Abissinia/Capitolo IV
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CAPITOLO IV.
Arrivano le mule. — Partenza per l’interno. — Indolenza dei camellieri. — Sorpresi dalle piogge. — Equipaggiamento. — Emozione notturna. — Un funerale. — Trattative noiose pei buoi da carico. — Ballo fantastico. — Grandiosità delle scene. — Si raggiunge l’Altipiano etiopico.
Il 3 febbraio arrivano finalmente le nostre mule, ed un orizzonte più chiaro comincia ad aprirsi alle nostre speranze.
Principia il lavoro per disporsi alla partenza: si distribuiscono le casse, si fa la scelta di quello che pratica e consigli ci suggeriscono di portare all’interno e di quello che stimato inutile sarebbe imbarazzo e nulla più il trasportare con noi. Torna nuovamente in campo la questione delle due strade, ma la prima scelta prevale un’altra volta; procuriamo i camelli pel bagaglio durante i primi giorni; riadattiamo alla meglio le nostre selle e specialmente le staffe troppo strette, che essendo gli Abissini scalzi usano introdurvi il solo pollice, e così siamo pronti pel giorno fissato.
L’otto mattina il nostro cortile era ingombro di casse e camelli; come al solito i camellieri si rifiutano di caricare lamentandosi del prezzo stabilito, poi dicendo i carichi troppo pesanti, tutte scuse per carpire qualche tallero di più e ritardare la partenza, ma la pazienza nostra non volle resistere a tante prove e quando mostrammo della risolutezza e domandammo giudice il governatore, ogni difficoltà fu appianata, anzi, fu in giunto al naib o capo dei territorii che dovevamo attraversare coi camelli, di accompagnarci fino ai confini dei suoi dominii; e perchè i nostri ordini fossero eseguiti ci fornì una scorta di quattro soldati, che per dir vero sono d’imbarazzo più che d’aiuto.
Verso le due, una fila di una quindicina di camelli col bagaglio nostro e della famiglia Naretti, scortato dal nostro bravo Tagliabue, che colle sue lunghe gambe, armato di tutto punto, inforcando una magra mulettina, poteva rappresentare un bellissimo Don Quichotte, partiva per Omkullo, dove ci avrebbe aspettati per la sera. Alle cinque infatti anche le nostre mule erano sellate e la lunga carovana cui si erano aggiunti parecchi amici che ci vollero accompagnare fino alla prima fermata, usciva per la diga salutata da mezza Massaua che echeggiava delle grida di evviva, salute, buon viaggio e felice ritorno. Eccoci finalmente a quel sospirato momento in cui si può realmente dire il nostro viaggio comincia; quanti pensieri, quanti sogni in quel vasto orizzonte che mi sta davanti, quante speranze vanno a realizzarsi, quale fantasmagoria di cose nuove e interessanti va a schiudersi davanti agli occhi miei; ma in pari tempo ogni passo mi allontana dai miei cari, e dietro me quasi si chiude ogni comunicazione con loro.
Queste idee mi turbavano la mente, ma una voce misteriosa mi suggeriva d’essere uomo, di farmi superiore a me stesso e mi faceva trovar svago nell’ammirare la scena che mi circondava, e forza nelle speranze e nelle soddisfazioni dell’avvenire. A notte fatta arriviamo ad Omkullo, dove troviamo le casse disposte presso il villaggio, e qui stabiliamo il nostro accampamento; una frugale, ma allegra cena, finì coi brindisi e i saluti agli amici che ci avevano accompagnati, e che con una splendida luna se ne tornarono in città, lasciando in noi profondo il desiderio di stringere loro ancora una volta le mani prima di far ritorno in Europa.
Domenica 9 febbraio: Prima di giorno siamo pronti, ma il naib viene ad avvertirci che non si può partire prima di mezzogiorno, avendo i camelli nulla mangiato la notte e il giorno innanzi; pur troppo acconsentiamo, ma con questa gente non bisognerebbe mai dar retta alle chiacchere, ed usare invece prepotenza e minacce. Passano infatti le dodici, la una, le due, si grida, si strepita, si mandano a cercare i camelli, ma con tutta pace non si riesce a mettersi in cammino che dopo le tre.
La tappa fissata era Sahati, a quattro ore di distanza, ma ecco che dopo due ore la carovana si ferma, e adducendo mille motivi non si vuol più proseguire; abbiamo un bel gridare, ma i camellieri infischiandosi altamente di noi, scaricano e lasciano i camelli liberi al pascolo.
Forza ne è dunque pernottare su un piccolo ripiano, trovandoci qui fra alture quasi aride e solo popolate da acace nane. L’aspetto del terreno è vulcanico; si cammina su detriti granitici.
Qui mi sono convinto della necessità di mantenere la bastonatura fra queste popolazioni, e credo che il maggior torto che potrebbe farsi il Governo egiziano sarebbe di levarla. Non è gente cattiva, ma tanto indolente e facile all’inganno che davvero strappa le bastonate, e le rende la cosa più naturale e giusta anche per chi sente ripugnanza a battere un suo simile. La notte è splendida per la luna, quindi per acquistar tempo si stabilisce di partire col poetico chiarore e poche provvigioni, per arrivare in giornata a Sabarguma e farvi le pratiche necessarie per avere i buoi che devono quindi innanzi rimpiazzare i camelli.
Il naib trova giusta la nostra decisione, imparte gli ordini ai camellieri perchè ci seguano e ci raggiungano l’indomani mattina, quindi si mette alla testa della nostra piccola carovana che parte all’una e mezzo antimeridiane del dieci. Man mano che avanziamo, le alture si fanno più erte e la vegetazione più fitta; attraversiamo frequenti letti di torrenti dove le sponde sono coperte da stupenda verdura. Alle 3 e mezzo siamo a Sahati, dove ci dicono è forza fermarsi per lasciar bere e pascolare le mule, e mentre sotto un gigantesco albero vediamo rischiararsi l’atmosfera per l’alba che si avvicina, i nostri camelli ci sorpassano; ripartendo alle 5 e mezzo li raggiungiamo dopo due ore, mentre stanno disponendosi al loro alt in un vasto altipiano, e dove ci fermiamo noi pure per una piccola refezione nostra e delle rispettive cavalcature. In questo tragitto nessuna abitazione tranne un accampamento di beduini pastori, che, essendo nella giurisdizione del naib che ci accompagna, vengono ad offrirci dell’eccellente latte. Alle 10 tutti uniti ci rimettiamo in strada, e dopo pochi passi ci si presenta un’ertissima salita che ci porta alla vetta di un colle, è così costeggiando alcune alture e salendone altre, dopo un paio d’ore ci si presenta la vasta pianura di Aylet alla quale discendiamo per attraversarla in parte, e fermarci presso un villaggio diviso in tre gruppi di capanne e chiamato Dambe. La vegetazione fresca e rigogliosa, il suolo coperto da splendida erba, uccelli d’ogni canto e colore, buoi a masse e miserabili pastori dal tipo snello, coperti da pochi cenci. Ogni gruppo di capanne è circondato da una siepe di piante spinose, svelte e secche; appena giunti e scaricate le mule, ce ne andiamo cercando nella caccia il necessario pel pranzo, ma allontanati appena da poco dal campo, siamo sorpresi da un acquazzone veramente torrenziale; ritorniamo e ci ricoveriamo sotto la tenda dei Naretti. Qualcuno dei camelli arriva, e con loro la cattiva notizia che nella salita cinque sono caduti esausti e non possono continuare, per cui siamo costretti di mandare muli e buoi, che verso sera tornano colle casse, delle quali per buona sorte nessuna sofferse. Continua un vero diluvio e da ogni lato siamo circondati da nubi e nebbie; nel campo tutto si bagna, il suolo si fa pantanoso, i poveri servi, coperti come sono da un meschino pezzo di tela, non sanno dove ricoverarsi; l’appetito si fa sentire, ma non si possono tener accesi i fuochi tanto è l’infuriare della pioggia. Il naib fa mettere a nostra disposizione una capanna, ma tanto piccola e lontana dalle nostre robe che non possiamo approfittarne, per cui piantiamo anche noi la nostra tenda, e sotto questa siamo forzati di accendere i fuochi per la cucina. Non è a credersi la massa di noie e di imbarazzi nel trovarsi così sorpresi da un cattivo tempo che perdura; nello spazio di un’ora ho avuto una tale lezione su quanto è necessario in questi viaggi, che davvero non dimenticherò mai più; spero anzi mi possa tornar utile in altre occasioni.
Quando si va ad avventurarsi in viaggi di esplorazione, arriva il giorno in cui tutto, provviste ed equipaggiamento, può essere esaurito, ed allora è forza adattarsi agli usi del paese, vivere da bestia più che da uomo, e bisogna anzi esservi preparati; ma quando si intraprende invece un viaggio che ha la pomposa etichetta di viaggio in Africa, ma che deve limitarsi a paesi dal più al meno già noti agli Europei, e dei quali si possono e si dovrebbero ben conoscere gli usi e i costumi, il trovarsi il bel primo giorno nelle circostanze in cui ci trovammo noi, è proprio cosa ridicola, perchè merito non se ne acquista di certo, la spedizione non ne ha vantaggio alcuno, anzi danno, perchè ci va di mezzo la salute di chi viaggia, e d’altronde impone a queste popolazioni il far vedere come si viva da gente civilizzata. Una delle cose più necessarie, e che consiglio a chiunque voglia intraprendere di simili spedizioni, è un letto da campo; se ne fanno ora di piccoli e leggieri che proprio il disturbo del portarli è nulla, mentre i vantaggi ne sono incalcolabili, perchè per quanto si sia provvisti di tenda, quando si trova un suolo che è fango od erba inzuppata da settimane di continua pioggia, lo sdraiarvisi per passarvi la notte non è certo la cosa più Fac-simile di pittura da chiesa aggradevole nè igienica, e le conseguenze possono avere grande influenza sulla continuazione del viaggio. Quelli che hanno fatto la loro pratica sui libri, e quelli che sono troppo facili agli entusiasmi, ridono a chi pretende che in Africa si possa viaggiare con certi comodi relativi, e plaudono a chi grida che, presso a poco come un Giobbe, si può attraversare il continente; io mi permetto invece di dire che nè la necessità del confortabile, nè l’imbarazzo del bagagliume non devono essere mai ostacolo al proseguire, ma che se seriamente si considera quanto costano certi comodi e si pensa alle conseguenze che se ne possono trarre, il procurarseli è un vero impiego più che ad usura, e il non esserseli procurati almeno dapprincipio, disposti però a privarsene quando le circostanze lo impongano, non è prova di soverchio ardire, ma di assoluta inesperienza. Il merito e la soddisfazione di un viaggio come questo, è di avanzare il più che si può, ed a me pare meglio conseguito l’intento spingendosi solo cento passi più avanti, senza poter far pompa di tanti disagi, che fermandosi a mezza strada perchè una buona febbre vi ha proibito di continuare.
I fuochi ci avevano un po’ asciugato il suolo sotto la tenda, ma questa invece imbevuta d’acqua, cominciava a lasciarla filtrare. Così alla meglio ci disponemmo per passare la notte, chè il sonno e la stanchezza la vincevano certo su tutto il resto, ma appena stavamo per addormentarci, grida, strilli, fucilate, ci risvegliano di soprassalto; il campo è tutto in confusione, perchè le mule furono attaccate, a detta d’alcuni, dal leopardo, e a detta d’altri, dalle iene. Il baccano che aveva turbati i nostri sonni aveva pure messi in fuga gli assalitori, e mentre constatiamo la leggiera ferita fatta al collo di una mula, il naib ci manda ad avvertire che stessimo all’erta, perchè da qualche giorno i pastori avevano udito il leone, per cui stabiliamo di fare alternativamente una guardia di due ore.
Eccomi dunque convertito in sentinella con una pioggia continua a compagna e l’occupazione di ravvivare, per quanto si poteva, i fuochi accesi per allontanare gli incomodi visitatori. Il fucile restò inoperoso, e il silenzio fu solo turbato verso mezzanotte da grida che partivano da uno dei gruppi di capanne, e che sapemmo essere i pianti delle donne per un morto.
Martedi 11. Il cielo continua a favorirci le sue grazie. I pianti pel morto continuano, e ci avviciniamo per vedere la cerimonia.
Una trentina di megere schifose, con conterie e grossi anelli d’argento intrecciati ai capelli, coperte solo da logori cenci, e alcune con un bambino appeso al dorso con una pelle, continuano a ballare stranissime danze simili a rozze quadriglie, accompagnandosi con una monotona cantilena interrotta da acuti gridi. Girano continuamente in un ristrettissimo spazio diventato un vero pantano, nel quale di quando in quando si sdraiano per rimettersi poi accovacciate a riposare. Di tempo in tempo dalle capanne vicine arrivano disposte in fila altre megere saltellando, e prima di entrare nel circolo delle contraddanze, tutte devono stendersi al suolo. A circa dugento metri era il cimitero dove si scavò la fossa: una cinquantina di uomini in doppia fila stavano davanti a questa; dalla capanna partì il cadavere avvolto in panni bianchi, portato su una barella e accompagnato da alcuni parenti e amici; il figlio era fra questi e gridava e piangeva invocando il genitore, mentre i più fedeli fra i suoi compagni lo andavano incoraggiando scuotendolo con rozze maniere e quasi maltrattandolo. Quelli che stavano presso la tomba andarono ad incontrare a mezza strada il convoglio e subentrarono a portare il morto che, giunto innanzi alla fossa, vi fu deposto e coperto con terra e grosse pietre, mentre a pochi passi si faceva il sagrificio di un bue e nel tempo stesso si recitavano preghiere. Tutti si riunirono poi in gran circolo presso il camposanto, e in onore del morto divorarono le carni della vittima, ancora fumanti di vita.
Tranne qualche breve sosta, l’acqua continuò tutta la giornata, per cui fummo obbligati di passarla tutta quanta inoperosi.
Mercoledì 12. Fino da buon mattino cominciamo a predicare che assolutamente in giornata vogliamo partire, e il naib vista la nostra risolutezza, si adopera molto per noi, e ci procura i buoi e somari necessarii. Ci voglion delle ore di noie prima di riuscire ad accordarsi con questa gente pel prezzo di trasporto, e quando si crede che tutto sia conchiuso, ecco che con un pretesto qualunque vi fanno tornare da capo, un po’ per differire la partenza, che è nell’indole loro di rimettere sempre a più tardi quello che si deve fare, e un po’ perchè sperano che stancando così il viaggiatore, questi abbia a cedere e finire col pagare qualcosa di più. Intanto grida, proteste, accordi, poi nuovi rifiuti, consigli fra di loro che si raccolgono in circolo sotto un albero, quindi nuove proposte, minacce, rottura completa di trattative, poi ripacificazione, cose tutte che fanno perdere delle intiere giornate, e farebbero scappare la pazienza al più santo dei santi.
Il caricare buoi non è inoltre la cosa più facile, non avendo questa gente i basti necessarii e non essendo questi animali troppo addestrati a simile lavoro; quindi mentre si va preparando la carovana vedi un gruppo di buoi che tranquillamente se ne stanno col loro carico sul dorso ad aspettare il nuovo destino, un altro invece che se ne va per tutt’altra direzione che la giusta, buoi che non vogliono sentirsi il peso sul dorso e fanno ogni possibile per liberarsene, altri che fuggono trascinando le casse, altri che le calpestano coi piedi o a colpi di corna quasi a maledire l’incommodo: una vera confusione che farebbe ridere, se non si pensasse al tempo che costa, e alle conseguenze che possono avere simili maltrattamenti sulle provvigioni in cui molto si confida.
E qui non credo inutile ripetere un consiglio a chi volesse intraprendere simile viaggio, di procurarsi cioè a Massaua tutte le mule necessarie alla carovana e rendersi così indipendente da questi mezzi di trasporto noiosi, dispendiosi e poco sicuri.
Finalmente alle dodici e mezza partiamo noi pure in coda alla maggior parte del bagaglio, lasciando due dei nostri a cura di quello che restava. Si prosegue su terreno ondulato, avvicinandosi in direzione ovest ai monti, fra folta vegetazione. Dopo un’ora siamo in un allargo di vallata detto Sabarguma, dove il naib e i condottieri dei buoi vorrebbero fermarsi, ma i nostri servi trovano pericoloso il farlo per le febbri, a causa dell’umidità della posizione; d’altronde ci pare ridicolo far sosta dopo sì breve tappa, e facciamo quindi proseguire tutta la carovana. Ci ingolfiamo nelle vallate, e cominciamo un’ertissima salita: dai due lati foltissime foreste.
Il vecchio Desta, un abissinese nostro servo fin dai primi giorni che giungemmo a Massaua, un bel tipo originale, sempre disposto allo scherzo e pazzo per portare un fucile, cammina alla testa della carovana e ci racconta le sue prodezze nell’ultima guerra, pretendendo aver fatto saltare la testa a quattro soldati egiziani, portando, nel dirlo, l’indice alla bocca poi al traverso della gola, quasi aggiungendo di fare che l’eco non si ripercuota, per non averne tagliata la testa; ma giunti al preteso confine abissinese, fece quattro capriole di gioia, gridò forte le sue prodezze e fece un’invocazione alla sua patria, al suo re, alla libertà. La pioggia comincia dirotta più che mai, e ne è forza godercela in santa pace. Il nostro Desta pretende che un leone gli ha attraversata la strada a pochi passi, ma lui solo riesce a vederlo, e alla nostra buona fede a crederlo. La salita è ertissima, il sentiero malagevole, pietre, tronchi, radici lo attraversano in ogni senso, e i nostri pensieri corrono alle nostre casse che dovranno dar prova di gran robustezza per rimanere inco lumi. Alle quattro arriviamo su di un vasto altipiano nel mezzo del quale piantiamo la tenda di Naretti, la prima arrivata. Qualche bue comincia a vedersi, e per fortuna una cassa di provvigioni, chè eravamo dalla mattina con un po’ di latte. C’è la cassa, ma la chiave la tiene l’amico Bianchi che restò alla sorveglianza del bagaglio; ma la buona stella ci fa però trovare una chiave che si adatta, e possiamo così pensare un pochino anche a ristorare le nostre forze.
Altri buoi colla nostra tenda arrivano, ma Bianchi fedele alla consegna restò presso alcuni buoi, che esausti, non poterono superare l’erta salita. La notte si fa buja, piove, le foreste abbondano di leoni, leopardi e jene, per cui siamo assai inquieti per la sorte del nostro compagno. Vorremmo andargli incontro, ma il fanale è nella cassa, e con questo buio fitto non vogliamo arrischiare di perderci tutti quanti: si suonano le trombe, si sparano diverse fucilate, ma nessuna risposta. Finalmente da un servo sappiamo che Bianchi sta fermo con quattro o cinque altri uomini, e questo ci tranquillizza alquanto. Nello stesso altipiano sono accampate due altre piccole carovane di mercanti che vanno alla costa, per cui la notte abbiamo un bello spettacolo di tutti i fuochi che nelle varie direzioni illuminano gli accampamenti e il paesaggio circostante.
Giovedì 13. La pioggia ci lascia un po’ di tregua, ma il sole è coperto da nubi. Arriva qualche bue ancora, poi il nostro Bianchi che passò la notte sulla strada, sdraiato su qualche cassa e completamente esposto alla pioggia senza una briciola di pane. Lo rifocilliamo, e subito scompare la tinta giallognola che le sofferenze avevano impressa sul suo volto. Alle 10 arriva pure il naib, cogli accompagnatori dei buoi che non vogliono proseguire, accampando nuove pretese che noi incarichiamo il naib stesso di appianare. Si portano sotto un grande albero, presso il tronco stendono un tappeto pel naib, e tutti gli si dispongono d’attorno accovacciati in circolo. Grandi discussioni poi vengono a riferirci, tornano al parlamento, e finalmente si riesce ad una combinazione accettabile; ma i buoi sono stanchi, e per oggi non si può proseguire. Ce la passiamo dunque facendo un po’ di caccia: l’erba è folta e altissima e vi piove da parecchie settimane, per cui si può pensare che magazzino di umidità abbiamo per letto. Ad onta di questo però la salute nostra è buona, e solo qualche servo accusa un pochino di febbre. Questa posizione è detta Ghinda, a circa 950 metri sul mare.
Venerdì 14. Il tempo è chiaro ed appena giorno si comincia a far caricare i buoi che alle otto sono tutti partiti, e noi, salutato il naib che se ne ritorna, essendo qui già fuori dei confini della sua giurisdizione, ci mettiamo in strada in coda alla carovana. Il sentiero che seguiamo non potrebbe essere più pittoresco, il paesaggio che attraversiamo grandioso e selvaggio: imponente poi ed originale la lunga fila delle mule, buoi e somari con tutti i loro guardiani che li guidano a forza di urli e di fischi, e la sequela dei nostri servi dei quali ognuno porta un fucile, una lancia, uno scudo, una spada abissinese od un altro strumento qualunque di difesa; non due vestiti ugualmente, per quanto a metà perfettamente identici, perchè nudi. Chi una camiciola, chi una pezzuola alla cintura, chi dei pantaloncini, chi un fazzoletto rosso in testa, chi un gilet, alcuni con folte chiome, altri colla testa rasa, saltavano, correvano, gridavano, di quando in quando risuonava qualche colpo di fucile. Era uno spettacolo unico, impossibile a dirsi.
Saliamo sempre: la vegetazione va continuamente crescendo, siamo letteralmente fra due mura di verdura, e spessissimo entro una vera galleria: foglie d’ogni forma, dimensione e colore, tinte svariatissime, liane, fiori, alberi giganteschi, uccelli, scimmie che si arrampicano. A diverse riprese attraversiamo un piccolo corso d’acqua ed alcune volte facciamo strada del suo letto. In alcuni punti il suolo è di un verde chiarissimo e lucente, e vi sono sparse piante dalle foglie di verde cupo; ciò che colla luce del sole produce bellissimi effetti. Enormi tronchi sporgono spesso sulla via e minacciano di rompere il naso a chi non ha gli occhi bene aperti. La strada è un vero sentiero e nulla più, dove nessun uomo ha rimossa mai la più piccola pietra. La causa di questa folta vegetazione è l’essere questa una zona che partecipa alle piogge della costa ed a parte di quelle dell’interno: le piante principali mi parvero le acace, l’ulivo selvatico, le euforbie, crataegus, lauri, papiri ed una miriade di fiori e foglie svariate. Alle dodici e mezzo siamo a Madiet, un semplice allargo della valle che percorriamo, e dove accampiamo, chè proseguendo, per lunga tratta non si troverebbe erba nè acqua. Siamo a circa 1330 metri di elevazione. Verso le due giunge la solita pioggia che dura pochissimo, essendo già vicini al limite dove regna la buona stagione.
Dopo pranzo i condottieri dei buoi vengono avanti le nostre tende e ci danno uno spettacolo di danza selvaggia: si dispongono su due file in modo da formare un rettangolo aperto dal lato ove siamo noi, e mentre tutti cantano una cantilena interrotta da battimani e gridi, due o tre eseguiscono la danza inseguendosi nel rettangolo, camminando con strane movenze, saltellando e facendo capriole: dopo qualche minuto, uno si ferma e girando la testa si contorce con movenze muscolari principalmente dei fianchi e delle spalle: parecchi allora gli si fanno d’attorno, e saltellando e strillando gli stendono le braccia sul capo, coprendolo di battimani. Così finisce una scena e ne principia subito un altra con altri protagonisti.
Fattosi buio, due dei nostri servi ci fanno una pantomima fingendo lo sciacal inseguito dal leone: per imitare questo ultimo un ragazzotto si avvolse in quattro cenci, si aggiustò sul capo una pelle in modo da far cadere i due orecchioni e si prese in bocca due bastoncini che accesi all’altro estremo fingevano gli occhi, ed imitando il passo e il grave respirare del re degli animali, percorreva il campo inseguendo il povero cane selvatico che per paura abbajava.
Sono scherzi semplici per chi li legge, ma che hanno del grandioso e dell’originale per chi li ha visti nel loro ambiente.
Due piccole carovane di mercanti abissinesi, fidenti forse nel detto l’unione fa la forza, si sono unite a noi, per cui il campo è estesissimo questa sera e rischiarato da dodici grandi fuochi, e nelle mie ore di guardia mi godo un imponente spettacolo. Le nostre tende, il bagaglio sparso in diversi punti, le capanne improvvisatevi d’attorno dai servi con pochi rami e pelli, tutti i buoi, muli e boricchi concentrati in diversi gruppi, i gruppi di beduini accovacciati attorno ai grandi falò che illuminano la scena persa nella solitudine di una valle, fra monti coperti da foreste abitate da fiere: in qualche brigatella si canta, in altra si dorme, in alcune si balla e qualche volta si alternano le danze ad esercizii di scherma, fingendo alcuni di attaccare un nemico che si difende colla propria lancia e collo scudo, facendo finte, assalti, retrocedendo, avanzando, inginocchiandosi per essere coperto dallo scudo, fingendo cadere ferito per poi alzandosi d’un tratto riattaccare di sorpresa il nemico, e di quando in quando interrompendo questa fantastica scena con grida acute e con battimani.
Sabato 15. Appena giorno comincia la carica del bagaglio e alle otto ci mettiamo noi pure in marcia. Cresce sempre, man mano ci innalziamo, il fitto e il gigantesco della vegetazione ed aumentano pure le varietà: vedo grandissime ortiche in fioritura, vaniglie, pelargonii, glicine, il fico selvatico, molti aloe di diverse specie, l’agave filifera che dà il filo vegetale, la fuxia comune ed una fuxia parassita che orna di mille fiorellini rossi i tronchi dei grossi alberi dai quali succhia la vita, crataegus, lauri, moltissime varietà di rubinie, opunzie, salvie, cereus. Queste parvemi almeno di aver riconosciute, senza garanzia però di non aver preso un granchio nel classificarle.
Ad un certo punto la valle ci appare quasi chiusa e ci arrampichiamo sull’altura che pare contrastarci il passaggio. La salita è ertissima, tale che bisogna spesso scendere dalle nostre cavalcature: il sentiero sale a zig-zag fra foreste, e stupendo è l’effetto della lunga carovana che lo percorre animando la scena selvaggia e del burrone che ad ogni nostro passo aumenta dietro noi: guardando la strada che veniamo di percorrere l’occhio si perde in un vero pozzo di verdura. Alle undici e mezzo arriviamo al passo del colle, che si fa entro una piccola trincea, il solo punto forse dove in tutta questa strada si veda traccia di lavoro d’uomo, e ci si presenta un nuovo panorama: non l’imponenza dei ghiacciai della Svizzera, non il grandioso delle nostre montagne scoscese e rocciose e intarsiate da laghi o da corsi d’acqua, ma una sequela infinita di monti conici che si vanno man mano innalzando, e coperti tutti da dense foreste.
L’altezza del passo è circa 2500 metri. Discendiamo sul versante di un’altura ed a circa mezzogiorno ritroviamo il resto della carovana ferma in un punto detto Machensie, dove abbiamo la buona notizia che per mancanza di acqua e erba, i buoi avrebbero ancora proseguito. Dopo un po’ di riposo ci rimettiamo quindi in marcia verso le tre. Altra salita assai lunga e forte: la vegetazione meno rigogliosa, mancanza quasi assoluta di vita animale. Dopo un’ora e mezzo siamo alla vetta di un secondo passaggio di catena di monti ed entriamo nella provincia dell’Amassen della quale ci profetizzavano mirabilia, ma troviamo invece che tutto è bruciato e sterile in questo versante: rocce rosse per ferro aggiungono ancora maggior forza all’aspetto deserto: ci si presenta un villaggio e lo avviciniamo; è Asmara, in gran parte distrutto dal fuoco durante un’ultima rivolta di questa provincia. A poca distanza stabiliamo il nostro campo, dove subito accorre tutta la popolazione, avanzo delle stragi infami, chi per curiosità, chi per offrirci a comperare qualche montone. Siamo qui a 2300 metri: lungo la via percorsa devo notare il predominio delle euforbie che raggiungono proporzioni alle volte colossali: portano fiore giallognolo, qualche volta rosso: fu tentata la speculazione di raccogliere l’umore bianco che geme facendo un’incisione al tronco, e che servirebbe per non so quale industria, ma non se ne potè mai trarre bastante profitto.
Alla sera sorge un vento freddo che fa scendere il termometro a 10°, e la notte è pure fredda e umidissima.