Vita di Giacomo Leopardi/Capitolo XI
Questo testo è incompleto. |
◄ | Capitolo X | Capitolo XII | ► |
204 Capitolo XI. GIACOMO LEOPARDI A ROMA. 1822-1S23. Sommario: Partenza del Leopardi per Roma. — Incidente alla locanda a Spoleto. — Arrivo a Roma. — In casa Antici. — Le donne romane agli occhi di Giacomo. — Gli uomini di Roma. — La letteratura a Roma. — Giacomo apprezzato sol- tanto come erudito. — Malinconia del Leopardi per la non- curanza delle donne. — La grandezza materiale di Roma. — Insensibilità del Leopardi per le meraviglie di Roma. — Buone condizioni di salute durante la dimora a Roma. — Amicizia col cugino Giuseppe Melchiorri. — Conoscenze o amicizie a Roma. — Inviti a pranzo. — Vita divagata. — I teatri : il ballo veduto con la lorgnette. — La visita al se- polcro del Tasso. — In cerca di un impiego. — Rinunzia alla prelatura. — Supplica per un posto di cancelliere del oenso. — Trattative di nozze por la Paolina. Dovette essere un giorno ben lieto per il povero Leopardi quel 20 ottobre 1822 in cui egli potò scri- vere al suo cugino Giuseppe Melchiorri a Roma, pre- gandolo di trovargli pel prossimo inverno una dozzina buona e discreta in quella città. < Una camera, scri- veva, mi basterebbe; ma la vorrei calda, luminosa e sopratutto non a tetto, ossia in ultimo piano. Io man- gio poco, e non bevo vino : fo un pasto solo, con una piccola colezione la mattina.... verrei costà verso il mezzo novembre. > Finalmente i genitori consentivano al disgraziato figliuolo di uscire dall' inferno di Ilecanati. — Chi aveva operato questo miracolo? — Vedemmo nel capitolo secondo come il marchese Carlo Antici, zio materno di Giacomo, lino dal 1813 PALAZZO ANTICI MATTEI ovB Leopardi dimorò nel suo primo soggiorno a Roma. (Da fotografia A»ì eomm. Carlo Tenerani) GIACOMO LEOPARDI A BOMA. 205 pregasse inutilmente Monaldo di mandargli a Roma il nipote, affinchè fosse costretto a interrompere per qualche tempo gli studi e divagarsi. Quando poi sei anni più tardi, Giacomo, risoluto di uscire ad ogni costo da llecanati, e disperato di ogni altro mezzo, tentò la fuga, lo zio naturalmente lo disapprovò; e lo ammonì che doveva obbedire al padre, e restar- sene contento nel suo paese natale. Ma trovandosi poi l'Antici nell'autunno del 1822 a Recanati col fra- tello Don Girolamo ed altri di sua famiglia, e ve- dendo il nipote sempre più abbattuto di corpo e di spirito, fece un ultimo tentativo per indurre la sorella e il cognato a mandarlo a Roma. E questa volta riuscì. Forse la prima idea, in famiglia, fu che Giacomo andasse a stare da sé in una camera d'affitto (cosi almeno lascia supporre la lettera da lui scritta al cugino Melchiorri); ma lo zio chiese ed ottenne fa- cilmente di portarlo a casa sua. I viaggiatori partirono il 17 novembre in due car- rozze; nell'una Giacomo con lo zio Don Girolamo, nell'altra lo zio Carlo col resto de' suoi. Giacomo e Don Girolamo, ch'era tormentato dall'emicrania, si fermarono un giorno a Spoleto ; gli altri proseguirono direttamente per Roma. Da Spoleto Giacomo scrisse una letterina al padre per ragguagliarlo del viaggio ; scrisse dalla locanda, dopo cena, fra molte persone che lo assordavano. Mandava i saluti alla cara mamma e ai fratelli, e < Riserbo, diceva, a un'altra lettera tutte le espressioni della mia vera ed eterna gratitudine verso di lei, e del mio fermo proposito di far sem- pre quello che io creda doverle essere di maggior piacere. >' Alla locanda gli accadde un incidente, che rac- contò così qualche giorno dopo in una lettera a Carlo:
- Epistolario, voi. I, pag. 359. 206 CAPITOLO XI.
< Non so quello che mi scrivessi da Spoleto ; perchè dovete sapere che io scrissi in tavola fra una cana- glia di Fabrianesi, lesini ec. ; i quali si erano infor- mati dal cameriere dell'esser mio, e già conoscevano il mio nome e qualità di poeta ec. ec. E un birbante di prete furbissimo, che era con loro, si propose di dar la burla anche a me, come la dava a tutti gli altri ; ma credetemi che alla prima mia risposta cam- biò tuono tutto d'un salto, e la sua compagnia di- venne bonissima e gentilissima come tante pecore. > ' Arrivarono a Roma, lo zio Carlo co' suoi compa- pagni il venerdì 22 novembre, Giacomo con lo zio Girolamo il giorno dopo. Appena arrivato, Giacomo scrisse alla madre una lettera breve, ma affettuosa, con la quale le diceva, tra le altre cose, che gV incomodi del viaggio^ in camino di nuocergli, gli avevano note- volmente giovato. La lettera terminava : < Le bacio le mani con tutto il cuore, e pieno di vivissimo affetto e desiderio di Lei, mi dichiaro suo tenerissimo figlio. >' Nella stessa lettera aveva aggiunto alcune righe lo zio Carlo, per assicurare la sorella che Giacomo stava bene ed aveva aspetto assai migliore di pochi giorni addietro. Leggendo che gl'incomodi del viaggio avevano gio- vato alla salute di (Jiacomo, verrebbe voglia di sor- rìdere, 66 rargomento doloroso lo consentisse; ma l'attestazione dello zio Carlo, che il nipote appena fuori di llecanati era già migliorato d'aspetto, fa pen- sare malinconicamente quanto sarebbe stato meglio ch'egli fosse uscito dal suo paese sei anni prima. Forse allora poteva giovare: oramai era tardi. Ora la vista da lui desiderata di nuovi paesi, la conoscrn/;i di nuovo persone, la compagnia e la conversazione di uomini illustri, i)otovano distrarlo e sollevarlo per
- Epistolario, voi. I, pag. 801.
- Idem, p«g. 869, 860. GIACOMO LEOPARDI A ROMA. 207
qualche istante ma non potevano guarire la sua in- sanabile malattia. Era perciò fatale ch'egli, passato lo stordimento del primo arrivo, passati i primi istanti di distrazione e di sollievo, ripiombasse nell'antica malinconia. Le nuove cose e persone ch'ei vide a Roma ben presto gli parvero brutte e cattive, più brutte e cattive delle cose e persone di Recanati ; perchè egli le vedeva, come vedeva tutto, cogli occhi dei suoi do- lori, ai quali il presente, ovunque e comunque fosse, era tristo e noioso. A Recanati odiava Recanati e so- spirava Roma, cioè un altro luogo qualunque che non fosse Recanati; a Roma trovò quasi preferibile Re- canati. Così dicono le sue lettere; ma naturalmente bisogna intenderle con discrezione. Forse una specie di pudore lo tratteneva dal mostrarsi sodisfatto d'esser fuori di Recanati e lontano dai suoi, quasi la sua scontentezza non avesse altre cagioni.
» * Roma! Quando egli giovanissimo a Recanati, nella sua camera, o nella stanza di studio della biblio- teca, vedeva sorgere dinanzi alla mente il fantasma della città fatale, quante immagini di grandezza e di gloria, quante sublimi aspirazioni e illusioni si affol- lavano intorno ad esso! Meschino e vile era il con- cetto ch'egli aveva degli uomini del suo tempo ; ma Roma era Roma; le stupende memorie del passato non era possibile che non esercitassero una benefica influenza sugli uomini di cuore e d'ingegno che pur ci dovevano essere. Roma aveva pure il Mai e il Ca- nova: ed oltre l'abate Cancellieri, ed altri che ave- vano lodato i suoi lavori di ragazzo, chi sa quanti bravi e dotti uomini ci sarebbero stati, capaci di ap- prezzare l'ingegno e le opere sue! Partendo, portò con sé le ultime sei Canzoni, delle quali doveva essere molto contento, ed altri lavori inediti o non finiti. 208 CAPITOLO XI. In casa degli zii, benché tutti gli facessero genti- lezze, non si trovò molto bene. Il 29 novembre, scri- vendo al padre gli mandava i saluti degli zii e della insopportabile donna Marianna (la moglie dello zio Carlo), < la quale, diceva, mi vuol bene ; e io non so quello che me le voglia. >* Alcuni giorni dopo, il 9 di- cembre, riscriveva così de' suoi ospiti : < 1 principii e gli elementi eterocliti ed affatto anomali di cui sono composti i loro naturali, e il disordine incredibile e inconcepibile che regna nel giornaliero di questa fa- miglia, non mi lascia esser con loro altro che fore- stiere. >* Con altra lettera del 31 dicembre dava al padre sullo stesso argomento altri ragguagli abba- stanza singolari e curiosi. Il sistema di casa sua a Recanati, che a Giacomo, quando e' era, pareva odioso e insopportabile, ora paragonato al sistema opposto di casa Antici, diventava a un tratto buono e ammi- revole; diventava, s'intende, nelle lettere al padre, al quale il figliuolo voleva dir cose che gli tornassero grate ; ma, bench' egli dicesse il vero, si può dubitare che in cuor suo preferisse all'ordine della casa pa- terna il disordine di casa gli zii. . Nelle lettere a Carlo, Giacomo fa poi confidenze anche più gravi intorno all'intimo della famiglia An- tici, confidenze che la prudenza degli editori dell'Epi- stolario, di chi comunicò ad essi le lettere, ha pudi- camente sottratte allo sguardo dei curiosi. Chi potesse leggere sotto i puntini coi quali gli editori hanno ac- cennato le volontarie lacune, si meraviglierebbe delhi libertà di linguaggio che, in fatto di donne, usa Gia- como scrivendo al fratello. Sappiamo che Carlo amava quella libertà; ma non possiamo supporre che a Gia- como ripugnasse, poicliò la usava. Il poeta, quando era solo coi suoi pensieri, non concepiva che l'amore
- KpMcXario, voi. I, png. 3Ca.
- ld«m, pag. 871. 6IAC0M0 LEOPARDI A EOMA. 209
ideale, l'amore delle Elegie, degli Idilli, della canzone Alla sua donna ; quando si trovava in compagnia del fratello, al quale piaceva parlare di amori meno poe- tici e più solidi, s'immaginava d'essere anche lui un giovinotto come lui, e come tutti gli altri. Delle donne, ch'erano l'argomento che a Carlo interessava di più, gli scrisse, appena arrivato: < Le donne ro- mane alte e basse, fanno propriamente stomaco. >' Pochi giorni dopo, tornando sull'argomento, aggiun- geva che in Roma era tutt'altro che facile il far for- tuna con le donne. < Al passeggio, in chiesa, andando per le strade, scriveva, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in com- pagnia di giovani molto belli e ben vestiti : sono pas- sato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne gio- vani, le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncu- ranza: e tutte le donne che qui s'incontrano sono così. Trattando, ò così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi. >* »
- «
Come le donne, così, o quasi, giudica il Leopardi tutto il resto di Roma; e tuttavia non si può dubi- tare che i pochi mesi ch'egli vi stette furono un grande sollievo della sua vita. Se le donne alte e basse fa- cevano stomaco, < gli uomini, scriveva a Carlo, fanno rabbia o misericordia. >' E commentando queste pa- ' Epistolario, voi. I, pag. 362. « Idem, pag. 369, 370. ' Idem, pag. 362. Chiarini, Leoj>. 14 210 CAPITOLO XI. role, aggiungeva in una lettera alla Paolina : < Tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. >' — E il buon Cancellieri ? — < Cancellieri è un co- glione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra ; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme con la mag- giore freddezza possibile; ti affoga di complimenti e di lodi altissime, e ti fa gli uni e l'altre in modo così gelato e con tale indifferenza, che, a sentirlo, pare che l'esser uomo straordinario sia la cosa più ordinaria del mondo. >' Se Cancellieri è un coglione, la letteratura ro- mana in genere non è niente di meglio. < Orrori e poi orrori. I più santi nomi profanati, le più insigni sciocchezze levate a cielo, i migliori spiriti di que- sto secolo calpestati come inferiori al minimo let- terato di Roma, la filosofia disprezzata come studio da fanciulli ; il gonio e l' immaginazione e il senti- mento, nomi (non dico cose, ma nomi) incogniti e fore- stieri ai poeti e alle poetesse di professione; l'anti- quaria messa da tutti in cima del sapere umano, e considerata costantemente e universalmente comò l'unico vero studio dell'uomo. >"* «La bella ò che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue ben si vedo che cosa mai possa esàere lo studio dell'antichità. > < Monsignor Mai ò tutt'altro da questa canaglia; è gentilissimo con tutti, compia- centissimo in parole, politico in fatti; mostra di voler soddisfare a ciascuno ; o fa in ultimo il suo comodo; ma quanto a mo non solo non ho che hignarmene, anzi debbo dire che m'ha compiaciuto realmente in
- Kplutotario, voi. I, pag. 804.
- Idnm, pnt;. 861.
- Idom, pnj{. 876. GIACOMO LEOPARDI A ROMA. 211
Ogni mia domanda, e che mi tratta quasi con ri- spetto. >' Il Mai gli mandò in dono una copia della Bepubhlica di Cicerone, «cosa, scrisse a Carlo, eh' è stata molto ammirata e invidiata. > In questo quadro della letteratura romana si ca- pisce che il poeta ha caricato le tinte, ma il fondo è vero. Egli quindi dovè, almeno per un po' di tempo, tener chiuse nel cassetto le sue Canzoni; e, non che pensare a stamparle, probahilmente non le fece ve- dere a nessuno, o a pochissimi. Odorato l'ambiente, prese subito il suo partito; mise da parte la lette- ratura, riassunse l'abito che portò da fanciullo, e si rifece un erudito e un grecista. Come tale era già co- nosciuto a Roma da alcuni di que' sacerdoti più o meno in fama di dotti. A farlo conoscere avevano con- tribuito lo zio Antici, che primo ne parlò al Cancel- lieri mostrandogli il Porfirio, ed un prete recanatese, don Natanaele Fucili, in relazione epistolare coi fra- telli Leopardi, specialmente con Carlo. Fu lui che nel 1817 si fece mandare e diede a leggere la tradu- zione del secondo deWEueide, e l'Inno a Nettuno, che come lavori di un giovanissimo destarono meraviglia.* Quelli che già conoscevano Giacomo quando ar- rivò a Roma, lo trattarono subito molto bene ; gli altri poco. Ma egli, senza mettere tempo in mezzo, pub- blicò qualche bagattella erudita (due articoletti cri- tici, uno sul Filone dell'Aucher, l'altro sui libri della BcpuhUica di Cicerone scoperti dal Mai), e cominciò la stampa delle Annotazioni all' Eusebio. Ciò bastò per acquistargli la considerazione di tutti i letterati, spe- cialmente degli stranieri, ch'erano per il Leopardi ciò che v'era di meglio a Roma in fatto di letteratura : ma per essi letteratura voleva dire soprattutto eru- dizione e lìlologia. < Gli stranieri, scriveva egli al
- Epistolario, voi. I, pag. 372, 373.
- Vedi 0. xVntognoni, Un Recanatene in Roma; Bergamo, 1901. fratello Carlo, non sapendo quasi niente d'italiano, non gusterebbero un.... le più belle produzioni che si mostrassero loro in questa lingua; e non prendono nessuno interesse in un genere di studi inaccessibile per loro. >1
- *
Che a Roma non ci fosse una befana che guardasse al passeggio i giovinetti belli e ben vestiti è un po' difficile crederlo : invece è più probabile che le signore e le signorine, le quali non conoscevano il Leopardi, guardassero lui, anche se in compagnia di bei giovinetti, con occhio non troppo lusinghiero. Probabilmente anche le donne di casa Antici, che lo conoscevano e lo sapevano un giovane di molto ingegno e di molta dottrina, gli avranno involontariamente lasciato capire che il suo fisico non era tale da innamorare le ragazze. Una di esse. Manetta, la cugina, piaceva a Carlo, che le aveva fatto un po' di corte a Recanati; e ora, a sentire lui, n'era furiosamente innamorato, e sperava di essere corrisposto; e scrivendo a Giacomo, lo pregava di parlarle di lui in modo da destare e tenere viva in lei un po' di gelosia. Giacomo, per quanto volesse bene al fratello e lo compiacesse (almeno è da credere) anche in questi suoi desiderii galanti, non poteva, rispetto a lui e agli altri bei giovinotti, non sentirsi dentro di sè mortificato e addolorato. Il suo rammarico e il suo dolore su questo argomento li aveva espressi recentemente nell' Ultimo canto di Saffo, e sono largamente illustrati, oltre che dalle sue lettere, dai suoi pensieri dello Zibaldone; fra gli altri da questo: «L'uomo d'immaginazione, di sentimento, e di entusiamo, privo della
1) Epistolario, vol. I, pag. 895. GIACOMO LEOPAUDI A ROMA. 213 bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello che è verso Tamata un amante ardentis- simo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore.... Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appar- tiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro o innamorata di un altro e del tutto non curante di voi. Egli sente quasi che il bello e la na- tura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della na- tura, incapaci di sentirla e di conoscerla ecc.) ; e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, larga- mente e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto. >• Se si considera che fra le cose belle della natura quella che il misero Leopardi maggiormente ammi- rava ed amava era la bellezza femminile, e ch'egli nel fiore della gioventù dovè sempre esserne affa- mato senza nessuna speranza di poterne mai gustare, si capisce facilmente com'egli scrivesse che le donne romane alte e basse facevano stomaco. Ma mentre si vendicava così del sesso gentile, scriveva malinco- nicamente al fratello : < Io vivo qui molto indifferen- temente; non tratto donne, e senza queste nessuna occupazione o circostanza della nostra vita ha diritto di affezionarci o di compiacerci. >* Anche si comprende com' egli, con un po' più di ragione, dicesse male degli uomini e della letteratura di Roma. Ma una cosa riesce a prima vista incom- prensibile; ch'egli, poeta innamorato dell'antichità, ammiratore entusiastico della grandezza e della glo-
- Pensieri di varia filosofia ec, voi. II, pag. 148, 149.
- Epistolario, voi. I, pag. 428. 214 CAPITOLO XI. ria di Roma, non sapesse quasi vedere di Roma che la grandezza materiale, e gì' incomodi e i fastidi che ne derivavano ai poveri cittadini come lui. Alla Pao- lina, che gli domandava se Roma gli era piaciuta, rispondeva : < La grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze e il numero dei gradini che bisogna salire per trovare chiunque vo- gliate. > * Questo singolare fenomeno si può spiegare con due ragioni. Entrando in Roma, il poeta portava con sé tale un concetto della grandezza di lei, che la vista materiale non poteva aggiungervi niente ; poteva forse diminuirlo. Ma la ragione più vera è forse quest'altra, eh' egli stesso scriveva a Carlo due giorni dopo il suo arrivo : < Delle gran cose eh' io vedo non provo il menomo piacere, perchè conosco che sono maravi- gliose, ma non lo sento, e t'accerto che la moltitu- dine e la grandezza loro m' è venuta a noia dopo il primo giorno.)* Egli non era più l'uomo di quat- tro anni innanzi: quei quattro anni dal 1818 al 1822 avevano distrutto inesorabilmente la sua giovinezza, e con la giovinezza le passioni e l'entusiasmo. Tale lo stato d'animo del poeta durante il temjio ch'ei dimorò in Roma; ma di salute stette abbastanza bene. L'inverno di quell'anno fu più rigido del con- sueto, ed egli ebbe il fastidio dei geloni, che lo co- strinsero a stare qualche giorno in letto: tuttavia ciò dovè parergli molto tollerabile in confronto delle no- tizie che riceveva dai suoi del freddo e dei geloni di Kccanati. I geloni passarono; ed egli potè andare in giro, potè andare per lo biblioteche, andare a far visite, andare a pranzi e conversazioni, andare al tea- tro, assistere agli spettacoli del carnevale. Sfortunatamente quando egli arrivò a Roma, ora morto appena un mese avanti Antonio Canova, « Ept$tolarto, voi. I, png. 806. » Idoixi, png. 860. h\ì GIACOMO LEOPARDI A EOMA. 215 eli' egli desiderava vivamente di conoscere. Se ne dolse vivamente col Giordani, al quale scrisse : < E la morte ha i^reso anche piacere d'uccidermi, quasi sul punto della mia mossa, alcune altre persone eh' erano qui, e che rivedendomi fuor d'ogni speranza loro e mia, si sarebbero rallegrate assai per l'atfetto che mi portavano, ed io mi sarei confortato di vederle e di star con loro. >' Una di queste persone, e la più cara, era la zia Ferdinanda, che andata nell'estate di quell'anno 1822 ai bagni di Nocera, per cercarvi ristoro alla salute, vi trovava la morte. Giacomo si strinse di più forte amicizia col tiglio di lei, il cu- gino Giuseppe Melchiorri, ch'era uno studioso e un erudito.
- «
11 Melchiorri presentò Giacomo ai suoi conoscenti; che si interessavano più o meno di letteratura ; fra gli altri al libraio De Romanis editore delle Effemeridi let- terarie, nel cui negozio convenivano parecchi letterati romani, e al cav. Marini direttore del Catasto, per- sona cólta e compita, e possessore di una ricca biblio- teca, che mise a disposizione dei due cugini. Le altre persone che Giacomo conobbe e frequentò in Roma, oltre queste due, oltre il Mai, il Cancellieri, il Vi- sconti e l'abate G. Batt. Canova, non furono molte; e furono sopra tutto stranieri. Tra questi c'erano uomini veramente illustri e di molto valore. Basta accennare il Niebhur, allora Ministro plenipotenzia- rio di Prussia presso la Santa Sede, e il suo Segre- tario e successore, Carlo Bunsen. Il Niebhur, appena letto uno degli articoli pubblicati da Giacomo nelle Effemeridi^ gli fece dire varie cose obbligatiti da varie persone, e che desiderava di conoscerlo. Giacomo lo ♦ Epistolario, voi. I, pag. 404, 216 CAPITOLO XI. andò a trovare; ed egli, fattagli la migliore acco- glienza, gli disse che quello usato da lui era il vero modo di trattare la filologia, ch'egli era nella vera strada, che lo pregava caldamente a non abbandonarla. E sentendo che aveva trovato nei codici greci della Biblioteca Barberina, dei quali stava facendo il ca- talogo, un frammento aflfatto sconosciuto di un'ora- zione di Libanio, e che altre cose sperava trovare, prese spontaneameìite V impegno di fare stampare in Germania quello che aveva già scoperto o fosse per iscoprire.^ C'erano anche in Roma il prof. Tiersch di Mo- naco, celebre grecista, e il dott. Krarup danese, dei quali Giacomo fece la conoscenza in casa del cav. Rein- hold, Ministro dei Paesi Bassi, letterato anche lui. Il Reinhold soleva riunire a pranzo quanto v'era di me- glio fra i dotti stranieri dimoranti in Roma ; e Gia- como, che fu la prima volta ad uno di quei pranzi il 29 dicembre, così ne scrisse il giorno di poi alla Paolina : < Ieri fui a pranzo dal Ministro d'Olanda. La compagnia era scelta e tutta composta di fore- stieri. Posso dir che questa sia la prima volta che io abbia assistito a una conversazione di buon tuono, spiritosa ed elegante, e quasi paragonabile a una con- versazione francese. Anche la lingua che si parlò fu francese quasi sempre. Non v'erano Italiani fuorché i miei ospiti e me, ed un Romano, che non parlò mai. >' Inviti a pranzo no aveva anche da altro persone ragguardevoli, che in qualche occasiono solenne ama- vano raccogliere a tavola i loro conoscenti ed amici più meno illustri. Ad uno di questi pranzi, dato da Monsignore Mai, gli accadde un fatto curioso. Era fra ì convitati un prete sconosciuto a tutti, che il ('ardinale s'era dimenticato di presentare. Cadde il di- scorso Hopra i funerali del Canova fatti pochi giorni
- Vodi Kplatolarto, voi. I, pag. 419. * Idom, pag. 382. GIACOMO LEOPARDI A ROMA. 217
avanti, e sulla orazione funebre recitata dall'abate Missirini. Il Leopardi ne disse molto male, e il suo parere fu seguito e confermato dagli altri, fuorché dal Mai, che non ci fece attenzione. Dopo il pranzo, prima di prendere il caffè, si seppe che il prete sco- nosciuto era il Missirini. Tutta Roma letteraria fu piena di questa bagattella. Il Missirini se n'ebbe un po' a male; il Mai però accomodò la cosa in modo che i due divennero amici, e il buon Missirini lodò sempre, poi altamente, il Leopardi. Alcuni di quei dotti stranieri che il Leopardi aveva conosciuti presso il Ministro d'Olanda, lo an- davano poi a trovare in casa, per conversare con lui e aver notizia dei suoi lavori; di che naturalmente egli si compiaceva.' Come si vede, non mancavano a Giacomo in Roma distrazioni piacevoli, ed anche svaghi. Il 28 gennaio scrisse alla Paolina : < In questi ultimi giorni ho fatto, e seguo a fare, una vita molto divagata. > E poiché la Paolina lagnavasi della vita terribilmente uggiosa di Recanati, soggiunse: < Credi tu ch'io mi diverta più di te ? no sicurissimamente ; > e le fece un bel ragio- namento per dimostrarle che tanto si annoia chi non ha svaghi quanto chi ne ha. Lo spettacolo del Corso di carnevale gli era sembrato veramente hello e degno d'esser veduto; le prime due opere in musica da lui sentite all'Argentina e al Valle non gli erano pia- ciute, e la lunghezza degli spettacoli romani lo aveva annoiato. Ciò che gli aveva fatto maggiore impres- sione era stato il ballo veduto colla lorgnette. < Una donna, scrisse a ('arlo, nò col canto né con altro qualunque mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo; il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino, ed al suo corpo una forza, una facoltà più che umana.... Credimi, che
- Vedi Epistolario, voi. I, pag. 373. 218 CAPITOLO XI.
se tu vedessi una di queste ballerine in azione, ho tanto concetto de' tuoi propositi antierotici, che ti da- rei per cotto al primo momento. >' Una cosa sola, di tutt'altro genere, commosse in Roma il poeta, e gli provò che, se il dono delle la- crime gli era stato sospeso, non gli era stato tolto per sempre; la visita al sepolcro del Tasso; della quale scrisse così al fratello Carlo : < Venerdì 15 feb- braio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l'unico piacere che ho pro- vato in Roma. La strada per andarvi è lunga ;... ma non si potrebbe anche venire dall'America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti?... Molti provano un sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantuccio d'una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l'umiltà, della sua sepoltura.... Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati citiercs, come dice l'iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. > La lettera seguita parlando delle impressioni destate in lui dalla strada che con- duce a Sant'Onofrio, tutta costeggiata di case destinafc alle manifatture, e dalle fisonomie e maniere della genie che s'incontra per quella via; lo quali, dice, < hanno un non so che di più semplice e di più unumo che quello dogli altri: e dimostrano i costumi e il canit- terc di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioò che vivono di travagli e non d'intrigo, d'impostura o d'inganno, corno la massima parto di questa popolazione. >' ' HpMolarh, Tol. I, pag. 406, 400. * Idem, pag. 412, 418. m GIACOMO LEOPARDI A ROMA. 219 Fra le ragioni che avevan fatto desiderare a Gia- como di andare a Roma c'era stata la speranza di trovare una occupazione o un impiego che lo liberasse dalla forzata residenza di Recanati. Furono a questo fine fatti molti progetti ed intavolate parecchie trat- tative, intorno ai quali e alle quali egli si consigliò coi parenti e cogli amici di Roma e di fuori. Il libraio De Romanis gli propose la traduzione di tutte le opere di Platone; ed egli s' invaghi del lavoro, pel quale fu consigliato di domandare cento scudi per ciascuno dei quattro o cinque volumi che la tradu- zione avrebbe occupati. Monaldo, richiesto del suo I)arere, si mostrò contrario, adducendo molte ragioni ; fra le principali la gravità dell'impegno e la meschi- nità del compenso. In genere Monaldo, pur lasciando in apparenza al figliuolo libertà di prendere quella determinazione che gli sembrasse migliore, così in questo come in tutti gli altri progetti mise sempre innanzi quante più difficoltà gli suggeriva il suo de- siderio di trattenere Giacomo a Recanati. Di che Carlo avvertiva il fratello, perchè non si lasciasse di- stogliere dal fare l'utile e il piacer suo.' Ma il pro- getto del De Romanis, quale se ne fosse la ragione, cadde da sé. Di un altro progetto, quello di farsi portar via da qualche forestiere, o inglese, o tedesco, o russo, Gia- como scrisse il 22 gennaio al fratello Carlo, e il 1° feb- braio al Giordani; ma poi pensatoci meglio, e venu- tagli la speranza di ottenere un impiego nello Stato per la intercessione del Ministro di Prussia, che si interessava vivamente per lui, lo abbandonò.
- Vedi Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti,
pag. 64. 220 CAPITOLO XI. Quando il Ministro di Prussia parlò dell'impiego al Cardinale Consalvi Segretario di Stato, questi gli domandò se Giacomo fosse disposto a prendere l'abito di corte, il quale gli avrebbe aperto la strada ad impieghi ed onori. Giacomo si consigliò con gli zii e discusse con loro la cosa in modo che, scrisse a Carlo, non mi jìotrò pentire di non averla pensata abbastanza. La conchiusione fu ch'egli non sarebbe mai stato un prelato. < Assicurati, soggiunse, che io non presi que- sta risoluzione per irresoluzione e poco coraggio, ma perchè da molto tempo e prima di venir qua, e molto più dopo venuto, io ho fatto questa deliberazione, che la mia vita debba essere più indipendente che sia pos- sibile, e che la mia felicità non possa consistere in altro che nel fare il mio comodo. >' Aggiunse che, scartata la prelatura, e stabilito di chiedere un im- piego secolare, aveva, d'accordo con gli zii, scelto quello di cancelliere del censo ; pel quale aveva già fatto la supplica e datala al Ministro di Prussia, che glie l'aveva rimandata con una sua lettera di rac- comandazione al Segretario di Stato, e con un bi- glietto all' abate Capaccini minutante, che doveva presentarla. Non si possono leggere senza pena queste parole di Giacomo in line della lettera a Carlo. < Dopo una giornata intiera di sudore nella quale non pranzai, feci quattro volto la strada di Monte (^avallo con un Hole che smagliava, e in ultimo non conclusi nulla; finalmente la mattina dopo essendomi alzato a giorno, fatta altre due volte la stessa strada, potei vedere l'abate Capaccini e consegnargli il plico, intorno ;il quale mi diede buono speranze. I miei zii mi dicono che un impiego non mi può mancare: io fo conto che tutto qucHto Hia una burla, e spero in questo caso d'essere più contento di prima. >* ' Bptttolarto, voi. I, pag. 427. * Idem, png. 487, GIACOMO LEOPARDI A ROMA. 221 E una burla fu ; ma pur troppo il povero Giacomo non ne fu contento. Il 4 agosto, scrivendo al Gior- dani per dargli notizie di sé e delle cose sue, gli di- ceva a proposito dell'impiego: < (Il Segretario di Stato) promise espressamente e spontaneamente (al Ministro di Prussia) eh' io sarei stato provvisto, la qual promessa è quanto s' è ottenuto fin qui. Intanto il Papa muore, e col Papa va il Segretario di Stato, e col Segretario di Stato la sua promessa. >' Non ebbe il Leopardi maggior fortuna in un altro affare di cui si occupò a Roma e che pure staragli molto a cuore, il matrimonio della sorella Paolina. Quando furono rotte le trattative col Peroli, i fra- telli per una ragione, i genitori per un'altra, non smi- sero il pensiero di trovarle marito; e lei poveretta se ne struggeva, non potendone più della vita che faceva in casa. Carlo aveva messo gli occhi sopra un giovane marchigiano, Ranieri Roccetti ; ma sapendolo non bene provveduto di beni di fortuna, non ne aveva parlato in casa. Avendone poi toccato, e conosciuto che ciò non era una difficoltà né per Paolina né pei genitori, si propose di far qualche pratica e ne scrisse a Giacomo, che già conosceva il giovane, e diede il suo assenso. Intanto il marchese Antici aveva scritto a Monaldo sulla possibilità di un matrimonio di Paolina col cavaliere Marini, che, vedovo di recente, aveva intenzione di riammogliarsi. Carlo e Monaldo scrissero di ciò a Giacomo, domandandogli informa- zioni; Giacomo rispose dandole ottime; ma quasi con- temporaneamente r Antici riscrisse a Monaldo che non credeva di poter fare la proposta di Paolina al cavaliere, perchè aveva saputo eh' egli era già in trat- • Epistolario, voi. I, pag. 4G5. 222 CAPITOLO XI. — GIACOMO LEOPARDI EC. tato con una di Bologna, ed aveva forti pretenzioni quanto alla dote. Queste notizie contradittorie face- vano stare sulle spine la buona Paolina, la quale con- siderava quel matrimonio come una grande fortuna, e per la paura che tale fortuna le sfuggisse, scriveva a Giacomo lettere disperate. Questi cercò di calmarla e consolarla e scrisse al padre, spiegandogli le ap- parenti contradizioni fra le notizie sue e quelle dello zio Antici, ed assicurandolo che la cosa era tutt' al- tro che impossibile. Partendo per Recanati, avrebbe, diceva, affidato le trattative al cugino Melchiorri, in- timo del cavaliere. Tornato Giacomo a Recanati, di questo matrimo- nio non si parlò più, finche nel luglio seppe dal cu- gino Melchiorri che il Marini zitto e cheto aveva con- cluso il parentado con una signora di Rieti. In questo mentre si erano di nuovo rotte le trat- tative riannodate col Peroli. E la PaoHna, riveduto dopo qualclie tempo il Roccetti e innamoratasene, ot- tenne dai genitori di essergli sposa. Tutto era com- binato : ma un giorno le venne un dubbio terribile, il dubbio di non avergli saputo ispirare quell'amore ch'ella sentiva per lui; gli esposo il dubbio; egli non seppe scioglierlo, ed essa lo congedò.' Povera Paolina ! Pesava un po' anche sopra di lei il destino del suo grande fratello! ' léUllitie ili J'aoliiia, png. 100.