Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Libreria con varie statue, geroglifici ed istromenti inservienti allo studio astronomico antico, con scalinate laterali a vista; ringhiera ed armadio grande nel mezzo, sopra di essa, in cui sono rinchiusi i libri scritti di mano di Zoroastro.

Sidone e Corina.

Corina. Sì, amabile Sidone, sì, astronomo sapiente,

Vi venero e confesso che avete una gran mente.
Dissi parole, è vero, che a voi fer poco onore,
Ma scherzo volentieri, che son di lieto umore;
Ora che siam fra noi, or che parliam sul sodo,
La virtù vostra ammiro, il saper vostro io lodo.
(Tanto più lo derido, quanto di laudi abbondo).

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Sidone. Corina mia, credetemi, son uom che pesca al fondo.

Pensate voi che appieno scoprir non sappia il core
D’una che coi disprezzi vuol mascherar l’amore?
Sì, lo so che mi amate; lo so che siete accesa
Della virtù sublime che ho dai pianeti appresa;
Ardon per me, qual voi, cento donzelle e cento,
Ma sogliono il lor fuoco scoprire in un momento.
Odio le debolezze del femminile ingegno,
Mi piace un po’ d’amore, unito a un po’ di sdegno;
Onde i dispregi vostri che altrui parriano amari,
Ora i teneri affetti mi rendono più cari.
Corina. (Sì, sì, giubila e godi). Ma come mai vi è dato
Di penetrar nel core, con gelosia celato?
Sidone. Bella domanda in vero! Un indovin da poco
Sarei, s’io non scoprissi d’una fanciulla il foco.
Ai segni della fronte, al brio delle pupille,
Conosco le inquiete intime tue faville.
Veggo in quel roseo labbro, veggo in quell’occhio moro
Di bella verecondia pregiabile tesoro.
Ecco un segno di Venere vicino al manco ciglio,
Ecco un neo che ha formato di Venere il bel figlio.
E a questi vaghi segni dalla natura esposti
Altri ve ne saranno consimili e nascosti.
Corina mia, so tutto, so quel che voi pensate:
Al buio e chiusa in camera, so quel che dite e fate.
E so che qualche volta in certe ore fatali
Vi dan qualche tormento gli effetti matricali.
Corina. (Oh stolido indovino!) Via, col vostro talento,
Ditemi quel che penso in questo tal momento.
Sidone. L’impegno è un po’ difficile, ma se ci penserò,
Forse darò nel segno, e l’indovinerò.
Veggo ridente il labbro, veggo rossiccio il volto,
Vergognosetto il ciglio. In fede mia ci ho colto.
Ora in questo momento pensate fra di voi
Che stabilir potriasi qualcosa in fra di noi.

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Che dell’affetto vostro non è Sidone indegno.

Ah! che dite? ridete? Sì sì, colto ho nel segno.
Corina. (Oh oh! sei pur lontano). Dirò, per dire il vero,
Qualche cosa consimile mi passa pel pensiero;
Ma quel che in questo punto mi va per fantasia,
È la brama di apprendere un po’ d’astrologia.
Sidone. L’ho detto. A me pensate. Che sia la verità,
Voi siete innamorata di mia capacità.
E se di tale scienza vi accende il nobil estro,
È segno che a voi sembra amabile il maestro.
Sì, gioia mia carissima, son pronto ad istruirvi,
Degli arcani astronomici son pronto ad arricchirvi.
Ecco la biblioteca dei perspicaci ingegni,
Ecco i sette pianeti, ecco le stelle e i segni,
Ecco i libri astronomici. Corina mia vezzosa,
Principiam la lezione; vi dirò qualche cosa.
Corina. Vorrei che m’insegnasse vostro saper stupendo
Ad alzare un oroscopo.
Sidone.   Roscopo? Non intendo.
Corina. E pur so che l’oroscopo parte è d’astrologia.
Sidone. Sarà una qualche stella, ma non so dir qual sia.
Corina. Non è stella altrimenti; ma oroscopo si dice
Una figura, un punto, che l’avvenir predice.
Sidone. Ora ora vi capisco. L’arospago sarà
L’indovinar gli eventi dalla natività.
L’operazion mi è nota. Eccomi qui, a drittura,
Son pronto, se volete, a alzarvi la figura.
Corina. Per me non son curiosa. Vorrei vedere espressa
La sorte che ha da avere Nicotri principessa.
Di questa mia padrona vorrei sapere il fine,
Se un dì sarà contenta colla corona al crine,
O se dalla straniera, ch’è uno spirto orgoglioso,
Le verrà tolto un giorno lo scettro dello sposo.
Sidone. Veramente, per dirla, fra tanti libri e tanti
Credo che non si trovino gli eventi dei regnanti.

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Là sopra in quella stanza, chiusa da aurate porte,

Vi è il libro dove è scritta dei principi la sorte.
Là dentro il sapientissimo nostro regal sovrano
Ha collocati i fogli scritti di propria mano.
Letti non li ho finora, ma indovinar mi pare
Ch’ivi le regie zifre1 s’avriano a rilevare.
Andiam, se ciò vi aggrada, i segni e le figure
A contemplare uniti.
Corina.   (Che sciocco!) Andiamo pure.
Ma son schiuse le porte?
Sidone.   No, no, sono serrate,
Ma dal sovran le chiavi a me fur consegnate,
Acciò ch’io, che degli altri vanto maggior sapere,
Servissi Semiramide curiosa di vedere.
Corina. Per dir la verità, sono curiosa anch’io.
Sidone. Venite a soddisfarvi, venite, idolo mio.
Che non farei, mia cara, per quel bel volto amato?
Astro, stella, fenomeno! (con tenerezza
Corina.   (Oh astrologo sguaiato!)
Sidone. Andiam. (s’incamminano verso le scale, e salgono
Corina.   Sì, sì, vi seguo. (parlando sulla ringhiera
Sidone.   Venere ci conduce.
Noi siam le vaghe stelle di Castore e Polluce.
Corina. (È godibile il pazzo). (da sè
Sidone.   Che sorte, che fortuna!
Io sono l’aureo sole, tu sei l’argentea luna.
Corina. Bravissimo, Sidone.
Sidone.   Entriam nel chiuso loco.
Corina. (Curiosità mi sprona). (entra
Sidone.   Zitto. Aspettate un poco.
Parmi sentir che alcuno s’inoltri a questa stanza:
Teocrate, Cleonte, Lisimaco s’avanza.
(a Corina, verso la porta

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Fermatevi là dentro a rivangar que’ fogli:

Chiudete, e non fiatate. Sempre ci sono imbrogli.
(socchiude la porta e scende bel bello

SCENA II.

Teocrate, Cleonte, Lisimaco e Sidone.

Cleonte. Per grave affar di stato qua vi raccolsi, o amici.

Deh! m’assistan di Giove i desiati auspici.
Chiuso l’ingresso, e soli... qui Sidone?
Sidone.   Parlate.
Son uom che sa tacere. Di me non dubitate.
Cleonte. Trattasi di noi stessi, di libertà, di regno.
Ciascun, prima ch’io parli, prenda il più sacro impegno.
Giuri ciascun di voi al regnator superno
Seppellire l’arcano in un silenzio eterno.
Teocrate. Giurolo al re de’ Numi.
Lisimaco.   Giuro sull’onor mio.
Sidone. A Giove, a Febo, a Diana fo il giuramento anch’io.
(Non vorrei che Corina... Oibò, non sentirà.
E poi, s’io glielo dico, so che non parlerà). (da sè
Cleonte. Cari amici e compagni, tempo è ormai ch’io vi sveli
Un trigono funesto ch’io ravvisai nei cieli.
Marte, Saturno e Venere in triangolar figura
Congiunti ver l’eclittica minacciano sciagura.
Marte vuol stragi e sangue, trama Saturno inganni,
E Venere congiura dell’innocenza ai danni.
Ecco del rio presagio, ecco vicin l’effetto;
Ecco quel che minaccia del trigono l’aspetto.
Zoroastro a Nicotri tenta mancar di fede,
E dominar Saturno nel di lui cor si vede.
D’ira la principessa è giustamente armata,
E oprano in lei gl’influssi di Venere sdegnata;
E nel re degli Assiri che aspira a questo regno,

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Il furibondo Marte accelera I’impegno.

Ah! che sarà di noi? La ria costellazione
Fabbrica ed avvicina la nostra perdizione,
Se noi per evitare i prossimi disastri,
Non adopriam la forza per contrastare agli astri.
Pera quel che fomenta contro di noi lo sdegno,
Perda di Battria il soglio chi è di regnar indegno.
Si vendichi Nicotri, ch’è giustamente accesa,
Prole di regal sangue da Zoroastro offesa.
Ed accordando a Nino annui tributi e doni,
Rendiamci da noi stessi e liberi e padroni.
Ardua non è l’impresa. Colpa non è il tentarla,
Se chi occupa la reggia, non giunse a meritarla.
Parla in me della patria amor, giustizia e zelo;
Secondatemi, amici, e ci protegga il Cielo.
Sidone. Sì, sì, parve a me pure nel ciel settentrionale
L’altr’ieri aver scoperto il sinodo fatale;
Marte, Mercurio e Venere, in trigona figura,
Coprian l’Orsa minore, o sia la Cinosura.
Non si vedean del Carro brillar le sette stelle
Che formano il timone, che forman le rotelle;
E ho detto fra me stesso col mio saper profondo:
Se cascano i pianeti, è fracassato il mondo.
Cleonte valoroso con perspicace ingegno
Dice che la rovina cadrà sul nostro regno?
Armi dunque, o compagni; tutti correte all’armi.
Combattete da prodi, ch’io correrò a salvarmi.
Lisimaco. Soffersi impaziente finora e di mal core
Per trigoni e pianeti menar tanto rumore.
Marte, Mercurio e Venere nomi sognati e vani
Ebber nei primi secoli dai popoli Egiziani.
E in quella guisa appunto che fur nei tempi andati
Per simboli e figure i Dei moltiplicati,
Tale agli astri insensati nome e poter si diede,
E alle false dottrine il popolo diè fede.

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Libero, com’io penso, di favellar intendo.

Un rege effemminato per questo io non difendo.
Credo che al nostro regno sovrastino i disastri,
Ma non credio che il danno deggia piombar dagli astri.
Il torbido Saturno di Zoroastro è il core,
Che il suo dover sagrifica ad un novello amore.
Venere minacciosa sta di Nicotri in petto,
Avida di vendetta per un geloso affetto.
E il Marte furibondo più prossimo, più vero,
E del giovane Nino l’avidità d’impero.
Gli astri non son nemici. Il ciel non ci fa guerra.
I trigoni cercate nei vizi della terra.
E se lo stato nostro bisogno ha di riparo,
Cessino i studi vani, e adoprisi l’acciaro.
Sidone. Lisimaco prudente, lodo i consigli vostri.
Gli astri, per dir il vero, non son nemici nostri.
All’armi, all’armi, amici. Facciam qualche bravura.
(Oh quanto pagherei a non aver paura!) (da sè
Cleonte. Di credere alle stelle in libertà restate.
Bastami che del regno prossimo il mal veggiate;
E che dovunque venga l’orribile minaccia,
Meco il comun riparo risolvere vi piaccia. (a Lisimaco
Sidone. Dal cielo o dalla terra vengaci il rio periglio,
Io vi ripeto: all’armi. Questo è il miglior consiglio.
Cleonte. Teocrate non parla?
Teocrate.   Ah! nel fatale impegno
Veggio per ogni parte le perdite del regno.
Non oso qual Lisimaco sorde chiamar le stelle:
So che talora i mali pon provenir da quelle;
Ma giustamente accordo che le passioni insane
Son l’origine ancora delle vicende umane.
Colpa sia del re nostro, sia d’influenza effetto,
Questo misero regno veggo a perir costretto;
E noi dobbiam per legge di stato e di natura,
Opporre util rimedio all’ultima sciagura.

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ATTO QUARTO

Prima però che il braccio s’armi a crudel fierezza,

Vuol ragion che si adopri l’industria e la dolcezza.
Il re non è tiranno: se amor fa il suo periglio,
Seco non sarà forse inutile il consiglio.
Se i libri del destino sono ai suoi lumi aperti,
Vedrà, sol che s’illumini, gli errori suoi scoperti;
E se lo studio incerto ad operar non basta,
Odierà quell’affetto cui la ragion contrasta.
Ecco l’uman consiglio ch’ora mi detta il core:
Prima sia la pietade; l’ultimo sia il rigore.
Sidone. Il pensar di Teocrate2 mi piace estremamente.
Tutto quel che si dice non nega e non consente.
Al ben si corre presto; al mal si va restio.
Seguir il suo consiglio ho risoluto anch’io.
Cleonte. Più di quel che pensate, per Zoroastro in petto
Serbai, fido vassallo, amor, fede e rispetto.
Tentai parlargli al core; ma l’opra mia fu vana:
Troppo il misero accieca una passione insana.
Abbiam scaltra nemica che a debellarci aspira:
Tutto temer si deve dall’arti di Semira;
E se tempo gli diamo da consigliar con lei...
Sidone. All’armi, all’armi subito, all’armi, amici miei.
Teocrate. Come ridur pensate a secondarci il regno?
Cleonte. L’opera è incominciata.
Sidone.   Cleonte è un uom indegno.
Due sono i bravi spiriti di senno e di valore:
Uno è Cleonte, e l’altro... Noi dico per rossore.
Lisimaco. Chi condurrà l’impresa?...
Cleonte.   Vi svelo il grande arcano:
Ma rinnovate3 il voto dell’etera al sovrano;
E la fatali vendetta del nume punitore
Chiami sopra se stesso chi fosse il mancatore.
Teocrate. Pera chi fè non serba.
Lisimaco.   Puniscasi il fellone.

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Sidone. Mi sbranino, s’io manco, il Cancro ed il Leone.

Cleonte. Ecco, se a’ voti nostri è prospero il destino:
Sotto mentite spoglie in questa reggia è Nino.
Lo guidò Semiramide, piena di spirti rei;
Il giovane lusinga, ed opera per lei.
Offre al nostro regnante della sua grazia il dono,
E tenta a se medesima di assicurare il trono.
Noi ci vedrem soggetti al femminile orgoglio,
Noi cederem vilmente a una straniera il soglio?
No, no, per opra mia Nino conosce il core
Della femmina scaltra, e n’ha dispetto e orrore.
Liberi ci concede vivere in nostra terra,
Bastagli un sol tributo ad evitar la guerra.
Bastagli, per vendetta del meritato eccesso,
Sia delusa Semira e Zoroastro oppresso.
Tocca a noi secondare le massime sincere
Di un re che ha l’Asia tutta soggetta al suo potere.
E se il crin di fortuna ad afferrar tardiamo,
Perdesi il tempo, e un giorno ci pentiremo.
Sidone.   Andiamo.
Lisimaco. Ah! che il periglio estremo tutto a tentar c’invita.
Teocrate. Necessità sovente rende ogni destra ardita.
Cleonte. Andiam. Nino ci attende.
Teocrate.   Siaci propizio il fato. (parte
Lisimaco. Il re se stesso incolpi, s’è dai vassalli odiato. (parte
Cleonte. (Il prezzo avrò dell’opra, se la mia bella ottengo).
Venga con noi Sidone. (parte
Sidone.   Chiudo le porte, e vengo.

SCENA HI.

Sidone e Corina.

Sidone. Ora son contentissimo. Inteso ho il gran mistero.

Ma liberiam Corina... Eccola qui davvero.
Non vorrei che sentito avesse il parlamento:

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Ma la farò tacere, le darò il giuramento.

Corina. (Credea non se ne andassero per tutta la giornata.
Per verità, ho sofferto una bella seccata.
Ma forse inutilmente il dì non ho perduto:
Spero mi gioveranno le cose che ho saputo). (da sè
Sidone. Venite, bella figlia. Sarete intirizzita
Dal freddo e dalla noia.
Corina.   No, mi son divertita.
Sidone. Udiste il grand’affare che si è fra noi trattato?
Corina. Non ho inteso parola. I fogli ho rivoltato.
Oh! che piacere ho avuto mirando in quelle carte
L’effigie di Saturno, di Venere e di Marte!
Sidone. (Ah! il trigono fatale è ancor fra quei volumi.
È chiara, è manifesta la minaccia dei Numi).
Dite la verità. Non sentiste niente
Di quel che si è parlato?
Corina.   No, signor, certamente.
Sidone. Badate bene.
Corina.   Or ora scandalezzar mi fate.
Son io qualche bugiarda?
Sidone.   Via, via, non v’irritate.
Corina. Se di ciò gelosia nutrite nel pensiero,
Mi fate giustamente temer qualche mistero.
Sidone. No, ragionato abbiamo d’una costellazione
Che le donne in quest’anno vuol render poco buone.
Mostrano chiaramente certi asterismi uniti,
Che comandar vorranno ai poveri mariti.
Certe comete insolite con tortuose code
Dicono che le case rovineran le mode;
E un fenomeno uscito verso la zona ardente
Dimostra che le donne vorranno il lor servente.
Esaminato bene il disco della Luna,
Di buone fra le triste se n’è trovata alcuna.
E voi, Corina mia, voi siete una di quelle
Che hanno il vanto di buone unito a quel di belle.

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Cosa rara nel mondo, rara, ve lo protesto.

Vo’ a chiuder quella porta, e poi dirovvi il resto.
(ascende sopra la scala
Corina. Cosa rara è nel mondo trovar femmine buone?
Fra gli uomini e le donne facciamo il paragone.
Dicono gli asterismi che comandar vogliamo?
Han gli uomini il comando, e suddite noi siamo.
Le case non rovinano le nostre bizzarrie;
Nascono le comete dal gioco e l’osterie.
Se aver donna un servente fenomeno è chiamato,
L’uom di questi fenomeni ne tiene in ogni lato.
E il disco della Luna mostra coi segni suoi,
Che se noi facciam male, fa l’uom peggio di noi.
Ecco del paragone la prova evidentissima:
Quattri uomini han formato congiura perfidissima,
Contro del re medesimo ordito è il tradimento,
E han profanato i Numi perfin col giuramento.
Dove si trovan donne sì barbare, inumane?
L’uomo contro dell’uomo è un basilisco, è un cane.
È ver che Semiramide tende ad un fine istesso;
Ma delle stragi e il sangue non medita l’eccesso.
Usa con Zoroastro qualche vezzoso inganno;
E se il monarca acceso le presta fè, suo danno.
Perfidi rei vassalli, tradire4 un padre, un re!
L’onor di preservarlo è riserbato a me.
Decidasi se merta più gloria o disonore
Chi oltraggia il suo monarca, o salva il suo signore.
Gli uomini, a confusione del loro vanto istesso,
Dican che delle donne è generoso il sesso. (parte

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SCENA IV.

Sidone solo.

Ehi! Corina, Corina. Sen vola, e non mi sente.

Ch’ella se ne sia ita, mi duole estremamente.
Ma no, meglio è così, sono di là aspettato;
Tornerò a rivederla quando sarò spicciato.
Mi piace, mi diletta lo star con donna bella;
Convien dir che mi domini di Venere la stella.
A dir mal delle femmine talor mi provo anch’io,
Ma poi sinceramente ci trovo il conto mio.
Faccio come far sogliono certi poeti bravi
Che biasiman le donne, e poi di lor son schiavi;
Dicono che il servirle dell’uom non sia decoro,
Consiglian disprezzarle, e le vorrian per loro.
Condannano gli amanti, condannano gli amori,
E sono spasimanti per Filide e per Clori.
E i comici talora chiaman le donne felle;
Ma piacciono ai poeti le giovani e le belle.

SCENA V.

Camera.

Semiramide e Nino.

Nino. No, Semira, abbastanza l’inganno ho conosciuto.

Meco t’adopri invano; partire ho risoluto.
Semiramide. E abbandonar vorrai, quando vicina è resa
Al termine felice la cominciata impresa?
Nella prossima notte scoppiar dee la congiura.
Già i celati guerrieri si accostano alle mura.
Già sono i congiurati al gran momento intenti
Di compiere il disegno, di dichiararsi ardenti.
Nel tempio u’ Zoroastro vittime svenar suole

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Alla triforme dea sul tramontar del sole,

Contro un re mal sofferto dal popolo inquieto
Fra l’aste e fra le spade risuonerà il decreto.
E tu partir vorresti, sia per timore o sdegno,
E abbandonar l’impresa, e abbandonare un regno?
Nino. Vasto felice regno ebbi dai Numi in dono:
Avido gli altrui beni di conquistar non sono.
Tardi conosco il torto di quel disegno ardito,
Onde seguir mi piacque il periglioso invito.
Sudditi malcontenti rimproverar si denno;
A favorir malvagi osta l’onore e il senno.
E un re che fra perigli sempre sussiste e regna,
Fellonia, tradimenti non soffre e non insegna.
Son grato alle tue cure. Più di così non bramo:
Mostrami in ciò ’l tuo zelo; non contraddirmi, andiamo.
Semiramide. No, contrastar nol deggio. Parti, se partir vuoi,
Ma non sperar ch’io voglia seguir i passi tuoi.
A chi libero nacque, la libertà è concessa;
Io son, quale tu sei, padrona di me stessa.
Vattene al patrio regno; in Battriana io resto:
Il destin che m’attende, ad incontrar m’appresto.
Sia felice o infelice, perciò non mi confondo;
Son donna indifferente, e la mia patria è il mondo.
Nino. Ed hai cuor di lasciarmi?
Semiramide.   Miei torbidi talenti
Potriano in te cangiare gli eroici sentimenti.
Io son femmina altera, usa alle grandi imprese;
Tu di tranquilla pace mostri le brame accese.
Alcun questa tua pace, alcun quella pietà
Che vanti inopportuna, direbbe una viltà.
Io però che di Nino conosco il nobil core,
So che non è capace d’un languido timore.
Un po’ di gelosia nutrir potrebbe in petto:
La debolezza è forse suo natural difetto.
Ma superar saprebbe ogni sospetto vano,

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S’ei non avesse il core sì generoso e umano.

Sudditi malcontenti rimproverar si denno.
A favorir malvagi osta l’onore e il senno.
Un rege non insegna, non soffre i tradimenti.
È ver ch’ei non aveva un dì tai sentimenti;
È ver che in Babilonia non detestò il disegno
D’aggiugnere all’Assiria di Battriana il regno;
Ed ordinò egli stesso armi ed armati, e accesa
Mostrò la sua gran mente di superar l’impresa;
Ma rimirato appena di Zoroastro il volto,
Da subita pietade fu sopraffatto e colto.
Direbbero i maligni, diria chi pensa male,
Che per amor delira, che gelosia l’assale,
Che diffidando a torto del mio sincero affetto,
Le prove di mia fede sagrifica al sospetto.
Ma io che lo conosco, di lui penso altrimenti,
Posso giustificarlo, in faccia delle genti,
Ch’ei gelosia non prova, e che partir s’impegna,
Perchè un re i tradimenti non soffre e non insegna.
Nino. Ah! mi deridi, ingrata? Conosci il core afflitto,
E soffri la mia pena con animo sì invitto?
No, tollerar non posso il cruccioso affanno
D’un rival che coltivi, sia per effetto o inganno.
Anzi che Zoroastro vinto da noi si veda,
Vincere non potrebbe, e tu restar sua preda?
Deh! l’amor mio perdona...
Semiramide.   Or son contenta appieno.
La cagion che ti move, mi confessasti almeno.
Rea non sarò di macchie odiose ad un regnante;
L’eroe non le condanna, ma il sospettoso amante.
Finger sai, se bisogna. Teco me ne consolo.
Non dirai che il mio core nel simular sia solo.
Ma se con altri io finsi, fui teco ognor sincera,
E tu meco adoprasti un’arte menzognera.
Se di me tu diffidi, fede al tuo cor non presto.

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Parti, se partir brami; son risoluta, io resto.

Nino. Senza di te, mia vita, non partirò, tel giuro.
Semiramide. Resta o parti, è lo stesso. Più del tuo amor non curo.
Nino. Parli così, spietata, perchè il cor mio non vedi.
Semiramide. (Parmi or or di vederlo, che mi si getta ai piedi). (da sè
Nino. Vuoi che a te m’abbandoni?
Semiramide.   Oh! no, signor, t’inganni.
Nino. Vuoi che di duol perisca?
Semiramide.   Ma perchè mai ti affanni?
Nino. Guidami dove brami, teco sarò, mia vita,
In ogni rio cimento, in ogni impresa ardita.
Semiramide. Vasto felice regno ti diedero gli Dei:
Avido gli altrui beni di conquistar non sei.
Nino. Ah! d’insultar trovasti barbaro stile e novo.
Semiramide. Ma perchè mai ti lagni, se i tuoi pensieri approvo?
Nino. Placati, mio tesoro.
Semiramide.   Non provocarmi a sdegno. (irritata
Nino. Non mi negar pietade.
Semiramide.   (Parmi vicino al segno). (da sè
Nino. Ah! se al pregar sei sorda, se udir non vuoi ragione,
Succeda al mio rammarico la mia disperazione.
Semiramide. (Aimè! cambia linguaggio). (da sè
Nino.   Hai di superba il vanto.
Sprezzi d’amor le note, paghi col riso il pianto.
Semiramide. Non ti curar d’un’alma ch’è follemente altera:
È inopportuno il pianto che di pietà dispera.
Nino. Se il lacrimar non giova, se la speranza è vana,
No, non trionfi e rida un’anima inumana.
Del tradimento indegno il vergognoso eccesso
Corro a svelare ardito a Zoroastro istesso. (in atto di partire
Semiramide. Ferma.
Nino.   Se amor mi nega pace e conforto al seno,
Il cor dai miei rimorsi avrò sgravato almeno.
Conosca il re tradito il complice al disegno5,

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Ma della rea primiera sappia il feroce impegno.

Paghi d’amor, se puote, la seduttrice ardita,
E sia di te la sorte alla mia sorte unita. (come sopra
Semiramide. Fermati.
Nino.   Invan m’arresti.
Semiramide.   Qual orrido consiglio,
Qual funesto trasporto ti espone al tuo periglio?
Nino. Chi di morir non cura, ogni periglio assale.
Semiramide. Non ti cal di mia vita?
Nino.   Quanto di me ti cale.
(in atto di partire
Semiramide. Sentimi.
Nino.   Ho risoluto. Al tuo pregar non cedo.
Semiramide. Lo sai pur che t’adoro.
Nino.   No, all’amor tuo non credo.
Semiramide. Barbaro.
Nino.   Addio, Semira.
Semiramide.   Dove?
Nino.   A svelar l’arcano.
Semiramide. Ascoltami, crudele.
Nino.   Ogni tuo sforzo è vano.
Semiramide. Ad arrestarti, ingrato, non basta il pianto mio?
Nino. Barbara, senza frutto ho lagrimato anch’io.
Semiramide. Credimi, se tu mi ami.
Nino.   Manca l’amor, la fede.
Semiramide. Mirami... (ah! d’un amante ho da gettarmi al piede?)
Nino. (Oh mie vane speranze! Oh miei perduti affanni!)
Semiramide. (Ah! gli uomini talvolta son più di noi tiranni).
Pietà sperar non posso? (a Nino
Nino.   No, sperar non la puoi. (con tenerezza
Semiramide. Idolo mio, perdona; mirami a’ piedi tuoi.
(in atto d’inginocchiarsi
Nino. Ferma, la mia fierezza teco non giugne a tanto:
Basta di quei begli occhi, basta il fatale incanto!

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A’ piedi miei non bramo il mio bel nume oppresso.

Si offenderebbe, o cara, da cotal atto il sesso.
A trionfar d’un core basta un bel labbro accinto.
Guidami, dove brami; son disarmato e vinto.
Semiramide. Alla felice impresa vieni, ed a me ti affida;
Prospero il Ciel cortese al desir nostro arrida. (a Nino
(Vincasi col rigore, o vincasi col pianto,
Bastaci conseguire della vittoria il vanto). (da sè


Fine dell’Atto Quarto.


Note

  1. Nel testo: ziffre.
  2. Nel testo, per errore, è stampato: Teocrito.
  3. Nel testo: rinovate.
  4. Così l’ed. bolognese. Nell’ed. Zatta: tradite.
  5. Così nel testo.