Abissinia/Capitolo V
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CAPITOLO V.
Tracce della rivoluzione. — Visita al villaggio di Asmara. — La chiesa. — Cambio dei buoi. — Sistema di fare il pane. — Godofelassi. — Un compagno ammalato. — Arrivo del corriere reale. — Lettera di re Giovanni. — Guda-Guddi. — Il campo di battaglia. — Il soldato abissinese. — Un accampamento della carovana. — Il Mareb. — Tipi che ci accompagnano. — Arrivo in Adua. — Prima impressione.
Domenica 16 alla mattina non abbiamo che 4 gradi. In una girata di caccia trovo poco da ammazzare, ma molto di ammazzato, chè le tracce delle ultime rivolte di questa provincia sono abbastanza palesi dalle ossa e dai cranii che stanno ancora sparsi sul suolo: In questa stagione tutto è arido, l’aspetto generale è desolante. Essendo questo il primo villaggio assolutamente dipendente dall’Abissinia, riceviamo una visita di un preteso direttore delle dogane che ci presenta del latte e un montone, ed assicurato da Naretti che non siamo negozianti, ma semplici viaggiatori diretti al re, ci dichiara esenti dai suoi diritti.
Più tardi vediamo avanzare al gran galoppo due cavalieri avvolti nell’elegante manto bianco tagliato da una gran striscia scarlatta, e seguiti da parecchi ragazzotti che correndo portano i loro fucili e i loro scudi. Sono messi del governatore che desidera una nostra visita, ma ce ne scusiamo per mancanza di tempo, abitando lui a circa tre ore, e Naretti gli invia in regalo un parasole e un pacco di candele.
Vado al villaggio, che è tutto bruciato e solo resta qualche misero avanzo di capanne costrutte con fango e paglia, abitate da povera gente avvilita e macilenta. Sulla vetta dell’altura è la chiesa che ottengo permesso di visitare. Per una porticina si entra in un recinto circolare che serve da cimitero, e al centro sorge la chiesa rettangolare, bassa, col tetto piatto, molto rozzamente costrutta con legni e pietre: sul davanti un corpo più stretto forma quasi un peristilo murato negli intercolonnii e racchiudente una piccola camera le cui pareti dipinte con arte assai primitiva, rappresentano episodii di storia sacra, fra cui spicca la Vergine e san Giorgio. Da questo si passa nel grande ambiente diviso da grossi pilastri in tre navate, delle quali parte della centrale è chiusa da muri e riservata alle funzioni religiose; il resto pel pubblico. Qualche messale, semplici leggii in ferro, rozzi tamburi, stavano ammucchiati in un angolo. La luce non entra che dalla porta e da alcuni buchi praticati nei muri. Fuori della chiesa ad una trave sostenuta da due tronchi, pendono legate con strisce di pelle da bue tre pietre oblunghe: sono le campane, che percosse con altra pietra producono tre suoni differenti ed acuti. È molto interessante questa costruzione per la sua originalità, e perchè tanto internamente che esternamente, colla differenza che passa fra un nano ed un gigante, presenta per altro qualche analogia cogli antichi templi egiziani.
Dovendoci qui procurare nuovi buoi, siamo obbligati di passarvi tutta la giornata sempre in continue contese.
Abbiamo un guaio curioso fra i nostri servi, due dei quali sono mussulmani e gli altri cristiani, e i primi non mangiano bestie ammazzate dai secondi, e viceversa, e in un paese dove bisogna farsi la propria macelleria in casa, c’è così sempre qualcuno che resta digiuno. Anche le nostre provviste di pane sono esaurite, ed alcune donne ci fabbricano il pane col sistema del paese, come vedemmo a Keren. Le prime volte lo stomaco Campane abissinesi quasi vi si rifiuta, ma il condimento dell’appetito finisce per far gustare molte cose che da noi farebbero ribrezzo.
Lunedì 17. Grandi noie ancora per i buoi che ci vengono rifiutati, ma finalmente dichiariamo che le casse contengono regali pel re, e che se si persiste a non volerle trasportare a prezzi onesti, partiremo soli colle nostre mule, lasciando il bagaglio in consegna al capo della dogana; faremo i nostri rapporti e il re obbligherà poi al trasporto gratuito. Così potemmo decidere questi mascalzoni a caricare e alle quattro la carovana era tutta in moto. Il terreno è leggermente ondulato, poca vegetazione, solo moltissime agave cariche di fiori giallognoli e rossastri.
Attorno a noi si stende una grande pianura interrotta da qualche lieve altura, e allo sfondo bassi contorni di montagne. Dopo due ore, al tramonto, ci fermiamo davanti al villaggio di Aduguadat. Un altro villaggio avevamo passato a circa mezza strada: sono aggruppamenti di capanne piantati sempre, per maggior difesa, sulle vette delle alture: le costruzioni basse, a tetto piatto in terra, per cui difficilmente si distinguono dal suolo sparso di rocce vulcaniche. La popolazione è generalmente brutta, coperta da logori cenci, e solo raramente dal pittoresco manto bianco e rosso: la loro tinta è il marrone: la testa alle volte rasa completamente, alle volte solo in parte, oppure molto originalmente pettinata, formando una sottilissima treccia che gira tutta la periferia, e dividendo il resto in un’infinità di altre piccole trecce che dal fronte scendono alla nuca, le donne; e in cinque grosse trecce, egualmente disposte, gli uomini.
Dalla posizione di ieri siamo discesi una cinquantina di metri.
Martedì 18. Prima di partire, i condottieri dei nostri buoi vogliono farsi il loro pane: divisa la pasta in bolle, nel mezzo di ognuna introducono una pietra riscaldata al fuoco ottenuto con sterco vaccino essicato, non essendovi legna, poi pongono sulla brage la bolla che così cuoce esternamente ed internamente. Partito il bagaglio, alle otto e mezzo ci incamminiamo noi pure. Per più di due ore si prosegue di altura in altura, salendo e discendendo in modo da mantenersi in media presso a poco allo stesso livello.
La vegetazione va leggermente aumentando: prevalgono acace ed ulivi, torna qualche euforbia, qualche cactus, dei peschi selvatici. Verso le undici siamo all’estremità di questo altipiano, e ai piedi della discesa che ci sta davanti ci si presenta ancora una vasta pianura che ben da lontano si vede chiusa da altri monti ancora: ai nostri lati profonde vallate sempre collo stesso carattere. Ci è forza fare a piedi la ripida discesa, e alle dodici e mezzo ci accampiamo al principio di questo nuovo altipiano, ai piedi dell’altura su cui sta il villaggio di Sciket, sotto un secolare ulivo. In complesso però fa molto difetto la vita sì vegetale che animale, e da questo lato confesso che da quando ponemmo piede nell’Amassen, ebbi una gran disillusione su questo paese: speriamo che avanzando cambii, e torni conforme alle lusinghe. Il capo del villaggio ci ingiunge di ripartire perchè tutte le nostre bestie gli distruggono il poco di erba che ancora avanza; ma noi non ci muoviamo ed è la sola risposta che gli facciamo avere. Siamo a circa 2050 metri.
La sera grandi fuochi, chè si pretende abbondino i leoni, che hanno però il buon senso di non farci neppur sentire il loro ruggito.
Mercoledì 19. Alle sette e mezzo in cammino: sempre lo stesso carattere, acace in pieno fiore ed un altro arbusto dal fiore odoroso che tiene della dafne e del gelsomino. Per un breve riposo ci fermiamo presso dell’acqua, all’ombra di un enorme sicomoro il cui tronco misura dieci metri di circonferenza, ed i cui rami, scendendo fin quasi a terra, formano un ombrello di centocinquanta metri alla periferia. L’acqua è l’elemento che più manca in questo paese: mai se ne incontra di limpida e corrente, e solo nei punti dove facciamo stazione ve ne è qualche deposito in fondo a crepacci del suolo o ad avvallamenti: sempre però acqua torbida, fangosa e puzzolente. Il terreno e le rocce sono quasi sempre rossastre, ciò che prova la presenza del ferro: sparsi infatti, sono dei rognoni ferruginosi, roccie quarzose e di quando in quando bellissimi prismi basaltici. Strano è il carattere generale delle alture, tutte a profili e strati orizzontali, interrotti solo nella loro monotonia da qualche cono perfettamente regolare che si innalza qualche volta immediatamente dal livello dell’altipiano, qualche volta invece dal profilo orizzontale stesso delle alture che ci rinserrano.
Dopo la breve fermata abbiamo un’erta salita che ci porta ad un villaggio abbandonato: l’ultima guerra civile, le stragi, le malattie che ebbe per conseguenze, spopolarono quasi questa provincia altre volte floridissima.
Lentamente discendiamo fra alture, ed attraversato ancora un altipiano, accampiamo in località detta Toraemmi, a 1960 metri. Sulle alture prevalgono sempre le euforbie, al basso l’erba essicata è ancora poco meno di due metri d’altezza, ciò che lascia immaginare quanto di splendido dev’essere questo paese subito dopo l’epoca delle piogge.
Ci si dice non esservi pericolo di fiere, per cui la sera tralasciamo la guardia, ma dopo qualche ora di sonno un gran baccano ci sveglia, e troviamo tutti in armi e in agitazione. Una banda di ladri venne per far bottino, ma spaventata dal numero delle tende forse, e da qualche fucilata, se la diede a gambe. Nessun altro incidente, nella notte, fuorchè una jena che attaccò una mula, e il continuo gridare delle sue compagne e dei sciacalli.
Giovedì 20. Per essere pronti a qualche agguato che ci possono aver teso i galantuomini della notte scorsa, facciamo pro cedere la carovana riunita e noi ci dividiamo alla testa, al centro e alla coda.
Sempre la stessa natura che offre poco di interessante e di piacevole: quasi insensibilmente si va discendendo su terreno leggermente ondulato. Raggiunto un vasto altipiano in gran parte coltivato a dura, alle dodici e mezzo mettiamo il campo presso il villaggio di Godofelassi. La popolazione viene in massa a circondarci, a spiare e mettere ad ogni prova la nostra pazienza. Dapprincipio ci negano l’acqua per abbeverare le nostre mule, ma colla fermezza otteniamo questa concessione. Villaggio e abitanti sono il vero emblema della miseria. Le case sono costituite da una siepe od un muro circolare alto poco più di mezzo metro, e coperto da un tetto conico di paglia: mobilia nè attrezzi niente; un disordine e un sudiciume superiori ad ogni credere: nel centro del villaggio la chiesa, di costruzione eguale alle abitazioni, ma più grande con una croce cofta al vertice del tetto, e circondata da euforbie popolate da centinaia di piccioni che si ritengono sacri e che nessuno oserebbe toccare. Molti di questi però, ignari d’un asilo tanto sicuro, abitano le campagne circostanti, e ci forniscono un eccellente pranzo.
I nostri boari di Asmara finiscono qui il loro servizio e ci domandano un prezzo enorme per proseguire, quindi sarà forza procurarcene altri e perdere ancora almeno domani per le trattative.
Venerdi 21. Il villaggio visitato internamente è piuttosto vasto, ma meschino, senza nessuna regolarità di vie. Ogni capanna o gruppo di due o tre di esse è circondato generalmente da uno steccato; c’è pochissima vita, nessuna industria: solo alcune donne mischiando fango a sterco e paglia tagliuzzata, costruiscono dei grandi vasi a forma di botte, in cui conservano le loro provviste di grano. Sono questi assai originali e non Dado interno di chiesa cofta abissinese meno pratici: costituiti da una serie di anelli dell’altezza di circa 25 cent. ciascuno, man mano che la provvista di grano diminuisce, si vanno levando anelli, impiccolendo così il contenente e rendendo più comoda l’estrazione del contenuto.
La chiesa è originale: la croce che sta sul tetto porta agli estremi delle sue braccia delle uova di struzzo; la circonda il cimitero racchiuso da una cinta: la costruzione circolare; sul davanti la porta d’entrata: il muro esterno alto circa due metri e concentrico a questo un altro muro, lasciando così un anello di spazio, largo un paio di metri, pel pubblico. All’interno poi, ancora in muratura, un dado di forse quattro metri di lato, riservato ai preti: le pareti tutte dipinte come si può dipingere dove l’arte è meno ancora che bambina: sulla porta l’Angelo della Giustizia, ai due lati la Vergine, san Giorgio, ornati e putti.
Vedendo i fuochi fumare pensiamo alle casseruole, e in un breve giro di caccia riportiamo una massa di piccioni, tortore, pernici di diverse e stupende qualità, e lepri. Un reggimento di ragazzetti ci seguono offrendosi a portare la caccia per avere le cartucce bruciate che per loro sono qualcosa di splendido, come curiosità e come ornamento da appendere al collo.
Mentre pranziamo alcuni bambini ci danno lo spettacolo di una finta lotta, simulando attacchi e parate con tanta maestria ed atteggiandosi con tanta eleganza e tanta disinvoltura, da ricordarci i gladiatori nel circo, mostrandoci come sia innata in questa popolazione la passione del maneggio nelle armi.
Sabato 22. Stiamo aspettando i buoi, ma arrivano invece soli i loro padroni che ci invitano a preparare le casse ben divise e legate per partire domani per tempo: per quanto strepitiamo bisogna rassegnarci alla loro volontà. Alcuni che si pretendono autorità del paese vengono di quando in quando, sempre seguiti dal servo che porta le armi, a confabulare promettendoci la loro assistenza, ma tutto questo non per generosità loro, ma per carpire qualche regaluccio. Non ho mai visto gente più indiscreta, insistente e interessata di questa.
Una ventina di pretesi soldati, parte a piedi e parte a mulo, partono per inseguire un ladro che si dice fu visto nei dintorni: sucidi e laceri marciano nel più perfetto disordine: chi armato di fucile, chi di lancia, chi di spada, tutti poco vestiti, ma tutti diversamente vestiti, ricordavano insieme una mascherata e una compagnia di banditi.
È frequente un cespuglio spinoso, a foglia grigia, elegante, coperto da fiori gialli, e leggermente odorosi, che dal nostro dizionario pare dovrebbe essere un cheirantus.
Originali sono degli ombrelli di paglia intrecciata, piatti, di circa 60 centimetri di diametro, portati da un bastone infitto al centro, dei quali usano, con tutta serietà, i più rispettabili capi di famiglia e spesso i preti per difendersi dal sole.
Domenica 23. Di buon mattino si comincia a veder arrivare qualche bue, ma i loro padroni accampano muove pretese, dicendo le casse più pesanti di quanto credevano, volendo essere pagati anticipatamente, e così gridano, strillano, questionano, che davvero sarà benedetta la mano che userà lo staffile o meglio un po’ di corda con questa gente senza buona fede, inerte, indolente, cattiva. Finalmente si riesce a caricare, ma siamo alla solita storia dei buoi cattivi, e persino il buon Naretti perde la pazienza quando vede andar a rotoli due delle sue casse e farsi una vera insalata delle sue biancherie coi vasi di legumi e conserve che aveva custodite con ogni riguardo, facendosi una festa di assaporarle forse fra qualche anno. Montiamo noi pure a mulo, ma il Tagliabue, indisposto da un paio di giorni, è impotente a reggervisi, la testa gli gira, la vista gli si confonde, grida che è cieco, che cade, l’occhio ha vitreo, il viso si fa verde, bisogna prenderlo giù di sella e sdraiarlo per terra. Dopo qualche riposo si tenta e ritenta la prova, ma sempre di male in peggio. Cerchiamo in paese un angareb per trasportarlo, non se ne trova; si fanno patti allora con otto uomini che costruiscano una lettiga e pensino a portarlo. Molto male, ma la lettiga si fa; ma questi mascalzoni pretendono essere pagati prima di partire. Le casse coi talleri sono già avanti, quindi lo facciamo dire promettendo pagare la sera: non accettano e noi ordiniamo ai nostri servi di prendere la lettiga, ma questi vigliacchi alzano i bastoni sui nostri servi. Fortunatamente Naretti giunse ad appianare la questione che per poco avesse continuato finiva colle fucilate. Dovemmo però lasciare la lettiga, e il nostro malato proseguì parte a piedi, parte a mulo, sempre sorretto da alcuni servi.
Proseguiamo nell’altipiano, passiamo qualche altura e dopo un paio d’ore vediamo issate le tende: sono i servi che visto il nostro ritardo, pensando stesse male il nostro compagno, fecero alt. Non dobbiamo essere molto discosti dall’abitato, perchè v’è coltivazione, ma villaggi non si vedono. La posizione è detta Anahaiella.
Lunedì 24. Il Tagliabue non è in grado di montare la sua mula ed in un posto isolato come questo è impossibile tener ferma la carovana in attesa di un miglioramento che non si sa quanto potrà farsi aspettare. Combiniamo quindi coi pali delle tende ed una amaca, una spece di barella nella quale lo adagiamo e lo facciamo trasportare da quattro servi. È triste trovarsi in simili circostanze, e vedere un giovane pel quale si ha stima ed affezione, pieno di speranze e di attività pochi giorni prima, ridotto in tale stato, senza possibilità di prestargli quelle cure che l’amicizia suggerirebbe e il caso richiederebbe, e pensare alle tristi conseguenze dell’avvenire.
La carovana procede lenta e silenziosa, le difficoltà del terreno rendono maggiormente penoso il trasporto pei porta tori e pel povero ammalato pel quale ogni scossa è uno strazio, e per conto mio, dico il vero, non poteva guardare quella barella senza sentirmi spuntare le lagrime, e rattristare da una folla di pensieri che amareggiavano ogni ora più questa giornata.
Ci andiamo insensibilmente innalzando su un piano inclinato, alla fine del quale una forte discesa ci porta in altro altipiano. Sempre la stessa natura, poche piante e in gran parte acace, fieno altissimo: di quando in quando qualche tratto dove l’evidenza del ferro si oppone a qualunque vegetazione. Verso mezzogiorno troviamo la testa della carovana ferma in un punto detto Adicasmu, presso la prima palma che mi è dato incontrare in questo paese: esile, ma ricca al piede di numerosa famiglia, forma un gruppo elegante e pittorico che vedo con piacere come tipo di vecchia e simpatica conoscenza. La tappa fissata per oggi sarebbe più avanti, ma non vi troveremmo legna, per cui acconsentiamo a fermarci qui, colla promessa di acquistare domani il tempo perduto.
Verso le cinque arrivano tre cavalieri, che entrano nel nostro campo, scendono di sella e si presentano a Naretti. Sono latori per quest’ultimo di una lettera di re Giovanni che dovevano portargli fino a Massaua: tutti accorriamo, appena si sparse la notizia, a sentire delle nostre sorti, e la signora Naretti ci fa da interprete. La lettera presso a poco suona così:
«Mando il buon giorno a te ed ai tuoi amici.
»Io non sono il padrone di questo paese, che appartiene a Dio, e solo mi è concesso di governarlo: tutta la gente buona è quindi libera di entrarvi. Ho avuti molti altri bianchi, ma ho dovuto persuadermi che fanno molte promesse e mantengono poco, per finire poi ad immischiarsi negli affari religiosi, ciò che io non tollero, perchè stimo buona la religione del mio popolo e non voglio che la cambii. Ma questi sono italiani come te, e tu sei tanto bravo e onesto che i tuoi compatrioti devono esserlo pure loro. Siate dunque i benvenuti.»
Nella sua semplicità questa lettera non poteva essere più cordiale, e lusinghiera per noi. Il povero Naretti ne era commosso e le lagrime gli spuntavano dalla consolazione: era un vero trionfo per lui, e può seriamente gloriarsene e compiacersene. Noi ne fummo felici e per Naretti, e per l’avvenire nostro e pel decoro del nome italiano. Per quanto bene dica, non riescirò mai a dare una idea della lealtà del carattere, dell’abnegazione a nostro riguardo e della stima che seppe accappararsi in paese il bravo nostro Giacomo Naretti, e in nessun modo potrò esternargli la mia riconoscenza per quanto ha fatto per me e per la spedizione tutta. E questa riconoscenza sento che vorrei pure esternarla al bravo suo fratello Giuseppe che ora venne a stabilirsi in Abissinia, e alla signora Teresa moglie a Giacomo, che ci fu pure compagna di viaggio, sempre così cortese con noi, e che tanto mi fu utile per cento e cento informazioni. Figlia ad una abissinese e ad un europeo, prese dalla madre una leggera tinta delle donne del paese e dal padre i germi di civiltà che in terreno così vergine trovarono campo propizio allo svilupparsi con tutto il rigoglio di una vegetazione tropicale. Ella è colta, è gentile, parla quattro lingue del paese e due europee, ha il coraggio di tentare tutto e in tutto riesce, è una vera perla pel bravo Naretti. E tutto questo seppe diventare per esuberanza di talento e per forza di volontà, senza aver mai messo piede fuori dal suolo abissino, su cui nacque.
Martedì 25. Partiti alle sette e mezzo, dopo un’ora passiamo il villaggio di Adi-hualala, meschino come gli altri tutti. Qualche lieve altura, poi avanziamo al centro di un altipiano in cui va sempre più diminuendo il carattere di sterilità, e vi si vedono sparsi grossi ficus dealbata.
Dietro noi si svolge un estesissimo panorama di tutto il paese che abbiamo attraversato. Giunti ad un certo punto ci troviamo quasi per sorpresa al limitare di un precipizio: siamo sull’estremo spigolo dell’altipiano, che finisce con una vasta parete semicircolare e quasi verticale di colonne basaltiche: ai due lati le due braccia si protendono per finire pure a scaglioni perpendicolari e rinserrare una specie di anfiteatro che sta sotto i nostri piedi: al fondo vediamo del verde, dei gruppi di grossi alberi, all’orizzonte si svolge un vastissimo panorama che finisce colle vette acuminate dei monti di Adua e di Axum. Per un malagevole sentiero discendiamo a piedi fra i crepacci e i gradini dei prismi basaltici: passato questo periodo prettamente roccioso, andiamo ancora qualche poco discendendo su terreno misto vegetale e roccioso, in cui ben poco alligna tranne qualche acacia, finchè ci troviamo perfettamente al fondo del ciclopico anfiteatro.
La vegetazione vi è abbondante: incontriamo ossa umane e teschi in quantità, e questo ne indica che ci avviciniamo al campo di battaglia di Guda-Guddi, dove or fanno tre anni fu completamente distrutto il corpo egiziano comandato da Ratif-bey, che tentò invadere l’Abissinia con poco più di quattro mila uomini. Percorsa presso a poco la stessa nostra strada, lasciò una retroguardia di cinquecento uomini, portò il grosso delle truppe nel punto ove oggi mettiamo le tende e lo accampò fra immensi blocchi di granito formandosi quasi una trincea di questi e di tronchi spinosi, e spedì in avanti un piccolo corpo a ricognizione. Giunto questo nelle vicinanze del Mareb, incontrò le prime truppe degli Abissinesi che forti di circa 20,000 uomini si erano mossi contro l’esercito invasore.
Ebbe luogo una scaramuccia che fece poche vittime perchè gli Egiziani si ritirarono sopraffatti dal numero e obbligati di portare al quartiere generale la notizia della vicinanza del nemico.
Dal canto suo questi ubbidì pure a sì elementare principio Fac-simile di disegno eseguito da un artista abissinese di tattica, e tutto l’esercito guidato da re Giovanni mosse a marcia forzata verso Guda-Guddi.
Gli Egiziani erano bene armati, disciplinati, comandati e istruiti da ufficiali europei, possedevano anche cannoni; gli Abissinesi invece avevano pochi fucili, vere anticaglie, lance e sciabole alquanto rozze, ma erano animati dalla voce risoluta del loro sovrano, spinti dall’odio contro chi quasi in segno di sprezzo li aveva così aggrediti, accecati da fanatismo religioso.
La lotta fu terribile, e finì con un massacro, non con una vittoria. Non si calcolano le vittime da parte dei vincitori, basti dire che degli Egiziani sette soli riuscirono colla fuga a raggiungere la retroguardia, uno solo dei feriti potè nascondersi e guarito vive ora in Adua, temendo un troppo severo castigo se tornasse in patria. Nè prigionieri nè feriti furono rispettati, tutto quanto fu trovato facesse parte del nemico si passò a fil di spada. Trattandosi di mussulmani, questi fanatici cristiani non vollero concedere l’onore della sepoltura, ed anche oggi tutto il campo è seminato delle miserande reliquie di questa fatale giornata. Al centro della trincea, dove era radunato lo stato maggiore difeso da una batteria, le ossa, i teschi, i resti dei cavalli coprono letteralmente il terreno, mostrando come si possano calpestare i più sacri principii di una religione, quando questa sia male interpretata o faccia velo alla ragione col fanatismo.
Profano nell’arte militare, bisogna però che convenga come sia stato imprudente e insieme ardito il dirigere un corpo di soldati attraverso un paese come questo, dove mancano strade, indicazioni, comunicazioni, dove la natura lo rende doppiamente difficile pel nemico, ma altrettanto propizio a chi vi ha l’abitudine, ostile per di più, privo affatto d’ogni risorsa e del più necessario alla sussistenza, dove scarsissima è persino l’acqua, e la poca che si trova, sempre cattiva. Irragionevole poi, mi permetto di dirlo dopo aver visitata la località, di far sostare la truppa laddove da tre lati, alle spalle e ai fianchi, era completamente serrata ogni ritirata dalle pareti verticali basaltiche, restando aperto solo il fronte, da dove si poteva, come avvenne, aspettarsi l’attacco nemico.
Il soldato abissinese ha un modo curiosissimo di battersi: al momento della mischia si sbarazza generalmente di tutto quanto porta con sè, spesso anche del fucile, preferendo l’arma bianca: colla spada al fianco, una o due lance nella destra e lo scudo nella sinistra, difendendosi con questo, quasi strisciando e passando da una pietra all’altra, da un albero all’altro, facendo difesa al proprio corpo di tutto quanto incontra, si porta fino a venti o venticinque metri dal nemico. Coglie allora il momento opportuno, si alza, getta con tutta forza le proprie lance, chè in questo è maestro, e approfittando del momento di confusione che questo nuvolo di lance produce nelle file ordinate del nemico, in due salti gli è addosso e colla sciabola lo assale a grandi fendenti. La maggior parte dei teschi che vedemmo avevano infatti la ferita trasversale all’altezza dell’orecchio. È una manovra difficile se si vuole, ma terribile e che può praticarsi da chi è dotato di gran sangue freddo, ha poco attaccamento alla vita, ed è spinto da una forza misteriosa che al pensiero della vita futura gli rende cara la morte se guadagnata col sangue di un nemico nella fede.
Sul campo di battaglia, presso alcuni pozzi di acqua verde, puzzolente e fangosa, a poca distanza dal villaggio di Gundet, piantammo le nostre tende verso le dodici e mezzo, a circa 1700 metri di elevazione.
I nostri servi credettero fare dello spirito, sfogare forse un po’ ancora della loro ira, forse anche procurarci spettacolo grato, col mettersi a giuocare alla palla ed inseguirsi gettandosi dei teschi, come fossero pallottole di neve, ma invece dei nostri applausi s’ebbero una buona lezione di carità cristiana.
Mercoledì 26. In Gundet è impossibile trovare quadrupedi pel trasporto della nostra roba. Proponiamo quindi agli stessi che vennero fin qui di proseguire: alcuni acconsentono ad accompagnarci ma solo fino ad una giornata da Adua, altri si rifiutano recisamente. Come al solito nascono mille difficoltà chè pare che le casse siano divenute più pesanti, e si perdono delle ore in chiacchere e questioni inutili. Baramascal, il capo dei servi, addetto al bagaglio, ci mette tutta la sua pazienza e la sua voce, accetta i buoi che vogliono proseguire, trova qualche buricco e qualche portatore e riesce così di combinare tutto. Fra noi, i Naretti, e qualche altra piccola carovana che ci segue sperando trovare nella nostra compagnia maggior sicurezza, abbiamo almeno un centinaio di buoi, muli e buricchi, una quarantina di indigeni che accompagnano questi animali col bagaglio, una trentina di servi ed altrettanti portatori. La carovana è ben numerosa e stupendo lo spettacolo sia della marcia, sia dell’accampamento. Appena si giunge alla tappa è un vero formicaio di uomini e di animali. Chi scarica il bagaglio, chi pensa a radunarlo: gli animali intanto, sollevati dal noioso peso se ne vanno pascolando: chi subito si mette in cerca di fieno per tenerli tranquilli la notte, chi se ne va colle pelli al vicino pozzo a prender acqua, chi a far della legna, alcuni piantano le tende, altri accende il fuoco, quello fra noi destinato alla cucina s’accinge subito al lavoro, i suoi assistenti lo aiutano a scorticare qualche lepre o spennare pernici, altri vanno in cerca di nuove vittime, i servi sgozzano il bue o il montone destinato alla giornata, quando c’è, le donne attorno ai fuochi s’accingono subito a fare il nostro pane, i servi fanno il loro, gli indigeni che accompagnano i buoi il loro; chi cuce, chi rade la testa al compagno, chi applica il ferro rovente a qualche povera mula piagata, chi si sta liberando da molesti abitatori. Appena fa buio si richiamano tutti i quadrupedi che si legano nell’interno dell’accampamento, all’ingiro si accendono enormi fuochi e attorno a questi stanno accovacciati i diversi gruppi dei nostri seguaci, poi sorgono le voci di quelli che se la passano colla solita cantilena, poi il ballo o fantasia degli indigeni. È una continua lanterna magica di quadri e costumi, cui va aggiunta l’imponenza e l’originalità che non può dare che il pennello di madre natura.
In coda alla carovana, alle due, partiamo noi pure: le colline si fanno un po’ più alte, l’aspetto generale assume un po’ più l’imponenza delle montagne: il carattere di sterilità va diminuendo, e di quando in quando l’occhio trova a riposarsi su qualche masso verde: i profili delle alture che si disegnano all’orizzonte sono mossi e artistici e non più tanto bassi, orizzontali o quasi geometricamente conici e altrettanto monotoni, come nei giorni scorsi. Proseguiamo di collina in collina: sulle creste delle circostanti qualche capanna conica che dà indizio di piccoli villaggi: di tempo in tempo qualche colonna di fumo infuocato si innalza nell’atmosfera: sono praterie incolte e secche che i nativi incendiano per concimare il terreno colle ceneri e disporlo a ricevere l’anno dopo qualche seme di dura. Allo svolgere da una altura che andavamo salendo sulla costa, ci si presenta come incorniciato dai profili dei pendii di due altre alture che si incontrano a valle, uno stupendo panorama delle montagne d’Adua: fiere parevano innalzare il capo nell’atmosfera, superbe di trovarsi giganti fra la miriade di colline che sotto loro formavano come un mare agitato: vette acuminate, creste frastagliate, pareti all’apparenza rocciosa e dirupata, mi richiamavano le care Alpi e la loro maestosità. Discendiamo lungamente ed aspramente per uno dei soliti sentieri dove ad ogni passo v’ha da rompersi le ginocchia contro le punte di granito sporgenti, o da cavarsi un occhio colle spine delle acace che qui crescono fitte come gramigna. Finita la gran discesa seguiamo per qualche tratto il letto di un piccolo torrente, poi una lieve altura, poi altro torrente, e nei campi vicini troviamo sparsi gli avanzi umani che stanno a memoria della prima scaramuccia avvenuta fra Egiziani e Abissini. Attraversata ancora una campagna coltivata a dura, scendiamo nel letto del Mareb che presenta ancora tutte le tracce abbastanza recenti del passaggio dell’acqua, che ora è limitata a pochissima quantità che scorre per qualche tratto per poi sprofondarsi nelle sabbie e ricomparire più a valle. Le sponde coperte da bellissima vegetazione, piante gigantesche, specialmente acace e ficus dealbata, oltre una massa di piccole piante, cespugli, fiori, liane. Molta caccia trovammo laddove scorreva l’acqua, e la cucina ne fu subito ben fornita. Piantammo il campo alle sei a circa 1320 metri di elevazione: la posizione per sè ed un bellissimo chiaror di luna lo resero ancora più bello, più grandioso, più fantastico del solito.
Giovedì 27. Di buon’ora i buoi sono carichi, talchè anche noi alle 6 ½ partiamo. Sempre si attraversano brevi altipiani rinserrati da alture che si oltrepassano per portarsi dall’uno all’altro: poche tracce di coltivazione e qualche misera capanna sono i soli indizii della vita e della attività di questo paese. Finalmente abbiamo la fortuna di attraversare un pajo di corsi d’acqua, dove poca e lenta, ma limpida, ne scorre. Alle nove troviamo la carovana fermata sotto un enorme sicomoro, che coll’ombra de’ suoi giganteschi rami tutta la protegge dai raggi cocenti del sole: vi facciamo la nostra colazione; le armi appese al colossale tronco, e di noi chi sdrajato al suolo, chi seduto sulle sporgenti radici, chi appoggiato a qualcuna delle nostre casse. Era un quadro impossibile a descriversi come mi sarà impossibile dimenticarlo. Gli uomini dei buoi adducono mille ragioni, fra cui che devono cercarsi farina ad un villaggio vicino, tutte scuse per non proseguire. Meno male che quel piccolo corso d’acqua, per quanto meschino, dopo tanta siccità mi ravviva, mi rianima e vi passo vicina buona parte della giornata, cacciando cento varietà di bellissimi uccelli, fra cui delle oche selvatiche assai grosse, e stupende per colori. Su un albero mi fecero sorpresa due grossi nidi sferici, del diametro di circa un metro, coll’apertura di forse venti centimetri, rivolta al basso.
Il forte della nostra carovana è tolto dalla più miserabile classe della popolazione della provincia dell’Amassena che è limitata appunto dal corso del Mareb, e, come passando in altre provincie, tipi e costumi possono variare, è meglio dirne ora qualcosa. Sono figure snelle, robuste, dall’occhio ardito, dalla tinta cioccolata: indolenti ma capaci e pronti a sopportare fatiche e strapazzi quando l’occasione se ne presenti: facili piuttosto alla contesa, ma che prolungano con gridi e discussioni, venendo difficilmente alle mani. Sopportano qualunque insolenza, qualunque osservazione si rivolga loro, ma guai a chi alzasse su loro una mano: sempre coperti, o meglio avvolti in un cencioso lenzuolo che gira attraverso alla cintura, e spingono su una spalla e alle volte fin sulla testa. Lo chiamano scemma: i benestanti lo portano bianco attraversato da una grossa riga scarlatta, ed allora è elegante e pittoresco quanto mai, ma il povero sopprime il rosso perchè più costoso, e lascia il bianco diventar tutt’altro colore per economizzare la lavatura, per cui perde quasi tutto il suo carattere. Marciano scalzi, rare volte con sandali: portano la lancia, se lo hanno un fucile, lo scudo in pelle da ipopotamo, spesso un rozzo spadone, quasi sempre una grossa clava che serve pei buoi: qualche anello con amuleti in pelle al braccio, alle volte qualche anello d’argento alle mani. I capelli generalmente rasi o corti, spesso le orecchie bucate e passate da un semplice filo annodato. Le abitazioni sono capanne conico-circolari costrutte con tutta la semplicità e la miseria possibili: all’interno non hanno nulla, tutto al più qualche angareb fisso al suolo, in legno, o fango e pietre: i più cuocciono il pane, che è quasi solo loro nutrimento, come già vedemmo, colla pietra calda al centro, alcuni hanno per questo uso una piastra in ferro leggermente concava. Altri utensili domestici non hanno. Solo si costruiscono rozzi vasi in terra, in forma d’anfora, entro cui conservano burro e miele. Colle pelli di capra e montone formano sacchi entro cui conservano farina, grano, sale, acqua e tutto quanto. Riempite di paglia servono come basto per buoi, muli o somari, sono la loro valigia quando viaggiano, le loro casse per mettervi le mercanzie quando vanno al mercato; se ne coprono alle volte le spalle o le avvolgono alla cintura per tutto costume. Stendono le pelli di bue per dormirvi e difendersi dall’umido e dagli insetti, se ne riparano dalla pioggia, vi mettono al coperto le loro masserizie o la roba che trasportano per forastieri, le stendono nella sabbia facendovi un’infossatura per raccogliervi acqua o per lavarvi, le tagliano a strisce per farne cinghie che per loro sono corde, le stendono su telaj di canne per farne le porte delle loro abitazioni. Insomma non si finirebbe di enumerare gli usi cui sono destinate le pelli in questo paese, ed è sorprendente come se ne sia cavato tanto profitto.
Venerdì 28. Si prosegue fino al fondo dell’altipiano, poi prendiamo a salire lungo la costa di una catena di alture, passandone di quando in quando alcune per poi discendere nel vallone che le separa da altre e salire a queste. I passaggi principali furono a 1550 metri il primo, a 1600 il secondo, poi a 1750 e l’ultimo a 1850. Raggiunta la vetta di questo, ci si stende ai piedi un esteso bacino di piccole alture e lievi avvallamenti, il tutto coperto da boscaglie. Discendiamo qualche poco e verso le undici troviamo i primi muli fermi e accampati sotto una acacia secolare, presso il villaggio di Derataclé, a 1800 metri. La via d’oggi è delle più faticose, perchè le salite e le discese si succedono senza tregua, e spesso il sentiero corre poco meno che verticale su pietra a nudo, e sempre ingombrato da rami, radici, pietre sporgenti, che l’attraversarlo sani e salvi è quasi miracolo, e spesso si è obbligati far deviare le mule e i buoi o levarvi il carico perchè possano passare attraverso simili ostacoli. La vegetazione è abbondante ma non grandiosa, predominando gli arbusti, le boscaglie, interrotte a quando a quando da ficus dealbata o da grosse acace che elegantemente si innalzano ad ombrello. Oltre l’ultima altura solo riappare l’ulivo selvatico, il pesco ed il fico. Abitazioni scarsissime e sempre rifugiate sulle più alte vette per non essere tormentate dai passanti e fuori d’ogni pericolo d’aggressione in tempo di guerra. Ci sono guida a sud le acuminate vette dei monti di Adua, e noi andiamo girando verso ovest e sud-ovest per raggiungerle, evitando di sorpassare direttamente i più alti colli che per la linea più breve ne separano. Al campo troviamo alcuni soldati spediti dal governatore di Adua per incontrarci e facilitarci il trasporto delle nostre casse: i condottieri dei buoi intanto, timorosi che colla forza potessero essere costretti a proseguire gratis, più che in fretta se ne tornarono indietro, lasciandoci un’altra volta nell’imbarazzo di doverne trovare dei nuovi. Arriva il capo del villaggio sulla sua mula, accompagnato da un paio di aiutanti e seguiti dai soliti ragazzotti che portano le armi. Grandi inchini e complimenti a Naretti che pare sua vecchia conoscenza; quindi una sequela di promesse, come al solito però seguite da una fila di ma e se e di considerazioni sull’annata poco ricca di raccolti. È strano il saluto fra Abissinesi che si rivedono dopo qualche tempo d’assenza: si toccano replicatamente le mani ripetendosi il buon giorno, come state, poi si stringono l’un l’altro per appoggiare labbro a labbro e darsi con tutta delicatezza una buona dose di baci. Verso sera ci arriva dal villaggio, in parte a titolo regalo d’amicizia, in parte perchè comandati dal governatore, un vaso di miele, una capra, quaranta pani.
Sabato 1º marzo. La solita questione del bagaglio ci fa perdere ancora una giornata. Adua deve essere a poche ore, ma in questo paese non si può mai sapere nulla di preciso o di positivo, e mentre alcuni ce la dicono vicinissima, altri ci dicono che non potremmo arrivarvi in una sola tappa. Pare però dal consiglio dei più che a gran distanza non debba essere, quindi stabiliamo di mandarvi le nostre mule col più necessario del bagaglio, dando ordine ai servi di ritornare l’indomani mattina prima di giorno coi quadrupedi che devono servire al nostro ingresso. Lasceremo il bagaglio qui affidato ai soldati che penseranno a farcelo avere. Nella giornata intanto, a rompere la monotonia, arriva qualche altro capo dei villaggi vicini, col solito seguito, e spesso ci offrono del tecc, il loro vino, portato entro gigantesche corna da bue rivestite in pelle, e servito in bicchieri pure di corno.
La sera ci portano miele, una capra e cento pani.
Domenica 2. Siamo inquieti pei nostri muli che si fanno aspettare; senza questi è impossibile partire e in questi paesi siamo ormai persuasi che in fatto di ritardi bisogna aspettarsi qualunque mostruosità. Intanto arrivano piccole squadriglie di indigeni destinati al trasporto del bagaglio. Verso mezzogiorno finalmente possiamo metterci in marcia tutti quanti: la strada malagevole, la natura sempre la stessa; solo più frequente si incontra qualche tratto di terreno con tracce di coltivazione. Andiamo girando da sud-est a sud e sud-ovest per raggiungere la nostra meta dei monti rocciosi, che di quando in quando ci appaiono, se non nascostici da qualche vicina altura. Si sale e scende per sentieri impossibili, tendendo però generalmente al salire, talchè si arriva a 2150 metri circa per principiare poi la discesa lungo la costa di una catena di alture.
Quei benedetti monti pare si vadano allontanando davanti al grande desiderio di raggiungerli per vedere questa sospirata Adua, della quale ci dicono meraviglie, ma che nessuno ancora sa precisamente indicarci all’ombra di quale vetta sia piantata. Cinque o sei si vedono elevarsi a catena che forma un anfiteatro aperto ad ovest, ed entro cui, vedemmo poi, siede la sospirata capitale. Uno, più ad ovest, sta come a sentinella avanzata degli altri, e si eleva quale piramide triangolare, superbo quasi del suo isolamento, da ricordare l’elegante e ardito profilo del Cervino: l’illusione fugge però subito che si osserva ai piedi uno sterile suolo invece di quel mare di ghiaccio tanto ricco di bellezze e di imponenza. Passiamo presso il piccolo villaggio di Adi-Abuna, artisticamente piantato sul pendìo di un’altura, e qui ci vengono ad incontrare una quindicina di cavalieri che formano un gruppo alquanto pittoresco. Sono amici di Naretti, spinti dal desiderio d’essere i primi a dargli il benvenuto. Ritorna qualche euforbia e appare qualche palmizzo. Ancora una mezz’ora ed ecco le prime case di Adua. Non aspettavo certo una gran città, speravo anzi che vi fosse tutto il caratteristico di questi paesi, ma immaginavo un bel paesaggio e me lo avevano descritto ricco di corsi d’acqua e sparso di fresca verdura: invece disillusione completa. Confesso che poche volte provai una sensazione così triste, così sconfortante, e la lessi in viso condivisa dai miei compagni. Solo in parte si presenta il panorama della città che sta disposta sui pendii di diverse alture: le case basse, pochissime hanno una camera superiore, la maggior parte sono tugurii circolari col tetto conico in paglia, alcune rettangolari con piccole aperture, il tetto piatto e coperto con terra su cui cresce l’erba come in una prateria, e alle volte persino qualche arbusto. I tetti si confondono quindi col suolo, i muri sono impastati con fango, quindi sono pure all’unisono col pavimento naturale. Qualche pianta che potrebbe dar vita alla monotonia della scena, sta invece intisichita per mancanza di pioggia e coperta di polvere: quasi nessun abitante che dia animo a questo triste quadro. Dal lato da dove arriviamo, incassato in una fenditura scorre un torrente che attraversiamo a guado per entrare dall’altro lato, salendo l’altura, nelle vie della città. Peggio che mai; il più meschino dei nostri villaggi di montagna è una Parigi al confronto: case disabitate e cadenti, tetti rovinati, carcami di ogni sorta d’animali che ingombrano ad ogni passo la via, l’eco di morte che pare risuoni ad ogni porta, un vero disastro, una seconda Pompei per lo squallore, senza il bello artistico, ma colle tracce recenti della catastrofe. Ma non precipitiamo un giudizio sotto la prima impressione, e così tutti taciturni e avviliti arriviamo alla casa di Naretti, dove abbiamo squisita accoglienza ed un pranzo fatto preparare dai suoi servi che l’aspettano, e al quale ci sentiamo di far molto onore.
Fra i tipi abissinesi, amici di Naretti, che lo circondano, lo baciano e ribaciano e ci danno così nuova testimonianza della stima e dell’affezione che questo buon piemontese ha saputo acquistarsi in questo paese, spicca un tipo europeo che fa magnifico contrasto, e ancor più che sugli altri, sul suo viso, che porta l’impronta di recenti sofferenze, s’illumina quella scintilla di gioja che svela un profondo contento. Ha un’espressione di bonarietà ad onta della capigliatura e della barba semi-selvagge: piuttosto tozzo nelle proporzioni, veste abiti neri rappezzati o cuciti con filo di ben altro colore, dei bottoni non restano che le tracce e ne fanno le veci delle cordine e degli stecchetti: le orecchie gli sopportano un cappello, dal quale in diversi punti escono a prender aria ciocche di peli biancastri. Alla presentazione ci stringe la mano con tutta effusione, non raccapezzandosi di trovarsi con tanta gente fatta e educata come lui. È il signor Barallon, un bravo artigiano francese che da cinque anni vive in Adua facendo l’armaiuolo. Il primo discorso che ci tiene è il racconto di una puntata di spada che or fa un anno un miserabile quasi pazzo gli diede a tradimento passandolo dal dorso al petto. Era solo europeo allora in paese, e le prime cure le ebbe da un abissino, che vedendo l’apertura fatta dalla lama non trovò nulla di più logico che di chiuderla ben bene con una specie di tappo. La provvidenza venne però in suo aiuto, non mancarono i consigli di cento altri Dulcamara, unti, erbe, radici gli furono applicati e dopo lunghe ed atroci sofferenze finì col rimettersi.
Venuto in Abissinia dove sperava trovar tesori, non scoprì questi, ma molto ricercato per l’arte sua ottenne permesso di stabilirvisi e il lavoro non gli faceva certo difetto. Il re lo prese pure a proteggere e lo onorò di sue commissioni, ma avendogli una volta dato un fucile a riparare, fatte le necessarie operazioni, Barallon si presentò alla Corte a riportare l’arma.
Se l’hai bene aggiustata, disse il re, caricala e spara in mia presenza. Ciò fu subito eseguito, ma disgrazia volle che proprio a questo colpo una canna scoppiasse. Il re vide un tradimento preparato e mal riuscito e voleva ipso facto toglier la vita al povero armaiuolo. Calmato però e ridotto a miglior consiglio dal Naretti presente all’avvenimento e da qualche altro de’ suoi aiutanti, perdonò l’accaduto, ma cessò la sua protezione al disgraziato francese, che deve certamente aver passato un cattivo quarto d’ora.
Gli argomenti di discorso non mancarono certo per far durare il pranzo parecchie ore, poi passammo nella casa che si era noleggiata per noi.