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84 Capitolo quinto.

la truppa laddove da tre lati, alle spalle e ai fianchi, era completamente serrata ogni ritirata dalle pareti verticali basaltiche, restando aperto solo il fronte, da dove si poteva, come avvenne, aspettarsi l’attacco nemico.

Il soldato abissinese ha un modo curiosissimo di battersi: al momento della mischia si sbarazza generalmente di tutto quanto porta con sè, spesso anche del fucile, preferendo l’arma bianca: colla spada al fianco, una o due lance nella destra e lo scudo nella sinistra, difendendosi con questo, quasi strisciando e passando da una pietra all’altra, da un albero all’altro, facendo difesa al proprio corpo di tutto quanto incontra, si porta fino a venti o venticinque metri dal nemico. Coglie allora il momento opportuno, si alza, getta con tutta forza le proprie lance, chè in questo è maestro, e approfittando del momento di confusione che questo nuvolo di lance produce nelle file ordinate del nemico, in due salti gli è addosso e colla sciabola lo assale a grandi fendenti. La maggior parte dei teschi che vedemmo avevano infatti la ferita trasversale all’altezza dell’orecchio. È una manovra difficile se si vuole, ma terribile e che può praticarsi da chi è dotato di gran sangue freddo, ha poco attaccamento alla vita, ed è spinto da una forza misteriosa che al pensiero della vita futura gli rende cara la morte se guadagnata col sangue di un nemico nella fede.

Sul campo di battaglia, presso alcuni pozzi di acqua verde, puzzolente e fangosa, a poca distanza dal villaggio di Gundet, piantammo le nostre tende verso le dodici e mezzo, a circa 1700 metri di elevazione.

I nostri servi credettero fare dello spirito, sfogare forse un po’ ancora della loro ira, forse anche procurarci spettacolo grato, col mettersi a giuocare alla palla ed inseguirsi gettandosi dei teschi, come fossero pallottole di neve, ma invece dei nostri applausi s’ebbero una buona lezione di carità cristiana.