero di operai è la tessile. L’industria della seta annovera 7000 bacinelle e 400 telai; la tessitura del cotone si limita a 200 telai. L’industria laniera è buona, ma non va oltre i confini del paese.
Delle altre industrie quella della carta conta tre stabilimenti; quelle minerarie e quelle dei marmi sono in stadio appena iniziale o meglio diremo, di preparazione; quella della lavorazione del legno è appena discreta; fiorente è quella dei concimi chimici; l’industria dei cementi e laterizi è ben avviata, ma con sviluppo assai inferiore alla potenzialità. Si aggiungano altre industrie che servono esclusivamente ai bisogni locali: l’industria molitoria, con parecchi stabilimenti moderni, le fabbriche di birra, l’industria delle pelli. Alcune altre industrie sono tipiche della regione, ma son di scarso valore: l’industria dei giocattoli, quella dei manichi da frusta, ecc.
Un bilancio di industrie, ripeto, e come ognun vede, assai modesto.
Ma cerchiamo di esaminare che avverrà di queste industrie nel caso augurato della annessione del Trentino all’Italia.
Con piena convinzione io credo di poter asserire che l’annessione sarà sotto ogni rapporto vantaggiosa. Le cause stesse dell’attuale decadenza provano come la loro rimozione debba esser ragione di vita e di progresso.
Ma poichè giova distinguere fra le modeste industrie di recente rinate o sviluppatesi; e le industrie appoggiate all’agricoltura (di cui non fu ancora discorso) e alimentate dall’esportazione; e quelle industrie di cui si intravede la possibilità di un grande sviluppo, ma che oggi o sono in stato embrionale o non sono ancora sorte, è bene trattare partitamente delle une e delle altre.
Per le modeste industrie esistenti è evidente che lo spostamento dei confini non avrà valore alcuno, dato che trattasi di produzione destinata nei suoi limiti attuali quasi esclusivamente al paese, e comunque commerciabile nelle regioni dell’Alta Italia che hanno un tenore di vita analogo a quello del Trentino.
Più complicato è il problema dell’economia agricola. Questa consiste precipuamente nella coltivazione della vite, in quella del baco da seta e delle frutta, e nell’allevamento del bestiame. Vi si aggiunge la selvicoltura.
La viticoltura dà una produzione annua da 600 a 700 mila ettolitri. Il prodotto si consuma parte in paese; parte (un po’ più della metà) è destinato all’esportazione nelle altre provincie della monarchia, nella Germania e nella Svizzera.
L’esportazione ebbe momenti di grande fortuna fra il 1885 e il 1892, quando i vini regnicoli, come già accennai, entrando in Austria e Germania pagavano un fortissimo dazio. In questi due Stati i vini trentini erano perciò compensati con ottimi prezzi. Ma allorchè si addivenne alla clausola doganale del 1892 fra l’Italia e i due imperi centrali, fu notevolissimo il ribasso dei dazi; e i vini trentini destinati all’esportazione, subirono sul mercato internazionale una diminuzione di valore dal 20 al 30 per 100.
A determinare tale svalutamento e a mantenerlo concorse un altro fatto. Il commercio vinicolo trentino aveva trovato indiretto vantaggio nella devastazione dei vigneti ungheresi, dovuta alla filossera. La ricostituzione di questi vigneti — non conoscendosi ancora gli attuali sistemi di difesa e di rinnovamento — fu lentissima. Del pari in quegli anni era ancora poco progredita la viticoltura nell’Istria, nella Dalmazia, nell’Austria inferiore. Di qui la momentanea fortuna del mercato vinicolo trentino. Ma le cose si cambiarono. L’Ungheria ha ora dei vigneti meravigliosamente ricostituiti; l’enologia delle altre provincie austriache è stata più protetta di quella trentina. Il Trentino ha così di fronte — nell’interno della monarchia — concorrenti notevoli.
Se si tiene inoltre conto di altre circostanze che qui sarebbe troppo lungo enumerarle (basti l’accenno alla recente legge austriaca sulla confezione del vino che di giorno in giorno vien soppiantando, a tutto beneficio della birra, il commercio dei vini ordinari), si capirà come un po’ alla volta dovesse penetrare nella coscienza del paese la convinzione che si era andati troppo avanti, spinti dal miraggio dei guadagni, nell’estendere la coltivazione della vite anche a terreni non adatti e in zone troppo elevate e a farne in qualche luogo quasi l’esclusiva risorsa. Oggi è la triste realtà che parla. L’industria enologica è in decadenza. Le grandi cantine cooperative sono in crisi e minaccian la chiusura; gli stabilimenti più antichi cercano di ridurre la loro attività; di nuovi non ne sorgono; e i prezzi di vendita delle uve, nella loro media, sono pel contadino appena appena rimunerativi.
I vini fini, i vini tipo continuano ad essere ben quotati; ma è la produzione maggiore, quella costituita da uve ordinarie che si acquisiscono di solito a Vienna, in Germania e in Svizzera per consumo immediato sotto forma di sidro, che stenta a trovar compratori.
E non si trascuri questo fatto: che molti commercianti trentini già da anni trovano conveniente servire la loro clientela tedesca con le uve che direttamente essi inviano dal Veneto, ove hanno eretto proprie filiali.
Si presenta perciò inevitabile nel Trentino, indipendentemente dalla questione politica, la graduale trasformazione della coltura del suolo.
Ed è non solo possibile, ma relativamente facile. Altre colture dànno affidamento di miglior avvenire.
La coltivazione dei bozzoli dopo la crisi sericola iniziatasi verso il 1870 era stata trascurata. I contadini gareggiavano nell’abbattere i gelsi. Oggi invece, vinte le malattie del baco e del gelso, si lavora a ripiantarli. La produzione annua di bozzoli era nel 1895 di un milione e 600 mila chilogrammi; oggi è precisamente raddoppiata e, dato il miglioramento della qualità, è aumentata di valore. Il valore suo è di dieci milioni di corone all’anno. E vi è modo di proseguire e le stesse autorità agricole austriache spingono ora su questa via ed hanno dato magnifico sviluppo alla confezione del seme bachi. Inutile aggiungere qui che il mercato dei bozzoli è l’Alta Italia e la soppressione delle barriere sarà quindi vantaggiosa per la bachicoltura.
La frutticoltura è pure nel Trentino assai promettente, ma il suo valore effettivo sta nella produzione di mele, pere, di frutta cioè assai apprezzate in Germania, che sono speciali, tipiche della zona montana prealpina e lo son perciò del Trentino, dell’Alto Adige, del Friuli, ecc.
Il commercio degli erbaggi — pure notevole — è e sarà favorito dalla minor distanza dei mercati tedeschi e vi è ragione a credere che per le verdure come per le frutta non subentrerà alcuna decadenza nell’esportazione, a meno che non si verifichi un’analoga condizione per tutte le regioni italiane che largamente esportano e che i tedeschi rinuncino per l’avvenire ai buoni prodotti del mezzogiorno e si accontentino dei frutti del pino.
V’è infine l’allevamento del bestiame. Anche questo non ha avuto che danni e dalla linea di confine e dai sistemi del Governo austriaco.
L’allevamento è assai lontano dall’avere quello sviluppo che potrebbe raggiungere e raggiunse un tempo. Si hanno nel Trentino abbondantissimi pascoli estivi nell’alta montagna; scarseggiano invece i foraggi per l’inverno. Di qui la necessità di ospitare nell’estate le mandrie bovine delle provincie lombardo-venete e di mandar nell’inverno il bestiame minuto del Trentino verso il mezzogiorno.
Questo ricambio è avvenuto per secoli; ma il Governo austriaco, diffidente, gretto, pauroso, sospettando in ogni pastore regnicolo un ufficiale travestito, pretendendo che nè un uomo nè un armento tocchi i pascoli nel vasto raggio dei suoi forti e dei suoi campi trincerati, ha brutalmente spezzato questa naturale economia.
Oggi il Trentino ha un minor numero di bovini di quel che avea nei decenni scorsi, ed ha inoltre perduta in buona parte la temporanea introduzione delle mandrie dal regno con immensa perdita di parecchi comuni che vivevano dell’affittanza dei pascoli.
L’industria dei latticini è nel Trentino ancora embrionale, mia è suscettibile di grande sviluppo.
Qua e là nella media montagna molti campi coltivati a mais — destinato ad essere sempre raccolto immaturo! — attendono una più razionale coltura a prato, coltura difficoltata finchè i prezzi della polenta e del pane (e si noti bene: a base di calmiere governativo!) saranno in causa dei dazi speciali dell’amministrazione tirolese, del 20 e del 30 per 100 più elevati che non in qualsiasi località del regno.
Inutile indugiarci a dire della selvicoltura. Il 48 per 100 del suolo trentino (la cui superficie è di 6350 chilometri quadrati) è coperto da selve. Il legname pregevolissimo del Trentino, preferito a quello stiriano e carintiano, si esporta in Italia pel valore annuo di quattro milioni di corone. Se esistessero quelle strade e ferrovie che il Governo austriaco, ostinato a congiungere il Trentino col nord e a tenerlo staccato dal sud, nega testardamente, l’esportazione del legname potrebbe esser molto più redditiva.
Messi sulla bilancia il pro ed il contro, ognun vede che le piccole perdite che nell’economia del suolo — data l’annessione del Trentino al Regno — si avrebbero con un acceleramento forzato della trasformazione della coltura a vite in altre colture, sono largamente compensate da ben maggiori, sicuri e duraturi vantaggi.
Se non che l’avvenire del Trentino non sta solo nei prodotti del suolo. Il Trentino ha tutte le premesse necessarie per tornare ad essere un paese eminentemente industriale. Ha carbone bianco, ha ricchezza di materie prime, ha cervelli e braccia di lavoratori intelligenti, tenaci.
Non ha bisogno che di una cosa: di esser libero. Di avere un Governo che sia umano, che lo aiuti, che se non vuole aiutarlo almeno lo lasci fare da sè.
Da Vienna non vennero che proibizioni, divieti, ostacoli. La parola di Vienna suonò solo e sempre proibizione al sorgere di una grande industria trentina, all’addensarsi di masse operaie sui confini dello Stato, ai rapporti commerciali del Trentino con la madre patria, alla partecipazione del capitale non tedesco ad imprese trentine.
Tale non sarà la parola di Roma. Perchè permettere alle alpestri valli trentine di svilupparsi industrialmente, sarà reciproco vantaggio del Trentino e dello Stato italiano.
Secondo recenti dati degli i. r. uffici idrotecnici dello Stato il Trentino può disporre di circa 250 mila cavalli elettrici di forza idraulica.
Per 170 mila cavalli esistono già progetti studiati ed elaborati da vari ingegneri. E pei molti progetti v’era la finanziazione, se il Governo austriaco non avesse pronunciato sia per l’esportazione della forza, sia per lo sfruttamento in paese, il suo testardo: Verboten!
Con la redenzione politica il Trentino sarà messo in grado di fruire di quei vantaggi che mercè la ricchezza d’acqua hanno conseguito varie zone ad esso immediatamente confinanti ove son sorte la centrale elettrica di Bagolino, quella di Fonzaso ed altre grandiose che lanciano la loro energia fin nel cuore delle terre lombarde.
Questa del carbon bianco è una immensa ricchezza che ora giace inerte, non servendo i 20 mila cavalli fino ad ora sfruttati nel Trentino, che all’illuminazione, alle piccole industrie locali e ad una tramvia elettrica.
Tanta copia di energia elettrica permetterà di richiamare in vita molte delle industrie scomparse dopo il 1860 e di farne sorgere di nuove. Adattatissimo si presenta il Trentino per le varie industrie elettro-chimiche; hanno poi possibilità di grande sviluppo la lavorazione del legno, la fabbricazione di cellulosa e pasta di legno — tanto ricercata in Italia — e le fabbriche di cemento.
Già da qualche tempo è in studio il quesito della ripresa delle miniere argentifere del monte Argentario ed un progetto benevolmente accolto dai tecnici competenti e pressochè completamente finanziato alla vigilia della guerra, lascia intravvedere uno sviluppo grandioso ed una decisiva influenza per la esplorazione di altri estesi giacimenti metalliferi non ancora sfruttati.
Delle piccole o medie industrie attuali, parecchie hanno prospettiva di maggiore incremento quando il loro mercato naturale sarà l’Italia. Vanno ricordate le fabbriche di birra, le industrie della magnesia e delle argille, quelle del gesso e della calce idraulica, ecc.
Molte altre industrie — fra cui primissima quella della pietra che vanta nel Trentino infinite varietà di bellissimo materiale — attendono la loro risurrezione dallo sviluppo delle comunicazioni ferroviarie.
Comunicazioni non solo indispensabili per congiungere le vallate con Trento che è il cuore del paese, ma per avvicinare la regione tutta ai centri di Lombardia e del Veneto, per avvantaggiare i commerci e le industrie di queste regioni.
La esistente ferrovia della Valsugana fu volutamente costrutta e organizzata dall’Austria in modo da esser ridotta — malgrado l’esistenza della ferrovia italiana dal confine a Venezia — a una poverissima linea di comunicazione interna, senza alcun valore internazionale.
Gli stessi industriali e i commercianti dei luoghi attigui al confine di Tezze-Primolano sono costretti ad avviare le loro merci dirette nel Veneto non sul breve percorso dal confine a Venezia, ma sul tratto dal confine a Trento, usufruendo qui della ferrovia del Brennero fino a Verona.
Domani quando la ferrovia della Valsugana sarà tanto sul territorio trentino come su quello veneto gestita dallo Stato italiano, servirà ad avvicinare al Trentino i mercati del Levante, dell’Oriente, dell’America, a permettere al paese di procurarsi in condizioni favorevoli le materie prime e a poter produrre articoli destinati ad esser esitati sul mercato libero, in concorrenza con la produzione di altri paesi stranieri.
Rifioriranno le antiche industrie nelle valli giudicariesi quando — come ormai chiedono da quaranta anni! — saranno congiunte a Brescia. La corrente dei forestieri e il movimento dei commerci avranno speciale impulso dalla costruzione della Gardesana, da Verona a Malcesine e Riva, il cui progetto accolto dal Governo italiano fu sempre osteggiato dallo stato maggiore austriaco. Altrettanto dicasi per gli allacciamenti stradali e ferroviari della regione alpestre trentina con le provincie di Vicenza e Belluno. E finalmente se, come ormai pare assicurato, la navigazione fluviale italiana prenderà quello sviluppo che è imposto dai tempi, Riva sul Garda, a soli quaranta chilometri da Trento, a venti da Rovereto, avrà diretta comunicazione col mare!
L’entrata in azione del Trentino nel campo dell’industria italiana avrà il vantaggio di succedere in un momento in cui le altre regioni più vicine alla metropoli lombarda, dotate di abbondante mano d’opera e ricche di energia elettrica sono pressochè esaurite nella loro potenzialità nell’uno o nell’altro senso.
Nè ultimo coefficiente al futuro progresso del Trentino saranno la laboriosità e l’intelligenza del lavoratore trentino e l’attitudine ad organizzarsi che ha mostrato di avere il capitale trentino.
Sopratutto faciliterà il risorgimento dell’industria la possibilità di usufruire di leggi concordanti con l’indole, col carattere nazionale della popolazione, che malgrado un secolo di dominio straniero, si è dimostrata organicamente incapace di adattarsi alle leggi industriali, commerciali, sociali fatte da un governo tedesco e per un popolo abituato a ridurre tutto a vita di caserma. Quante e quante leggi industriali sono rimaste, col forzato assenso dell’imperial governo, lettera morta pel Trentino!
Due leggi dello Stato italiano — per non accennare che a quelle che interessano un maggior numero di popolazione — costituiranno pel Trentino un grande ed immediato vantaggio: la legge militare, per cui il servizio è in Italia assai meno pesante che in Austria, ridotto a minor numero d’anni, e con esenzioni pei figli unici e per numerosi casi che la legislazione austriaca non contempla, e con facilitazioni agli emigranti che così ritornano in patria, anzichè abbandonarla per sempre o fino ad età avanzatissima; e la buona legge sull’emigrazione, che proteggendo efficacemente il lavoratore, mentre la legge austriaca non fa che vincolarlo nella sua libertà, gli consente maggiori successi e guadagni.
Lo sviluppo industriale della regione trentina sarà tanto più facile in quanto che pochi paesi sono stati oggetto di illustrazione e di minutissime ricerche fisico-naturali, quanto il Trentino.
In queste ricerche sta la base, sta la premessa, indispensabile per una rapida azione nel campo delle applicazioni industriali, come sta la prova dell’affetto filiale che tanti studiosi trentini, pur costretti a ramingare pel mondo, hanno avuto per la loro terra natìa; affetto che fu comune al popolo tutto, affetto che non si cristallizzò mai in un gretto regionalismo, ma che trasse la sua forza, la sua vitalità dal sentimento di solidarietà con la grande patria italiana.
A questa tendon oggi le braccia tutti i figli del Trentino; alla sua grandezza anelano dare tutte le loro tenaci energie come sempre dettero i palpiti del cuore, come pel suo trionfo daranno domani lietamente la vita.
fine.