Vita di Giacomo Leopardi/Capitolo X
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183 Capitolo X. LE NUOVE CANZONI. 1821-1823. Sommario: Caratteri della lirica del Leopardi. — La canzono Nelle nozze della sorella Paolina e Virginia romana. — « Nostra vita che vai ? solo a spregiarla. » — La metrica delle prime cinque canzoni. — Bruto minore e Saffo. — La canzone di Bruto è la protesta del poeta. — Considerazioni dell' autore sul canto di Safifo. — Svolgimento metrico della lirica leopar- diana. — Compianto per la morte dello favole antiche. — La canzone Alla Primavera. — Gli inni d'argomento religioso. — L'inno -4» Patriarchi. — La canzone Alla ««a donna. — Pensieri nello Zibaldone. — Il Martirio dei Santi Padri, La sosta nel comporre poesie dopo la Canzone al Mai non era stata infruttuosa. L'ingegno del poeta, già nel suo pieno fiorire, si era venuto consolidando e affinando. Dagli studi e dalle meditazioni dei due anni 1820 e 1821 egli era uscito persuaso che nella poesia italiana moderna mancasse affatto la origina- lità, anzi che tutta la letteratura italiana veramente originale finisse con Dante e col Petrarca. E del Pe- trarca fu grande ammiratore, forse per una certa af- finità d'animo e d'ingegno che lo affezionò a lui fin dalla prima giovinezza. Ciò che più ammirava nel Petrarca, ciò per che lo proclamava grande lirico era l'affetto e l'eloquenza. Questa ammirazione spiega, os- serva il Carducci, < quale cominciasse ad essere al- lora, e quale sarebbe stata più sempre la lirica sua; non epica come quella di Pindaro ; non drammatica, come a volte quella d'Orazio; ma poeticamente elo184 ^ CAPITOLO X. quente, anzi l'eloquenza stessa della poesia, varia, intima, passionata, a svelare e lamentare le cose pro- fonde e segrete del cuore, della vita e della natura. > ' Egli sentì che per essere originale non doveva fare altro se non esprimere sé stesso, i sentimenti e i pensieri che gli tumultuavano nel cuore e nella mente, sentimenti e pensieri in molta parte diversi da quelli dei poeti suoi contemporanei; si sentì padrone degli strumenti dell'arte, e proseguì per la via nella quale si era messo con le prime canzoni; vi proseguì franco e sicuro, senza altro pensiero che di raggiungere nella espressione quella novità e quella forza che aveva am- mirate nei migliori fra gli antichi. Non che qualche reminiscenza di moderni non si senta nelle Nuove Canzoni; si sente che il poeta ha letto l'Alfieri, il Parini, il Monti, il Foscolo; ma tutte insieme le sette canzoni che noi chiamiamo nuove, e che il Carducci chiamò Canzoni-Odi, cioè. Nelle nozze della sorella FaoUna — A un vincitore nel pallone — Bruto minore — Alla Primavera — Saffo — Ai Patriarchi — Alla sua donna, sono quanto di più originale nella sostanza e nella forma avesse prodotto la lirica italiana mo- derna dopo il Parini ed il Foscolo ; e non furono su- perate se non da altre poesie del Leopardi stesso. Le due canzoni Nelle nozze della sorella o Al vin- citore nel pallone chiudono il ciclo delle poesie civili e patriotiche; ma l'entusiasmo non ò in esse, specie nella seconda, così pieno come nelle canzoni All'Ita- lia e Su Dante. Il poeta seguita ancora ad evocare lo gloriose memorie del passato come rimedio alla ignavia e bassezza del tempo suo; ma si sente che ò sfiduciato, perdio i mali che vedo e deplora gli sem- brano colpa non tanto degli uomini, quanto del de- stino. — Che giova recalcitraro alla nocossitilV llifu- giamoci, scriveva in questo tempo al Giordani, nella ' Uabduooi, Dtgli npiriti t dtlU formt oo., piig. 67. LE NUOVE CANZONI. 185 noncuranza e ridiamo. — Ma la noncuranza e il riso non bastavano ad acquetare l'animo del poeta, sì che di tratto in tratto non prorompesse in qualche parola di protesta e di ribellione. Nel contrasto continuo di que- sti sentimenti, nel cozzo dello scetticismo con l'entu- siasmo, della realtà con le illusioni, della disperazione con la ribellione, sta in gran parte la poesia delle Nuove Canzoni. La canzone alla sorella comincia con le dolci il- lusioni della giovinezza, alle quali essa dee rinunciare lasciando la pace del borgo nativo, per entrare nel tumulto della vita. Le nozze furono e sono sempre considerate come un avvenimento lieto, che i poeti d'ogni tempo cele- brarono, chiedendo alla Musa le immagini più gra- ziose e gentili, al vocabolario le parole più dolci e carezzevoli. Naturale: il matrimonio è la consacra- zione dell'amore, al quale è affidata la riproduzione della specie; è l'atto più importante della vita, in quanto rappresenta la continuità della vita stessa. Ma, col concetto che aveva della vita e de' tempi suoi il Leopardi, poteva aspettarsi da lui un canto di esul- tanza ? Tu, dice alla sorella, accrescerai l'infelice fami- glia alla infelice Italia; i tuoi figliuoli saranno o mi- seri codardi, poiché il corrotto costume ha posto un dissidio immenso fra la fortuna e il valore. Av- vezzali a tollerare i danni e il pianto della virtù, e fa' che crescano buoni, forti, infelici. Questo l'inse- gnamento che balza fuori dalla canzone. Ma il poeta aveva in cuore un altro pensiero, il pensiero che l'amore è sprone ad opere egregie, e la bellezza è maestra di alti affetti ; e questo pensiero lo signoreg- gia talmente che il queirulo carme nuziale si trasforma d' un tratto in un canto eroico. Il poeta vede le gio- vinette spartane cingere il brando ai mariti, e spar- gere poi le chiome sui corpi loro che tornano sul 186 CAPITOLO X. conservato scudo; vede Virginica, la gentile fanciulla romana che, offrendo al ferro del padre il bianchis- simo petto, gli grida: E se pur vita e lena Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena; e addita questi esempi alle spose italiane. L'episodio di Virginia col quale la canzone si chiude, episodio probabilmente ispirato, come notò lo Zumbini, dalla tragedia dell'Alfieri, è la parte più al- tamente poetica di tutto il componimento. Accanto all'eroismo femminile, che risveglia il sopito valore romano, brillano in quell'episodio la grazia e la bel- lezza della donna. Quella dolce fanciulla che, rinun- ziando ai suoi sogni d' amore, si sagrifica per un alto insegnamento al suo popolo è una delle più nobili crea- zioni della Musa leopardiana. La canzone al vincitore nel pallone comincia in- citando il giovane a forti imprese coll'esempio dei greci che ne' giuochi olimpici imparavano a mettere in fuga i nemici, a morire per la patria. Ma dal con- cetto de' giuochi che addestrano la gioventù all'agi- lità, alla forza, al coraggio, al desiderio d'illustri fatti, balza fuori quest'altro concetto: — Da che mondo è mondo le opere de' mortali sono forse altro che giuoco? e forse il vero ò men vano della menzogna? — Di qui il poeta precipita nella conclusione — buon giovane, se il cielo fatto cortese dalla memoria del passato, non impedisca l'estrema rovina della tua pa- tria, che fu già sì gloriosa, ti dolga sopravvivere a lei. La nostra vita non vale ad altro se non a sjìrc!- gìarla: cimenta dunque i tuoi giorni por la patria; ciò gioverà, se non altro, a non farti sentire, in mezzo ai pericoli, il lento e noioso trascorrere dello ore ; e quando sarai stato in procinto di perderò la vita, la vita ti parrà mono insipida. — LE NUOVE CANZONI. 187 Qui lo scetticismo ò anche più forte che nelhi can- zone al Mai. Non sembra davvero ragione degna di dare la vita per la patria il considerare che le opero umane non sono altro che un giuoco, e che il vero non è men vano della menzogna. Ma anche qui soc- corre la teoria del poeta sulle illusioni : — La natura stessa fece dono agli uomini dei lieti inganni e dei forti errori che in ogni tempo alimentarono e produs- sero le nobili azioni e gli studi gloriosi. — A noi di lieti Inganni e di felici ombre soccorse Natura stessa: e là dove l'insano Costume ai forti errori esca non porse, Negli ozi oscuri e nudi Mutò la gente i gloriosi studi. ^
La canzone alla sorella fu composta fra gli ul- timi d'ottobre e i primi di novembre del 1821 ; quella Al vincitore nel pallone fu finita l'ultimo di novem- bre del medesimo anno. Le canzoni, dice l'autore, parlando delle dieci che pubblicò poi a Bologna nel 1824, non sono tutte né in tutto di stile petrarchesco : ' ma tutte, diciamo noi, salvo V Inno ai Patriarchi, derivano dal Petrarca. Eliminata l'ultima strofa più breve detta Licenza, come avevano già fatto altri poeti prima di lui, il Leopardi si prese fin dalle prime canzoni altre libertà. Pur facendo le strofe, miste di endecasillabi e sette- nari, tutte dello stesso numero di versi, e con la me- desima disposizione dei versi e delle rime, lasciò un verso due senza rima; e nelle prime due canzoni, quelle AlV Italia e Su Datile, diede alle strofe dispari ' Vedi Articoletto critico intorno alle canzoni del conte Gia- como Leopardi, ristampato negli Scritti letterari, voi. II, pag. 283. 188 CAPITOLO X. uno schema e alle strofe pari un altro; con questo di più nella canzone Su Dante, che l'ultima strofa ha quattro versi meno delle precedenti. Le dodici strofe della canzone al Mai sono tutte eguali nel nu- mero dei versi e nella disposizione delle rime, col solo primo verso non rimato. La canzone nelle nozze della sorella ha questa particolarità: che sei delle sette strofe onde è composta hanno lo stesso schema ; la strofa centrale, la quarta, ha lo stesso numero di versi delle altre, ma uno schema un po' diverso; e tutte hanno un verso, il settimo, non rimato. La canzone A un vincitore nel pallone ha cinque strofe tutte con 10 stesso schema, ed un solo verso, l'ottavo, non rimato. Le due canzoni composte nel 1819 e lasciate inedite, quella Per donna inferma e l' altra Su lo strazio^ ap- partengono per la metrica al genere di queste cinque. Alla canzone A un vincitore nel pallone tenne im- mediatamente dietro il Bruto minore, composto in venti giorni del dicembre 1821. Due dei personaggi della antichità nei quali il nostro autore sentì più vivamente so stesso, furono Bruto e Saflfo. Negli odii suoi fanciulleschi contro Ce- sare il tiranno, c'era già l'ammirazione di Bruto. Ma quando nel tristo fiorire della sua gioventù gli parve che il mondo, la sorte, la natura fossero congiurati per contrastargli l'adempimento di tutto le sue aspi- razioni; quando per la trista fine dei moti del 1820 e '21 stimò perduta ogni speranza di redenzione della patria; quando si senti dalla infelicità trascinato, quasi suo malgrado, a bestemmiare la virtù;' allora l'im- mag^ino di Bruto gli si levò dinanzi grande e terri- bile, e vide noi sentimenti e pensieri ond'egli stesso era agitato un riflesso dei sentimenti e pensieri che doverono spingere il vinto di Filippi a gittaro la vita. 11 vinto di Filippi in fondo era lui Giacomo Leopardi : ' y«di BpUtolarUt di Oiaeomo leopardi, voi. I, pag. 107. LE NUOVE CANZONI. 189 Bruto aveva ucciso inutilmente Cesare, egli aveva uc- cisa inutilmente cogli studi la sua giovinezza. Cercare se nella canzone leopardiana siano fedel- mente rappresentati il personaggio e il momento sto- rico sarebbe chiedere al poeta quello ch'egli non ebbe in mente di fare. Di romano non vi è nella canzone che il linguaggio poetico, non vi sono che i simboli sotto i quali il poeta volle esprimere i suoi sentimenti e i suoi pensieri. < Mes sentimens envers la destinée (scriveva egli undici anni più tardi al De Sinner) ont été et sont toujours ceux que j'ai exprimés dans Bruto minore. >' Dunque degli empi Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta Per l'aere il nembo, e quando Il tuon rapido spingi, Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi? A questa magnanima bestemmia fa singolare ri- scontro il lamento di Saffo, cioè l'altra canzone nella quale il poeta rappresentò un altro non men doloroso aspetto di sé. Bruto è l' imprecazione dell' uomo che, oppresso dal destino, si rifugia nella morte e getta la sua sfida agli Dei; Saffo, che aspira con impla- cabile desiderio all'amore, ed è respinta dall'amore, chiede anch' essa la pace al sepolcro ; ma la sua di- sperazione comincia e finisce in un gemito. Nelle pa- role di Bruto e' è il grido marziale del combattente, che anche vinto non si arrende; in quelle di Saffo c'è il sospiro della elegia e il dolore della rassegna- zione:— Perchè son condannata a soffrire? Qual colpa ho commessa? non lo so; non capisco niente: Arcano è tutto Fuor clie il nostro dolor. — E si dispone a morire.
- Epistolario di Giacomo Leopardi, voi. II, pag. 478. 190 CAPITOLO X.
Il poeta, che in tutti i suoi scritti di verso e di prosa rappresentò sotto le forme più varie l'infe- licità sua, pensò più d'una volta a fare argomento di uno dei suoi canti quello ch'era, se non il mag- giore, il più pungente dei suoi dolori, l'esclusione dall' amore. Fra r infinito numero di scritti da lui pensati, dei quali troviamo ricordo nelle sue carte, c'è questo: < Scene comiche o tragiche. Personaggi storici o ideali. Per es. un uomo nella mia situazione che parli per la prima volta d'amore a una donna ec. ec. >' La scena, se l'autore l'avesse composta, sarebbe certamente riu- scita tragica. Invece di essa, egli compose il canto di Saffo, mostrando con ciò un senso finissimo del- l'arte. Le parole che uscendo dal labbro di una donna ci commuovono altamente, nella bocca di un uomo non avrebbero avuto la stessa virtù. Scritto il canto di Saffo, vi fece intorno queste considerazioni : < Il fondamento di questa Canzone sono i versi che Ovidio scrive in persona di Saffo, Epist. 15, v. 31 segg. Si mihi difficilis formam natura negavit etc. La cosa più diffìcile del mondo, e quasi impossibile, si è d'interessare per una persona brutta; e io non avrei preso mai questo assunto di commuovere i let- tori sopra la sventura della bruttezza, so in questo particolar caso, che ho scelto a bella posta, non avessi trovato molte circostanze che sono di grandissimo aiuto, cioò 1° la giovontft di Saffo, e il suo esser di donna. Noi scriviamo principalmente agli uomini. Ora ni nioza fca, ni vieja hcrmosa, dicono gli Spagnuoli, 2"il suo grandissimo spirito, ingegno, sensibilità, fama, anzi gloria immortale, e lo sue noto disavventuro, lo quali circostanze par cho la debbano fare amabile e graziosa, ancorchò non bolla; o se non lei, almeno la sua memoria, 3* e sopra tutto la sua antichità. ' N«ll« oarte nnpoletano in cono di «tampa. À LE NUOVE CANZONI. 191 11 grande spazio frapposto tra Saffo e noi confonde le immagini, e dà luogo a quel vago ed incerto che favorisce sommamente la poesia. Per bruttissima che Saffo potesse essere, che certo non fu, l'antichità, l'oscurità dei tempi, l'incertezza, ec. introducono quelle illusioni che suppliscono ogni difetto. >' La canzone di Saffo fu composta in sette giorni del maggio 1822. Prima di essa, subito dopo il Bruto minore, era stata composta la canzone Alia Friviu- vera, in dodici giorni del mese di gennaio. Alla can- zone di Saffo tenne dietro nel luglio dello stesso anno V Inno ai Patriarchi, opera di diciassette giorni. A questo seguì, con la distanza di più di un anno, la canzone Alla sua donna, composta in sei giorni del 1823. 11 Bruto minore e la canzone Alla Frimavera ap- partengono, per la metrica, al genere delle poesie precedenti ; sono cioè vere e proprie canzoni : cia- scuna è composta di strofe che hanno lo stesso nu- mero di versi e lo stesso schema, con questo di sin- golare, che, mentre le precedenti avevano in ogni strofa un solo o due versi senza rima, il Bruto mi- nore ha nove versi non rimati su quindici dei quali si compone la strofa, e la canzone Alla Primavera undici su diciannove. La canzone di Saffo si compone di quattro strofe, tutte dello stesso numero di versi, che sono endecasillabi sciolti, ad eccezione degli ul- timi due, un settenario e un endecasillabo rimati in- sieme. Vlnno ai Patriarchi, impropriamente chiamato canzone, è in endecasillabi sciolti. La canzone Alla sua donna è a strofe libere, di undici versi ciascuna, cou- chiuse tutte da due endecasillabi rimati insieme. Nelle canzoni si vede già tracciato, come appare da questi brevi cenni, lo svolgimento metrico della lirica leopardiana; la quale comincia con la strofa Nelle carte napoletane iu corso di stampa. 192 CAPITOLO X. regolare quasi pienamente rimata, per andare a finire, come vedremo, nella strofa libera con qualche rima al fine della strofa o al mezzo dei versi. La canzone Alla sua donna segna il passaggio dalla prima alla seconda maniera. E lo svolgimento avviene gradual- mente e naturalmente, secondando il lento modifi- carsi dei sentimenti e dei pensieri del poeta, e il pre- valere della meditazione filosofica all' impeto lirico e all'eloquenza della passione. Con la canzone di Bruto il Leopardi ha fatto, se così possiam dire, divorzio dalla vita e si è rinchiuso in sé stesso, nei suoi tristi e dolorosi pensieri, dei quali soltanto si comporrà quindi innanzi la sua poesia: pel mondo, che egli fra poco conoscerà più da vicino, non avrà che compassione e disprezzo. Unico pensiero che ancora lo sostiene, benché egli voglia nasconderlo quasi a so stesso, e benché ne senta e ne proclami la vanità, è il pensiero della gloria. Unico conforto alla sua disperazione richia- mare alla mente i dolci errori che fecero bella la giovinezza del mondo, ed in mezzo ai quali ò vissuto con lo spirito fino da giovinetto. Per trovare un pre- gio alla vita egli ha bisogno di persuadersi che, so ora ossa ò brutta e trista, vi fu puro un tempo, quando gli uomini vissero secondo natura, ch'era bolla e folicc. Nostri sogni leggiadri ove son giti Dell' ignoto ricetto D'ignoti abitatori, o del diurno Degli astri albergo, o del rimoto letto Della giovano Aurora, o del notturno Occulto sonno del maggior pianeta ? LE NUOVE CANZONI. 193 Il compianto per la morte delle favole antiche, accennato in questi versi della canzone al Mai, forma l'argomento della canzone Alla Primavera. Con una lettera del 6 marzo 1820 il Leopardi scriveva al Giordani : < Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sen- tendo un'aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alctme immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando mi- sericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. > Dalla contemplazione della scena descritta in queste parole e dai sentimenti ch'essa suscitò venne forse la prima ispirazione della can- zone Alla Primavera. Che la poesia fosse pensata all'avvicinarsi della primavera è opinione generale e ragionevole ; poiché essa comincia così : — Tu ritorni, o Primavera ; ma insieme con te torna forse al mondo la bella età an- tica ? E tu tenti risvegliare questo mio gelido cuore, facendomi credere che la natura viva ancora e ch'io ne oda ancora la voce? — Di qui il poeta si fa strada a descrivere, condensando, in tre strofe, ciò che di più vago e affettuoso e commovente è racchiuso nelle favole mitologiche; a descriverlo con una verità di sentimento che invano si cercherebbe maggiore nei poeti pagani. Finisce la rapida enumerazione con la storia di Filomela. Dopo la quale il poeta, tornando al doloroso vero della vita presente, dice al musico augello : — Ma tu oggi non hai più niente di comune con noi; nel tuo canto non sentiamo più il dolore dei tristi tuoi casi ; e benché innocente, non ci sei più caro come una volta. — La canzone si chiude con un doloroso appello alla Natura, affinché abbia pietà dei miseri mortali e CHiAsn?!, Ltop. 13 194 CAPITOLO X. renda l'antica favilla allo spirito del poeta ; se pure essa vive, E se de' nostri affanni Cosa veruna in ciel, se nell'aprica Terra s'alberga o nell'equoreo seno, Pietosa no, ma spettatrice almeno. Un concetto, simile a quello che circola per entro la canzone Alla Primavera, informa V Inno ai Pa- triarchi, al quale il poeta, pur comprendendolo fra le canzoni, diede e mantenne poi sempre anche il nome di inno. -Il concetto che lo informa è questo. — Se le favole mitologiche fecero bella e gioconda la vita agli antichi greci e romani, anche le prime genti umane, che vissero secondo natura, furono, nella loro beata ignoranza, felici ; e sono anche oggi felici quei popoli selvaggi fra i quali non penetrò la civiltà. —
Il pensiero di comporre degP inni d'argomento re- ligioso, sul fare di quelli omerici e di Callimaco, è, credo, anteriore alla canzone nelle nozze della sorella; sta cioò fra gli anni 1820 e 1821 ; e dovè occupare in modo non fugace la mente del poeta. Importa per ciò che noi ci soffermiamo un istante a parlarne. Rimasero preziose tracce di quel pensiero nelle carte napoletane e in quel Supplemento generale a tutte le mie carte, che già citai a proposito della Erminia e della Tclcsilla; tracce lo quali confermano come, an- che dopo la conversione filosofica avvenuta nel 1819, il Leopardi non si era staccato dalle credenze cri- stiane, nelle quali anche stimava essere molto di con- veniente alla poesia. Nelle carte napoletano sono i titoli e gli appunti dc^rinni che il poeta si proponera di comporre, e gli appunti di un discorso intorno ad ossi inni ed alla LE NUOVE CANZONI. 195 poesia cristiana; nel Supplemento un semplice ap- punto, clie in parte è ripetizione, in parte aggiunta e spiegazione di un altro delle carte napoletane. Negli appunti del discorso il poeta accenna alla rcKjionevole^za che la Chiesa conservi gl'inni suoi an- tichi, come i Romani gV inconditi versi saliari; alla bellezza della religione, al primitivo della scrittura, al- l'unione della ragione e della natura. Oltre questi con- cetti, che naturalmente avrebbero avuto svolgimento nel discorso, sono negli appunti altre osservazioni : che niente di hello poetico s' è scritto religiosamente, eccetto Milton, che l'inno eh' è poesia sacra, dev'esser tratto dalla religione dominante, che si può trar bellissimo dalla nostra; ne però si è tratto; e dev'esser popolare; che la religione nostra ha moltissimo di quello che so- migliando all' illusione è ottimo alla poesia. I titoli degl' inni sono : — Dio. Redentore. Maria. Angeli. Patriarchi. Mosè. Profeti. Apostoli. Martiri. Solitari. — Ai titoli seguono negli appunti poche e brevi osservazioni, alcune delle quali probabilmente avrebbero trovato luogo nel discorso; questa per esempio : < Necessità della religione e dell' immorta- lità, ec. prese da Cicerone nell'orazione prò Archia, fine, e de Sencctute. > Le osservazioni sono generiche, non si riferiscono cioè a nessun inno in particolare ; salvo che per l'inno a Maria è notato ch'esso do- veva cominciare come l'inno di Callimaco a Diana. I soli tre inni. Al Redentore, Ai solitari, Ai martiri, hanno ciascuno un appunto speciale ; dei quali il più lungo e importante è quello che riferiscesi Al Re- dentore. Anzi gli appunti che si riferiscono a questo sono due, quello delle carte napoletane e quello del Supplemento. Riferisco per intero quello del Supplc- mento, che, come ho accennato, in parte è ripetizione, in parte aggiunta e spiegazione dell'altro; e vi si parla anche di altri inni, in particolar modo di quello A Maria. 196 CAPITOLO X. < Tu sapevi già tutto ab eterno, ma permetti alla immaginazione umana che noi ti consideriamo come più intimo testimonio delle nostre miserie. Tu hai provata questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l'infelicità dell'esser nostro, ec. Pietà di tanti affanni, pietà di questa po- vera creatura tua, pietà dell'uomo infelicissimo, di quello che hai veduto, pietà del genere tuo, poiché hai voluto aver comune la stirpe con noi, esser uomo ancor tu. — Neil' inno degli apostoli si potrà parlare dei missionari, di san Francesco Saverio, delle mis- sioni all'America. Nell'inno ai solitarii, degli ordini religiosi, delle certose, ec, della vita monastica de- gli antichi grandi monasteri, ec. — Degli inni v. la Bibl. antiquar. del Fabric. — Per l' inno al Creatore al Redentore : — Ora vo da speme a speme tutto giorno errando, e mi scordo di te, benché sempre de- luso, ec. Tempo verrà ch'io, non restandomi altra luce di speranza, altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la mia speranza nella morte, e allora ricorrerò a te, ec. Abbi allora misericordia, ec. — A Maria : — È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne go- diamo; siamo tanto infelici! È vero che questa vita e questi mali son brevi e nulli; ma noi pure siam piccoli, e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei già grande e sicura, abbi pietà di tanto mi- serie, ec. > ' In quel breve periodo di tempo, poeticamente assai fecondo, che va dal primo disegno di poesie religioso all'ultima delle nuovo Canzoni, il pensiero di com- porre qualcuno degl'inni dovè i)iù volto traversare la monto del poeta, ma non lo mise ad effetto se non nel luglio del 1822. In diciassette giorni di questo mese compose l' inno Ai ratriarchi, del quale aveva.
- BuppUmtnto al pt'ngutto d'inni crintiani nollo Opurella ino.
rati di Giacomo Uopatdl; Livorno, Vigo, 1870, pag. 606, 607. LE NUOVE CANZONI. 197 secondo la sua usanza, scritta precedentemente la traccia in prosa. Questa traccia è più lunga della poe- sia, e contiene molte cose che nella poesia mancano ; è il documento nel quale il poeta raccolse proba- bilmente molta della materia che aveva disposta in mente per gl'inni. L' inno Ai PatriarcJn è, come dicemmo, in endeca- sillabi sciolti, divisi in sei gruppi di varia lunghezza. Il primo gruppo, di ventun versi, contiene la protasi, che annunzia l'argomento e intendimento dell'inno. — L' inno canterà i progenitori nostri, molto meno infe- lici di noi. Se la fama ricorda un antico loro fallo, cagione delle nostre calamità, pure la clemenza divina non tolse loro che la vita fosse un bene ; e maggiori assai furono i falli nostri che ci ridussero in que- st'ultimo termine d' infelicità. — Nel secondo gruppo, lungo di trentacinque versi, comincia, con Adamo, e con lo stato di solitudine in cui trovavasi allora il mondo, la descrizione dei principii del genere umano: Oh fortunata, Di colpe ignara e di lugubri eventi, Erma terrena sede! Ma l'innocenza e la felicità durano poco: il figlio stesso del primo uomo introduce la morte nel mondo, e, portando seco la maledizione di Dio, fonda le prime città. Queste due prime parti dell'inno corrispondono alla traccia in prosa. Ma nella traccia, prima della introduzione di Caino, c'è l'accenno seguente: < Eva, Donne, bellezza, suo impero, sua corruzione ; > e, dopo, quest'altro : < Set, cioè consolatore. Vizi del genere 198 CAPITOLO X. umano, e sua corruttela avanti il diluvio. > Istintiva- mente conscio che spesso il più bello di una poesia sta, non in ciò eh' essa dice, ma in ciò che lascia in- dovinare, il poeta, invece di fermarsi a descrivere i vizi del genere umano che furono cagione del dilu- vio, dalla stupenda descrizione di Caino trapassa sen- z'altro a Noè ; e in soli quattordici versi ci mette sotto gli occhi la poetica scena della salvazione da lui ope- rata del genere nostro, il quale, niente avendo impa- parato dal castigo divino, Biede alla terra, e il crudo affetto e gli empi Studi rimiova e le seguaci ambasce. Anche qui la traccia si allunga, parlando della torre di Babele, di Nembrod, della confusione delle lingue, della diffusione del genere umano per la terra. < Il nostro globo, dice la traccia, s'empie tutto di sventure e di delitti. Noi le insegniamo a terre vergini, le quali per la prima volta sentono l'influenza dell'uomo, e con ciò solo divengono consapevoli del male e del dolore. > < In proposito dell'arca di Noè, nota la trac- cia, si potrà fare una digressione sulla nautica, sul commercio, sull'usurpato regno del mare, sui morbi, sulle calamità derivate da queste cagioni. > So non che, nello scrivere l'inno, il poeta, sentendo il bisogno di affrettarsi, come aveva trascurato Eva e la bel- lezza dello donne, tralascia Nembrod e tutto il resto, contentandosi di questo breve accenno all'usurpato regno del maro e alle suo conseguenze. Agi' inaccessi Regni del mar vendicatore illude Profana destra, e la sciagura e il pianto A novi liti e novo stelle insogna. Cosi l'autore è arrivato al punto che j)iù lo inte- ressa, al punto nel quale sta la dimostrazione (1(1 li LE NUOVE CANZONI. 199 sua tesi ; Àbramo e la vita pastorale dei Patriarchi. < Qui, dice la traccia, l' inno può prendere un tuono amabile, semplice, d'immaginazione rident€ e placida, com' è quello degl' inni di Callimaco : > e lo prende difatti, accennando in soli sedici versi alla storia di Abramo e di Giacobbe e alla innocenza e felicità della loro vita pastorale. Dopo di ciò il poeta si crede in diritto di concludere : < Fu, certo fu, e non è sogno, né favola, né invenzione di poeti un'età d'oro pel genere umano.... Non già che i fiumi corressero mai latte, né che ec, ma s' ignorarono le sventure, che ignorate non sono tali ec. > Questa, che l'autore nella traccia chiama digressione o conversione lirica, occupa nel- l'inno diciassette versi. L'autore, conchiudendo così, si è dimenticato i due quadri da lui descritti in- nanzi a quello della vita pastorale, cioè Caino e la corruttela del genere umano avanti e dopo il di- luvio. L' inno finisce con dodici versi, i quali, a dimostra- zione e conferma di ciò ch'egli ha conchiuso, espri- mono il concetto eh' è dichiarato così nella traccia: < Tale anche oggidì nelle Californie selve, e nelle rupi, e fra' torrenti ec, vive una gente ignara del nome di civiltà, e restia sopra qualunque altra a quella mi- sera corruzione che noi chiamiamo coltura. Gente fe- lice a cui le radici e l'erbe e gli animali son cibo e l'acqua dei torrenti bevanda, e tetto gli alberi e le spelonche. > La traccia seguita empiendo quasi due pagine con la descrizione della vita immaginaria di queste genti barbare e felici, e con una serie d' im- precazioni contro la così detta civiltà nostra, che vuole a forza distruggere questa felicità, cui la natura aveva destinato il genere umano. Naturalmente il poeta ha condensato in quei dodici versi ciò che importava, ed omesso il resto. 200 CAPITOLO X.
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L'ultima delle nuove Canzoni, quella, Alla sua donna, fu composta in sei giorni del settembre 1823. Anche dopo il Canto di Saffo, il poeta non era di- silluso interamente dell'amore. Poiché nessuna donna poteva comprendere l'amor suo e ricambiarlo, egli pensò : — La donna che io amo non si trova su questa terra; nessuna delle donne di quaggiù le somiglia; forse visse nell'età dell'oro; forse la fortuna la ri- serba alle generazioni avvenire; forse è una delle eterne idee cui non è consentito di prendere forma umana ; forse vive in un altro mondo ed è irraggiata da un altro sole più bello del nostro — ; e così pen- sando scrisse e le lanciò il suo messaggio d'amore. Se dell'eterne idee L'una sei tu, cui di sensibil forma , Sdegni l'eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vitu; s'altra terra ne' superni giri Fra mondi innumerabili t'accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T'irraggia, e piii benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti o brevi, Qaesto d'ignoto amante inno ricevi. Una delicata e profonda malinconia emana dalle cinque strofe della Canzone, di cui questa che ho ri- ferita 6 l'ultima; strofe tutte denso di pensiero e di sentimento! E puro il poeta, dichiarando il concetto della poesia, annota quasi scherzando: < Se questa Canzono si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può nò dare nò patir ge- losia, porchò fuor dell'autore, nessun amante terreno vorrà far all'amore col telescopio. > ' • CiUto ArtieoUtto critico, rititftmpnto negli Scritti Iflltrari, Tol. II, pag. 286, I LE NUOVE CANZONI. 201 « « * Nel 1822, l'anno delle nuove Canzoni, il Leopardi scrisse soltanto 196 pagine dello Zibaldone, un sesto appena di quelle che aveva scritte l'anno innanzi. La maggior parte delle nuove pagine sono osservazioni e pensieri sulle lingue. Fra quelli che si riferiscono alla lingua italiana, con speciale riguardo alla moder- nità dello scrivere, ce ne sono dei notevolissimi, che mostrano quale larghezza d'idee egli avesse, lontano egualmente dalle gretterie dei puristi e da quelle dei futuri manzoniani. Dopo avere dimostrato che nessuna lingua viva ha né può avere un vocabolario che la contenga tutta, perchè finché vive ha diritto di crescere e di arric- chirsi ad arbitrio del popolo e degli scrittori, ed os- servato che il Vocabolario della Crusca de' tempi suoi non conteneva più d'una quarantesima parte della lingua italiana in generale, si domandava se non fosse cosa ridicolissima pretendere che quel Vocabolario, poverissimo e imperfettissimo in confronto di quelli delle altre nazioni, dovesse avere sulla lingua italiana una virtù, un'autorità e un dominio, che i più per- fetti Vocabolari delle altre nazioni non si sognavano di avere sulle lingue loro.' Anche diceva : < Una lingua non è bella se non è ardita, > e se la bellezza di una lingua sta nell'ardire, l'ardire non è concepibile senza la libertà. < Quindi se lingua bella è lingua ardita e Ubera, ella è pari- mente lingua non esatta e non obbligata alle regole dialettiche delle frasi, delle forme, e generalmente del discorso. > < Ciascuna bellezza, sì di una lingua in genere (eccetto l'armonia e la ricchezza delle parole e delle loro inflessioni), sì di un modo di dire in ispe-
- Pensieri di varia filosofìa oc, voi. IV, pag. 216, 217. 202 CAPITOLO X.
eie, è un dispetto alla grammatica universale e una espressa, benché or più grave or più leggera, infra- zione delle sue leggi. > ' E a proposito dei puristi notava l' affettazione e il ridicolo delle loro scritture, nelle quali per lo più si vede chiaramente un moderno che scrive all'antica. < Una delle due, diceva ; o s' ha da parere un antico che scriva all'antica; o s'ha da essere un moderno che .scriva alla moderna. >* I pensieri filosofici e morali sono pochi, ma tutti importanti. Ce n' è uno intorno al cristianesimo, eh' è perfettamente il contrario di quelli coi quali due anni innanzi si adoperava a conciliare esso cristianesimo col suo sistema della natura. < La religione cristiana, scrive egli, fra tutte le antiche e le moderne è la sola che implicitamente o esplicitamente, ma certo per essenza, istituto, carattere e spirito suo, faccia con- siderare e consideri come male quello che natural- mente ò, fu e sarà sempre bene, anche negli animali ; come la bellezza, la giovanezza, la ricchezza ec, e fino la stessa felicità e prosperità a cui sospirano e sospi- reranno eternamente e necessariamente tutti gli es- seri viventi. >' Mentre il Leopardi da una parte toccava il sommo de^a poesia e dell'arte classica con le nuove Canzoni, dall'altra esprimeva intorno alla modernità della lin- gua e dello scrivere le idee che abbiamo accennato, volle mostrare ai puristi che quella lingua antica della quale biasimava in loro l'uso irragionevole, egli la co- nosccTa meglio di loro; e come già aveva ingannato i grecisti con l'Inno a Nettuno e lo duo odi greche, si proposo d'ingannare ora i puristi col Martirio dei Santi Padri, supposto volgarizzamento del trecento, I PtntUH di varia fllotofia oo., voi. IV, pag. 228, 220. • Idom, pn({. 215.
- lUom, pog. 201, S62. LE NUOVE CANZONI. 203
che compose in questo anno 1822, e pubblicò quattro anni più tardi. Ma l'essere il Cesari e qualche altro rimasti all'inganno, mostra non tanto che il Leopardi seppe bene camuffarsi da antico, quanto che essi i puristi nel giudicare le scritture non andavano più in k\ della buccia. Il Giordani, pur ammirando lo sforzo del Leopardi, affermò che simili tentativi erano d' im- possibile riuscita. E non è assurdo credere che il Leo- pardi avesse la stessa opinione.