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GIACOMO LEOPARDI A ROMA. 211 Ogni mia domanda, e che mi tratta quasi con ri- spetto. >' Il Mai gli mandò in dono una copia della Bepubhlica di Cicerone, «cosa, scrisse a Carlo, eh' è stata molto ammirata e invidiata. > In questo quadro della letteratura romana si ca- pisce che il poeta ha caricato le tinte, ma il fondo è vero. Egli quindi dovè, almeno per un po' di tempo, tener chiuse nel cassetto le sue Canzoni; e, non che pensare a stamparle, probahilmente non le fece ve- dere a nessuno, o a pochissimi. Odorato l'ambiente, prese subito il suo partito; mise da parte la lette- ratura, riassunse l'abito che portò da fanciullo, e si rifece un erudito e un grecista. Come tale era già co- nosciuto a Roma da alcuni di que' sacerdoti più o meno in fama di dotti. A farlo conoscere avevano con- tribuito lo zio Antici, che primo ne parlò al Cancel- lieri mostrandogli il Porfirio, ed un prete recanatese, don Natanaele Fucili, in relazione epistolare coi fra- telli Leopardi, specialmente con Carlo. Fu lui che nel 1817 si fece mandare e diede a leggere la tradu- zione del secondo deWEueide, e l'Inno a Nettuno, che come lavori di un giovanissimo destarono meraviglia.* Quelli che già conoscevano Giacomo quando ar- rivò a Roma, lo trattarono subito molto bene ; gli altri poco. Ma egli, senza mettere tempo in mezzo, pub- blicò qualche bagattella erudita (due articoletti cri- tici, uno sul Filone dell'Aucher, l'altro sui libri della BcpuhUica di Cicerone scoperti dal Mai), e cominciò la stampa delle Annotazioni all' Eusebio. Ciò bastò per acquistargli la considerazione di tutti i letterati, spe- cialmente degli stranieri, ch'erano per il Leopardi ciò che v'era di meglio a Roma in fatto di letteratura : ma per essi letteratura voleva dire soprattutto eru- dizione e lìlologia. < Gli stranieri, scriveva egli al
- Epistolario, voi. I, pag. 372, 373.
- Vedi 0. xVntognoni, Un Recanatene in Roma; Bergamo, 1901.