Abissinia/Capitolo VI

Capitolo VI

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Capitolo V Capitolo VII

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CAPITOLO VI.

Descrizione di Adua. — Squallore. — Visita al governatore. — Una seduta di tribunale. — Pene diverse. — La cattedrale di Adua. — Industrie abissinesi. — Il mercato. — I regali al governatore. — Un abissino che parla l’italiano. — Considerazioni sulla guerra di Teodoro. — Seconda campagna contro gli Egiziani. — Chirurgia abissinese.


Speravamo di migliorare la nostra prima impressione su Adua, ma anche visitata per bene e con tutto il buon volere immaginabile, bisogna pur confessare che è un vero squallore. Il nucleo principale è disposto su una altura alla vetta della quale sta la chiesa maggiore, il cui tetto conico è sormontato da una grossa sfera dorata; gruppi di abitazioni si distendono nella piccola valle sottostante spingendosi pure alle alture circostanti. Perfettamente a nord sta la prima delle montagne schierate a catena e che vedemmo costituire come un anfiteatro che si protende verso est: a sud e ovest, una distesa di alture lievi e di altipiani in cui si coltiva grano, ma aridi in questa stagione e popolati solo a lunghe distanze da qualche abituro. A rompere la monotonia di queste ultime sorge isolato a sud il picco che già ci rammentò una delle più ardite vette delle nostre Alpi. Ai piedi del colle sul quale sta la città, dal lato nord-est, una pianura tagliata da una profonda fenditura in cui scorre il piccolo torrente Assam, costituisce la piazza principale, il pubblico passeggio se si vuole, e il ritrovo pei mercati. Questo torrente lambe tutta la città da [p. 96 modifica] questo lato, ed all’estremo ovest si unisce coll’altro di minor importanza detto Maiguagua, che scendendo da sud ad ovest delinea il confine della città da questo lato. Entrambi però sono fiumi di poco conto, l’acqua vi è poca e vi scorre lentamente, ma abbastanza limpida: all’epoca delle piogge si riempiono come si riempiono alcune altre fenditure nel suolo, che dalle campagne circostanti scendono a versarsi nell’Assam.

Le vie di Adua sono nè più nè meno di letti da torrente, senza la risorsa dell’acqua che si incaricherebbe di un pochino di pulizia: larghe in media poco più, e qualche volta meno di un metro, e tutte fiancheggiate da mura o da steccati alti da due a tre.

Di quando in quando un’apertura che mette ad un cortile, o dirò meglio recinto, in cui sono una, due, tre o più capanne o semplici tettoie rozzamente costrutte con paglia o fusti secchi di dura. Poche sono le abitazioni che hanno l’aspetto relativamente civile, cioè costrutte con mura ed un piano superiore; alcune di queste sono della solita forma cilindro-conica, altre rettangolari col tetto piatto.

Di queste ultime sono quella di Naretti e la nostra; all’interno però tutto quello di più rozzo che si possa immaginare; di serramenti non se ne parla, chè non li possiede che Naretti perchè se li fabbricò lui stesso; per porta abbiamo un telaio di canne; il soffitto sono tronchi d’euforbia uno presso l’altro e ricoperti di terra; le pareti, ad una certa altezza, adorne di una sequela di corna da bue conficcate nel muro, che servono per appendervi la nostra roba e sono l’unica mobiglia della casa; dell’erba sul suolo ci fornisce il letto, le nostre casse sono sedie e tavolini.

Le guerre continue che tolgono le migliori braccia all’agricultura, la scarsità delle piogge di due anni or sono che tolsero buona parte dei raccolti, produssero in questa miserabile provin[p. 97 modifica]cia una carestia terribile che, unita ai miasmi prodotti dalle migliaia dei cadaveri degli Egiziani lasciati insepolti, ebbe per conseguenza un tifo che fece vere stragi, e si calcola a più di due terzi della popolazione di Adua perita; e girando le strade se ne vede ovunque l’impronta.

Quasi nessuno si incontra, la maggior parte delle case sono deserte, in esse si scorge la sciagura, la morte. Vedi il vero abbandono di un’abitazione ove tutti perirono; i pochi vasi che sono tutta la loro suppellettile, sparsi nei cortili; i tetti spesso rovesciati, chè dopo le piogge, quest’anno straordinariamente abbondanti, nessuno rimase od ebbe forza ed agio a ripararli. I buoi morti pure di fame o di malattia popolano cortili e strade coi loro scheletri, avanzi delle jene; i pochi abitanti che si incontrano o si presentano curiosi alla porta, al nostro passaggio, quasi tutti sparuti e macilenti.

Il luogo non è certo dei più simpatici e divertenti, ma ci dovremo pur troppo restare forse qualche settimana per aspettare la risposta di un secondo corriere che Naretti consiglia di spedire al Re per domandargli un’udienza. S. M. si trova ai confini dello Scioa a riscuotere i tributi di quel sovrano, diventato ora suo vassallo, e questo ci fa temere che l’aspettativa sarà assai più lunga di quanto si osa sperare; ma ci vuol pazienza, ed è forza dunque esercitarla tutta quanta. Valga almeno questo riposo a ridare la salute al nostro Tagliabue che si trascinò fino in Adua con mille cure, che fa ogni sforzo per reggersi, ma che si vede seriamente ammalato.

Un paio di giorni dopo l’arrivo si dovette andare a far visita al governatore.

Partimmo la mattina colle nostre mule, accompagnati da una massa di servi e di pretesi soldati, tanto per dare maggior importanza alla cosa. La pittoresca cavalcata si dirige ad ovest passando per una sequela di alture sterili, bruciate e poco meno [p. 98 modifica] che disabitate; troviamo sul sentiero lo scheletro quasi intiero di un miserabile che vi perì forse di fame e di stenti; gli restava ancora accanto un avanzo di cencio che altre volte lo copriva; e si dice ed è fanatico cristiano un popolo che non si cura di dar sepoltura ad un disgraziato fratello?... Dopo circa un’ora e mezzo ci si presenta una collina che si innalza come cono isolato, la cui vetta è coronata da belle macchiette bianche e rosse. Come inforcassimo delle capre ci accingiamo alla salita; a sud-est si spiega la catena dei monti di Adua, il solo panorama di natura che ne ravviva un pochino. Al vertice del cono formicolano soldati e ragazzi; sparse qua e là delle piccole e meschine capannucce; al centro un rozzo steccato circolare di pietre e spini. Si scende di sella, tutti si fanno attorno a noi, che siamo subito invitati ad entrare nel recinto. Sotto una tettoia di una decina di metri di lato e alta forse due, aperta sul davanti e molto primitivamente costrutta con fusti di dura, stava il governatore con cinque o sei magnati, accovacciati su un piccolo tappeto. Sua Eccellenza è un bell’uomo dalle forme erculee, alto, barba quasi nera, occhio vivace, fisonomia simpatica; non ha nessun distintivo e veste una camicia bianca e il solito scemma bianco attraversato dalla riga scarlatta. Fatti i saluti e la presentazione, ci sedemmo per terra accanto a lui. Entrò allora il popolo, chè si doveva tenere una seduta di tribunale. Dietro noi ed ai nostri lati stavano una ventina di pretesi giudici, poi una massa di soldati dei quali credo che due soli non avevano le stesse armi nè lo stesso costume; grandi, piccoli, giovani, vecchi, d’ogni età ed altezza; davanti a noi, in uno spazio vuoto, due grosse pietre sovrapposte dovevano rappresentate l’altare avanti al quale venivano ad inchinarsi i delinquenti; ai lati gli avvocati, poi molti curiosi. Un usciere con un bastone e con molta forza di polmoni, teneva l’ordine. Comparvero i giudicandi che, trattandosi di cause civili, sono solamente guardati, ma non legati. [p. 99 modifica] L’accusato introdotto fa atto di umiliazione avanti le pietre, poi racconta il fatto del quale è incolpato: tutti sapevano spiegarsi con molta facilità, parlando con enfasi e con spigliatezza, usando nei momenti di maggior calore nel discorso di fare un nodo sul proprio scemma o su quello di un vicino, poi picchiarvi dei pugni gridando Joannes imut, «per la morte di Giovanni.» È questa una specie di formola di giuramento, sacramentale per chi la invoca. Trattandosi di cose da poco, il governatore pronuncia da solo il giudizio, ma, se la cosa si complica, domanda il parere degli avvocati che uno dopo l’altro si alzano, si portano presso il delinquente e con molta prosopopea emettono il loro parere in proposito.

Sorge allora anche l’avvocato difensore, che interrotto nello svolgimento delle sue idee, chiude alle volte colla mano la bocca al suo patrocinato, se questi vuol mettere il naso nel discorso. Entrarono poi due creduti ladri, che è sperabile avranno a dar conto delle loro azioni commesse solo prima della prigionia, perchè incatenati l’uno all’altro, e giovani entrambi e di diverso sesso. Dopo lunga discussione ne fu rimesso il giudizio ad altra seduta.

Trattandosi di cause civili o di ladruncoli, un governatore può essere giudice, ma per grossi ladri, per cause importanti, o per chi è scoperto ladro per la seconda volta, bisogna ricorrere al tribunale del re. Per fatti politici si condanna ad esser relegati sulla vetta di una montagna, custoditi da soldati, e dove bisogna lavorare il terreno per procurarsi da vivere; chi è scoperto di apertamente cospirare contro il Re, è acciecato, ma questa pena è ora quasi caduta in disuso; chi pubblicamente sparla della sacra persona di S. M. ha la lingua tagliata; pei ladri la condanna è il taglio della mano destra e del piede sinistro.

L’operazione è fatta da apposito carnefice che stacca queste [p. 100 modifica] membra all’articolazione, operando prima una incisione circolare; ne fa poi speculazione sua, chè se il paziente paga qualche tallero, l’operazione è fatta per bene con un’arma affilata, ma se invece non ci sono quattrini, il coltello non taglia e lascio immaginare cosa soffre il miserabile. L’operazione dev’essere fatta in pubblico, a titolo d’esempio, e il condannato deve starsene al posto del supplizio fino a sera, accanto alla sua mano ed al suo piede staccati; nessuno, nemmeno della famiglia, può prestargli soccorso nella giornata. Per fermare l’emorragia, l’operatore stesso appena finito il taglio vi applica della terra asciutta o della sabbia ben fina. E ad onta di questo, moltissimi campano, e ne vedemmo di cicatrizzati meglio forse che se fossero stati operati da alcune nostre celebrità.

Come pena, per delitti minori, vi sono anche le bastonature.

Finita l’udienza del tribunale, che per nostra disgrazia durò tre ore, passammo nel tucul del governatore, dove fummo serviti di tecc che fece accrescere l’appetito che già ci tormentava. Rimontati in sella eravamo verso le tre di ritorno al nostro quartiere generale.

Il nome del governatore è Ghedano Mariam, che vuol dire Figlio di Maria.

La cattedrale di Adua è, come vedemmo, l’edificio che corona l’altura su cui sorge la città. Due cinte circolari vastissime e di raggi di una decina di metri di differenza, racchiudono il cimitero, le cui tombe non sono che semplici pietre ammucchiate, tanto da ricordare il posto della sepoltura. Al centro della seconda cinta, sopra una piattaforma rialzata da otto o dieci gradini, sorge la chiesa: il tetto conico in paglia porta al vertice una specie di sfera dorata sormontata da una croce ornata con uova di struzzo; le pareti alte circa quattro metri, di circa 26 di diametro, di forma circolare. Il muro esterno è continuamente alternato a pilastri e finestre chiuse da griglie in legno; nessuna [p. - modifica]Cattedrale di Adua [p. 101 modifica] intonacatura ai muri, nessuna modanatura nè ornato. Concentrico è altro muro, lasciando un corridoio in forma d’anello di circa tre metri di larghezza, riservato al pubblico devoto; entro questa doppia cerchia sorge ancora un edificio rettangolare, all’infuori tutto dipinto con episodi della storia sacra o fasti dell’armata abissinese. Sul davanti, la Vergine e San Giorgio ai due lati, e nel mezzo l’apertura che mena alla camera interna riservata ai preti. Sollevata, col permesso dei sacerdoti presenti, una cortina, regalo della regina d’Inghilterra, fummo ammessi ai misteri di quel santuario. Non v’è al centro che una edicola in legno, specie di confessionale di poco più di due metri di lato, dove nessuno entra mai, ma solo si appoggia il libro di preghiere al davanzale di un finestrino, e i preti vi stanno attorno a leggere e pregare. Nel circuito esterno sta il campanile costituito da tre dadi sovrapposti, di lato decrescente, e sormontati da una cupola acuminata. È questa la più gran chiesa che oggi esiste in Abissinia; il progetto e parte dell’esecuzione sono dovuti al bravo Naretti.

Passammo a vedere gli arredi sacri e gli utensili pel servizio religioso. Molto ricche ed originali sono le croci cofte in bronzo ed argento massiccio. I bornus che vestono i preti durante le funzioni, in raso azzurro con ricami in sete a vario colore e grandi ornati e fermagli in argento lavorato ad uso filograna; il cappello, il baldacchino ad ombrello, il turibolo in bronzo dallo stile bizantino, il campanello ad U coi dischi in lamina d’ottone, che scorrendo su fili e battendo un contro l’altro producono il suono; le croci in ferro che i sacerdoti devono sempre tenere fra mani e servirsene per farsi il segno della croce. Cose tutte che difficilmente potrei descrivere e che siccome credo piuttosto interessanti riproduco alla meglio colla matita. Le stoffe sono tutte importazioni dall’Europa o dall’India, ma tutto il resto è fatto in paese, e parmi strano assai come, dove quasi [p. 102 modifica]ogni traccia di civiltà è scomparsa, dove non ne resta neppure la reminiscenza per tutto quello che costituisce comodi della vita od organizzazione sociale, abbia potuto conservarsi l’uso di questi utensili e la relativa industria.

Questa è assai limitata in Abissinia, e si riduce a pochissimi rami ed a singoli individui che la professano. Si fila il cotone di produzione indigena e lo si tesse con telai affatto primitivi per fare gli scemma, di cui però la riga rossa è fatta con cotone importato, non conoscendosi in paese l’arte del tintore.

Si lavorano un pochino le pelli e se ne fanno selle, bardature per cavalli, sandali, astucci per le armi; si lavora il ferro, che si trova poco meno che puro in natura, e se ne cavano rozze lance e lame per sciabole.

In qualche provincia si fanno panieri bene intrecciati con scorze di palma o di canne palustri; uno o due individui forse, sanno lavorare il bronzo, importato, per farne gli utensili dei quali parlai, e qualche altro lavora l’argento, ottenuto fondendo i talleri, per farne collane, braccialetti, anelli, spilloni per la testa, ornamenti per chiesa.

È sorprendente vedere come possano ottenere una relativa finezza e perfezione di lavoro, mentre il loro laboratorio è una miserabile capanna, la tavola da lavoro, la terra, la fucina, un fuoco acceso contro due pietre disposte ad angolo e ravvivato dal soffio ottenuto comprimendo una pelle da capra; i ferri, qualche rozzo scalpello o punta d’acciaio. Tutto si ottiene colla gran pazienza, che il tempo val poco e il vitto costa meno.

Ebbi la fortuna di trovare in Adua un turibolo di nuovo finito, e il fabbricante che me lo vendette mi confessò che gli costava tre mesi di lavoro.

La sola industria che abbia un certo sviluppo in paese è quella del sale, che si estrae da immensi depositi che stanno nella provincia di Sokota, e che è monopolio governativo, o meglio [p. - modifica]1. Braccialetti - 2. Turibolo - 3. Collane. [p. - modifica]1. Distintivo dell’ordine cavalleresco di Salomone - 2. Croce cofta - 3. Campanello da chiesa - 4. Spilloni per testa. [p. 103 modifica] reale; lo si riduce in rombi di venti centimetri di lunghezza per cinque di larghezza al centro, e tre di spessore, che sono messi in commercio e corrono come moneta, aumentandone il valore a misura che si allontana dalle miniere. Così, mentre a Sokota se ne possono avere da 25 fino a 30 per un tallero, ad Adua non se ne avevano che 18 a 20, a Gondar da 8 a 12 e nel Goggiam alle volte non se ne danno che quattro.

Del resto come moneta in paese non è noto che il tallero di Maria Teresa, e per gli spiccioli si usano i pezzi di sale o cambi di prodotti. Come misura si usano dei recipienti in legno, scavati entro un pezzo di tronco, più rozzi e certo meno precisi, ma presso a poco come si adoperano da noi per le granaglie. Per misura di lunghezza è adottata quella del braccio, dall’estremo delle dita al gomito, molto variabile quindi a seconda degli individui, ma a tali piccolezze non guardano i commercianti di questo paese.

Il sabato 8 siamo in grande aspettativa, desiderosi di assistere al primo mercato.

La mattina, la piazza o meglio lo spazio a ciò destinato, comincia a popolarsi; gente arriva da ogni lato, chi a piedi, chi colle mule, chi colla modesta aria del commerciante, chi coll’aspetto baldanzoso del compratore o del dilettante che viene a divertirsi, seguito dai suoi servi e dagli armati. Diversi capannelli si formano, parecchi gruppi cominciano a stabilirsi in diversi punti; quell’atmosfera di silenzio e di desolazione che pesa su questa disgraziata città, comincia ad essere rotta da qualche lampo di vita. Verso le dieci l’andirivieni degli accorsi ci pare abbastanza importante e noi pure scendiamo fra loro.

Comincia la noia dell’essere circondati, seguiti, assediati da una massa di curiosi che, non paghi di importunare col chiudere il passo, coi loro commenti e col tenerci fissi gli occhi, ci rivolgono domande e spingono le mani a toccarci gli abiti; ma [p. 104 modifica] bisogna farvi l’abitudine e sopportare la loro oppressione con pazienza e prudenza.

Il colpo d’occhio è stupendo e per l’animazione e per l’impronta artistica e caratteristica che danno tutti questi manti dai colori vivaci, artisticamente gittati sui dorsi dalle tinte diverse, queste punte di lancie e fucili che luccicano, e parasoli e teste di cavalieri che si elevano sulla folla. L’ineguaglianza del terreno, da un lato limitato dal corso del torrente e dall’altro elevantesi verso la montagna, aggiunge ancora maggior effetto a questa scena in cui la vita ed il moto pare si consumino e si rinnovino sempre. I prodotti che si vendono sono portati da tutti i paesi circonvicini ed i rispettivi venditori si dispongono a crocchi, qualche volta riunendosi quelli provenienti dallo stesso paese, altra invece quelli che apportarono la stessa qualità di merce. Non v’hanno però in complesso grandi negozianti e non si vede ricchezza nè abbondanza; ognuno cerca di far qualche quattrino col poco che il suo campo o la sua arte primitiva gli fornirono dopo qualche mese di lavoro. Verso il fiume stanno gli animali, cavalli, muli, buricchi, buoi e capre. Desiderando fare acquisti di cavalli, il proprietario subito monta in sella, discende al torrente, risale nel campo opposto e su un piano che vi si stende comincia a galoppare e caracollare. Un altro subito gli corre appresso, gli passa vicino in segno di invito alla sfida, si fanno dei tratti alla carriera, si rivolta indietro il cavallo senza fermarlo, come nessuno oserebbe da noi, si arresta di colpo poi si riprende una sequela di volate; ritornano poi col povero animale bagnato di sudore e di sangue alla bocca. Volevamo fare qualche acquisto, ma trattandosi di vendere a dei bianchi, vorrebbero non contrattare, ma rubare, cosa che non ci accomoda punto.

Rivoltandoci a sud ci si spiega dinanzi tutto il pittoresco spettacolo del complesso del mercato. Circa quattromila erano [p. - modifica]1. Ombrello-baldacchino - 2. Beretto da prete in funzione - 3. Fermaglio e ornamenti diversi per abiti sacerdotali [p. 105 modifica] parmi le macchiette viventi, tutte nuove per noi e tutte diverse una dall’altra, che animavano questo quadro fantastico. Ecco un gruppo di donne che vendono dura, frumento, ceci, semi di lino, foglie secche per fabbricare il tecc, cipolline, peperoni rossi ed altri prodotti del suolo, tutti stesi in poca quantità su rozzi pezzi di stoffa o pelli spiegate a terra o piccoli vassoi di scorza d’albero intrecciata. E fra loro chi coperta da tele o da tessuti di cotone, chi da semplici pelli, chi seminuda, chi porta un bambino da latte sul dorso, chi è circondata da altri più grandini, dall’occhio vivace, dalle fattezze regolari, che attirerebbero carezze se non ne allontanasse il sudiciume che li veste. Più avanti ecco alcuni venditori di pezzi di sale, ed a sinistra i crocchi delle madri, mogli o figli che aspettano coi somarelli il ritorno del messere che andò nella folla a cambiare i suoi prodotti con altri che gli necessitavano: pochi passi, ed eccoci nel gruppo dei venditori dei manti tessuti in paese, e così proseguendo senza una direzione fissa, alcuni negozianti di sciabole, di cartuccere, di pelli, di vecchi e sucidi bric-a-brac, di otri in terra. Verso la collina tre o quattro orefici che uniti rappresentano il valore di forse una decina di talleri in anelli d’argento, bottoni per orecchini, spilloni per testa e simili gingilli. Più sopra le venditrici delle piastre, in ferro o terra, per cuocere il pane, e accanto a loro i panieri e gli ombrelli pure intrecciati con scorza o canne palustri: di quando in quando qualche miserabile viene ad offrirci delle meschinità d’argento, dei bicchieri in corno da bue, scudi in pelle da ipopotamo, lance od altre simili cose. Parecchi colpi di tamburo richiamano la nostra attenzione verso un punto elevato: molta gente vi sta infatti radunata, molti ombrelli spiccano dalla folla: è il governatore che sta presiedendo il tribunale di giustizia: ad un secondo batter di tamburo vediamo un grande accorrere ed affollarsi di popolo. Era un bando e credo si rendesse noto alla popolazione di Adua che la si ob[p. 106 modifica] bligava a spazzare le strade da tutte quelle immondezze che da mesi le infestano. Mi passano accanto i due incatenati che l’altro giorno comparvero al tribunale del governatore: sono accompagnati da soldati e diretti appunto al secondo interrogatorio e forse a sentirsi la sentenza: mi avvicinano e mi supplicano colle lagrime agli occhi che mi interessi a perorare per loro.

La donna non bellissima ma un tipo simpatico, l’uomo un bel giovane dall’occhio intelligente. Non scorderò mai l’impressione che mi produsse, col contrasto di questa folla gaja ed irrequieta, un certo istante in cui questo disgraziato, alzando il braccio che gli restava libero dalle grosse catene, e con esso sollevando artisticamente il manto, tese l’indice al cielo e con voce tremante lo domandò testimonio della sua innocenza. In quel momento ho visto un poema di verità in questi compagni di sventura, e un pittore ne avrebbe certo fatto soggetto ad un quadro.

Prima di sera andiamo a far visita al governatore per portargli i regali destinatigli. Una massa di popolo e di soldati stanno avanti l’abitazione in cui siamo ricevuti, e dove noi terremmo i maiali. Egli ci sta però in compagnia della sua mula che ha l’ardire di allungarsi fino a mangiare i pochi fili d’erba che formano sedile e cuscino di Sua Eccellenza. Fatti i soliti complimenti, si fanno entrare i servi che gli stendono ai piedi dodici metri di tela, cinque di velluto, due bottiglie fantasia piene di liquori, quattro pacchi di candele, un candeliere di vetro argentato, avanzo del massacro che della sua specie si fece durante il viaggio, due specchi, qualche scatola fiammiferi. Tutto fu molto bene accetto, e parve soddisfatto della nostra generosità. Il vecchio Desta, assunta un’aria di importanza che a noi pareva ridicola, faceva la spiegazione degli oggetti. Il governatore era affabile ma altrettanto sucido; dovemmo scusarlo quando ci fu spiegato che perdette da un mese suo padre, e in segno di lutto non s’era da quel funesto giorno più cambiata la camicia, e Dio sa fin quando non la cambierà. [p. - modifica]1. Gran croce cofta per funzioni religiose - 2. Lavabo da sagrestia [p. 107 modifica]

Le giornate passano piuttosto noiose in questo soggiorno, per quanto si cerchi di occuparsi vedendo il poco che v’ha di interessante e raccogliendo particolari sugli usi e costumi del paese. Siamo intenti a ridurre il nostro bagaglio, limitando il numero delle casse e facendo queste di non più di una trentina di chilogrammi ognuna, perchè una mula possa resistere a portarne alla lunga due. Parecchie di queste sono occupate dai regali che a nome del Comitato milanese si dovranno presentare al re e ai capi che saranno con lui. Molte varietà di oggetti si possono regalare, ma in genere i più accetti sono le così dette camice, o cinque metri di tela, oppure per maggior lusso la stessa misura di velluto o stoffe di seta a colori vivaci: fiammiferi, candele, bottiglie a cipolla col collo allungato e colorate, armi, coltelli, parasoli, carta da lettera.

Spesso i nostri lavori sono interrotti da seccatori che vengono a domandar medicine perchè ammalati, a farci semplicemente delle visite a titolo d’amicizia, ma in fondo in fondo per curiosità, per domandare qualcosa in regalo, od almeno per bere un bicchierino di liquore, oppure per proporci a comperare qualche lavoro in argento, di che però pretendono tre volte il valore.

Faccio una visita a un tal Mercher, che avendo vissuto qualche tempo in India parla benino l’inglese ed è dragomanno del re. Abita un bel tucul, vasto, il cui soffitto è abbastanza ben fatto con travi, in modo da nascondere la paglia che costituisce il tetto. La forma di queste abitazioni, quando sono un po’ grandi e belle, all’interno è una perfetta croce segnata da muri: da uno dei rami si entra, al centro è sala da conversazione dove si sta seduti su pelli o tappeti, negli altri rami sono gli angareb per la notte, ed essendo l’esterno circolare, ne restano quattro angoli destinati a ripostiglio e scuderie.

Altra conoscenza fatta in questi giorni è quella del signor [p. 108 modifica] Zaccaria, cristiano cattolico, che in gioventù visse quattordici anni alla missione abissina a Roma, per cui parla perfettamente l’italiano ed ha riportate care memorie dal nostro paese.

Furono queste due conoscenze preziose per me, perchè potendo con loro discorrere potei raggranellare una massa di importanti nozioni. Le descrizioni dell’ultima epidemia sono spaventevoli: oltre le cagioni di cui già dissi, si aggiunse quell’anno, ad accrescere la carestia, una invasione di cavallette che tutto distrusse. La popolazione era affievolita dal digiuno, quindi appena si sviluppò il tifo, trovando un terreno così preparato, estese con tanta violenza le sue radici che produsse tale spavento e scompiglio che si lasciavano i morti a putrefare nelle case o tuttalpiù si mettevano fuori la porta, confidando nella pietà degli altri per la sepoltura, e quando anche questa aveva luogo, non era che un coprire il cadavere d’uno strato di pochi centimetri di terra. Nelle chiese poi, dove generalmente sono i cimiteri, si portavano i morti e si lasciavano l’uno sull’altro, talchè i preti che dovevano avervi contatto ne furono tutti vittime, tranne rarissime eccezioni.

Non sapevo trovar ragioni alla differenza del modo in cui si portò l’armata abissinese nelle due guerre, contro gli Inglesi e contro gli Egiziani, ma con dell’insistenza nelle domande su questo argomento potei averne qualche spiegazione. Innanzi tutto contro gli Egiziani trattavasi di guerra di religione, e quando v’ha di mezzo il fanatismo tutti accorrono e si sfida indifferentemente la morte. Parecchie volte ho sentito degli Abissinesi ripetere che se venisse un’armata cristiana qualunque, resterebbero indifferenti, ma se tornassero i Mussulmani troverebbero tutti disposti a morire per respingerli. Teodoro poi, colle sue originalità e crudeltà che somigliavano a pazzie, s’era allontanato gran parte del suo popolo. Tutto il Tigré con a capo l’attuale re era favorevole agli Inglesi, lo Scioa era indipendente, il Goggiam non [p. - modifica] Pianta della Cattedrale di Adua
a — entrata alla prima cinta
b.b — cimitero
c.c — capanne pei poveri
d — passaggio alla seconda cinta
e — chiesa
f — campanile
g — passaggio al segmento riservato
h.h — sagrestia e deposito tesori reali
[p. 109 modifica] ancora sottomesso, e buona parte dell’Amara indignata contro il sovrano: alla battaglia, se così si può dire una semplicissima scaramuccia, di Magdala, Teodoro era seguito da pochissimi fedeli.

La campagna degli Inglesi fu quindi presso a poco una marcia trionfale. Gran parte della popolazione che sarebbe rimasta indifferente e fors’anche all’occasione avrebbe militato in difesa del proprio paese, fu sedotta dalla massa dei talleri che si spandevano a solo titolo di corruzione.

Non ultima delle cagioni fu poi anche il panico di trovarsi la prima volta a contatto con un nemico disciplinato, armato di tutto punto e accompagnato da batterie d’artiglieria.

Dove gli Abissinesi mostrarono realmente molto valore fu alla seconda battaglia contro gli Egiziani, a Gura. Dopo la sconfitta di Guda-Guddi, il Governo del Cairo voleva una rivincita, e mandò una seconda spedizione di circa 16,000 uomini, capitanata dal principe reale Hassan pacha. Da Massaua salirono per le vallate che più direttamente portano alla capitale del Tigré, e giunti al principio dell’altipiano etiopico, presso il villaggio di Gura, scelsero a loro campo un’altura isolata, che sorge quasi a delineare il limite fra l’altipiano e il principio della discesa. Costrussero strade per portarvi i cannoni, coronarono l’altura con un magnifico forte e con casematte, e fortificarono il versante verso l’Abissinia con trincee che nascondevano famosi pezzi d’artiglieria. Gli Abissinesi, forti di più che centomila uomini, a quanto si pretende, s’avviarono incontro al nemico e stabilirono il loro campo sulle alture circostanti l’altipiano, e rimpetto a quella occupata dagli altri.

Gli Egiziani scesero in campo aperto in atto di sfida: Re Giovanni allora, tagliando colla sua spada le pelli che tenevano le provviste d’acqua, gridò: figliuoli, se non volete morir di sete andatevi a cercar l’acqua oltre la linea nemica. Fu come fosse [p. 110 modifica] aperto un alveare, chè da ogni lato irruppero squadre di Abissinesi che in breve tempo invasero tutta la pianura. La lotta fu accanita, il numero e il valore la vinsero, e dopo sforzi incredibili, gli Egiziani dovettero ritirarsi nei loro forti lasciando sul campo una buona metà dei loro. Dopo tre giorni gli Abissinesi ebbero l’ardire, oso dire la temerità, di dar l’assalto alla collina fortificata, ma questa volta, i cannoni ebbero ragione, e dovettero ritirarsi. Stettero tre mesi le due armate spiandosi l’una coll’altra, ed alla fine avendo re Giovanni promesso che se il nemico usciva per ritirarsi non avrebbe avuto nulla a temere dal suo esercito, gli Egiziani se ne ritornarono a Massaua, certo poco soddisfatti di questa seconda prova.

Dopo queste due battaglie, re Giovanni, quantunque vittorioso e forte non volle inseguire il nemico, nè estendere di un palmo i suoi territorii. Gli Egiziani, egli disse, hanno invaso il mio Stato senza mandarmi una intimazione di guerra, io quindi ho il diritto di trattarli non come un esercito nemico che mi muove incontro, ma come una banda di briganti che venne ad assalirmi a tradimento: li respingo dunque, ma non degno continuare la lotta con loro; solo, ora che le ostilità sono aperte; mi riservo di attaccarli quando a me piacerà, senza necessità di mandate intimazioni e senza tema di mancare per questo alle regole della cavalleria e della guerra fra gente civile.

Il raziocinio, se si vuole, è giusto ed assai fino, e re Giovanni lo mantenne rifiutando ogni trattativa di pace.

Frutto principale di questa guerra, per gli Abissinesi, fu la presa di alcuni cannoni e di circa 15,000 fucili remington presi al nemico con buona provvista di munizioni. Queste però si tengono ben custodite, chè il giorno che fossero finite non v’ha modo di rinnovarle. Alcune volte si fabbricano da loro la polvere, ma cattiva e in poca quantità, e in mancanza di piombo usano delle palle che si fanno con pietre, munizioni che [p. - modifica]Aratro abissinese [p. 111 modifica] possono servire per i pochi fucili da museo che hanno, e coi quali non mi fiderei di sparare un colpo, ma cartucce non possono assolutamente procurarsene. Strano che questa gente, pazza per avere un’arma da fuoco, non ha confidenza a sparare i cannoni, e si risparmiò la vita ad una dozzina di prigionieri egiziani, per tenerli al servizio dell’artiglieria, frutto della vittoria.

L’acquisto dei quadrupedi per la continuazione del nostro viaggio è cominciato, e la mattina si vanno facendo delle cavalcate nei dintorni, che sono sempre aridi: nelle vicinanze il terreno è rozzamente coltivato ed ora preparato per la seminagione.

L’aratro è una semplice punta di ferro legata a due aste che son tenute dal lavoratore per la direzione, e dal punto di legatura si parte un’altra asta che va ad essere attaccata al primitivo finimento di due buoi: non si fanno che dei solchi superficiali e non si cura nemmeno di levare le pietre che natura ha sparse al suolo. Qualche piccolo cespuglio, specie di oleandri dal fiore piccolo bianco, alcuni palmizzi, dei fichi selvatici, qualche ulivo. In un solo cortile di Adua vidi una musa ensete, alcune mele granate e una vite. A nord e a sud-est della città due grosse masse di ulivi selvatici coprono delle loro ombre due piccoli villaggi, avanti al primo dei quali sta un grosso sicomoro ai rami del quale si usa appendere i disgraziati che vi sono condannati, supplizio però che ora è quasi fuori d’uso, servendosi invece della fucilazione.

La fauna non è ricca e poco c’è a divertirsi colla caccia: solo abbondano le jene che tutte le notti danno veri concerti coi loro urli attorno alle abitazioni. Falchi e avoltoi si aggirano spesso nello spazio, e di tale ardire che scendono alle volte fino a rubare la carne che si sta preparando per noi. Dei merli dalle penne metalliche a riflessi stupendi, specie di passeri dalla testa nera, piccoli uccelletti dal becco rosso, alcune lepri, lungo il fiume il grosso martino pescatore bianco e nero e il piccolo dai [p. 112 modifica] cento colori, qualche anitra e oca. Tutto però piuttosto raro; si direbbe che l’epidemia si è estesa anche a questi, od almeno ha consigliato loro aure più pure.

Fra gli oggetti che ci vanno portando per vendere, è curioso un bracciale d’argento dorato lavorato a filograna, alto circa quindici centimetri, e due scarpe dalla punta acuta e curva, pure in argento e dello stesso lavoro. Il primo è un distintivo che il re in benemerenza dona ai suoi generali, e se ne servono nei giorni di gran battaglia; le seconde sono usate dalle donne nei grandi ricevimenti, ma invece di calzarle, che sarebbe troppo incomodo, si fanno tenere sulle mani tese di un servo che segue sempre la sua signora.

Uno dei nostri servi accusa un giorno forte mal di capo, e il vecchio Desta ci dà una prova della scienza chirurgica del paese. Seduto il paziente coi gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani tese sulle orecchie, lo strinsero al collo con un panno arrotolato: il Dulcamara, appoggiato un rasoio al fronte vi diede un colpo con un bastone, ed aperse così una ferita dalla quale sgorgò copioso il sangue: due altri intanto appoggiando le rispettive ginocchia al dorso dell’operato lo stringevano al collo quasi volessero strozzarlo. Defluita una certa dose di sangue si chiuse il taglio con cenere. Ripetuta, se necessario, l’operazione il giorno dopo, pretendono basti a salvare dall’incomodo male.