Viaggio di un povero letterato/XX
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Capìtolo XX.
DUNQUE RÒNDINI, ADDIO!
Mi sono accorto la mattina all’albergo che l’abbonamento ferroviàrio era già scaduto. Questa cosa è molto incresciosa perchè adesso dovrò fermarmi.
Dove andrò adesso?
Ho considerato intensamente ed ho riconosciuto che nella superfìcie così vasta del mondo non è luogo dove desidererei di fissare stàbile dimora. Non è cosa piacèvole non trovare fìsonomia di villàggio, profilo di campanile o di minareto, città o campagna che vi sorrida sì da esclamare: «vorrei vìvere là!». Come devono èssere felici quelli che pòssono dire: «Io vorrei vìvere là!».
«E allora c’è il cimitero.», dirà alcuno. E infatti ci avevo pensato; il cimitero di Bellària è pròprio un cimitero carino perchè abbandonato, e non è lontano dal mare, e mi piaceva una scritta con sopra scritto: «Ascolterò la voce del mare», naturalmente in latino: Exàudiam vocem maris, perchè certe cose è bene che sìano capite da pochi.
Inoltre quella buona gente di Bellària conserva riti fùnebri molto gentili: porta a bràccio le bare e non fa discorsi. Però avrèbbero detto: «Um spis! Mi dispiace. Pòvero professore!». Anche senza sapere di che io sia professore, ciò è molto gentile.
Ma da qualche tempo, intanto, sono sorti forti dubbi su la probabilità di udire la voce del mare dal cimitero di Bellària; e poi lo scorso autunno è accaduto un fatto che mi ha impressionato.
È morto a Bellària un buon signore, che aveva anche lui una sua villetta: un buon signore che occupava poco posto su la superfìcie della terra; non diceva male di nessuno, e dava a tutti il buon dì. È morto di morte dolce come del resto meritava; ma non è stato accompagnato a bràccia al cimitero: è venuto invece il carro nero e oro col cavallo. La buona gente non ha accompagnato: guardava il carro transitare per la campagna e pareva dire: «Voi seppellite i vostri morti e noi i nostri». Nella chiesetta non c’era nessuno del pòpolo. C’era Don Serafino e altri preti, che li vedevo su la cantoria aprire la bocca nera. Ma il pòpolo non c’era. Esso, in questi ùltimi tempi, ha imparato dalla bocca eloquente dei suoi apòstoli che Dio non c’è, e ha disertato la chiesa, e non si sofferma nemmeno su la porta della chiesa, perchè questa buona gente può crèdere o può negare, ma non si può soffermare sul limitare del dùbbio. La cosa mi ha fatto dispiacere, non perchè la negazione di Dio non sia anch’essa un’opinione rispettàbile; ma perchè sentir negar Dio all’osteria tra i fumi del vino e l’odore del pesce fritto, fa venir la nàusea.
Si può riconòscere per altro che l’apostolato della negazione di Dio non sta a sè, ma fa parte di tutto un più vasto programma che sarebbe questo: «i pòveri hanno diritto di godere come i ricchi». Questo è un programma attraente ed accessìbile alla intelligenza di tutti. Esso ha fruttato una bella fioritura di òdio fra questa buona gente contro quelli che sono chiamati signori; ed ho veduto molti signori rimanerne impressionati. A me la cosa non ha fatto però troppa impressione, e anzi in qualche caso ha fatto piacere, perchè gli uni valèvano gli altri. Tuttavia desiderando di vìvere in pace, mi sono affaticato a fare qualche dimostrazione abbastanza dettagliata per provare a questi pòveri che anch’io sono pòvero e anche sfruttato, e che fra essi vi sono non pochi più ricchi di me, e anche sfruttatori. Io non ho mai speso più inutilmente le mie parole!
«Che lei sia ricco o pòvero, è una cosa che ci importa poco. Noi sappiamo che lei non è dei nostri; lei specialmente!»
Non che essi àbbiano detto così con le parole, ma vi sono certi pensieri che si lèggono così bene negli occhi!
Precisamente, mi hanno fatto capire quello che mi hanno fatto capire «i signori», cioè che io non sono nemmeno dei loro.
Confesso che questa cosa mi ha fatto dispiacere perchè ho sentito una gran solitùdine intorno a me.
Ed è così che è svanita anche la vòglia di star da morto a Bellària. E anche da vivo!
Pìccola casetta di Bellària, non lagrimare! Io ti devo dire una verità amara: Io non ti amo più!
E pensare che quando nove anni fa ti fabbricai con quei pìccoli risparmi, mi pareva che i mattoni che si posàvano sui mattoni, cementàssero anche una mia pìccola felicità con un pìccolo sole autunnale! Ed io dicevo al buon mastro: «fammi le mura ben grosse, ben sòlide». Ora io dico: «Casetta, perchè non crolli, tu? pìccola casa sul mare, perchè non ti venne l’eccellente idea di crollare quando è venuto quell’uomo nero del fisco?». L’uomo del fisco che guardava e diceva: «Ma questa casa è una fortezza, un màstio, una rocca! Lei ha fabbricato senza rispàrmio! Oh, anche belle pitture! E quell’indivìduo lassù, sul soffitto, col cappùccio rosso e una rosa in mano, chi è?».
«Dante», risposi io, pensandomi con quel nome di commuovere il cuore del fisco.
Ma l’uomo del fisco piegò in giù le labbra come per dire: «che lusso!».
Perchè non crollasti quel giorno, pìccola casa? Soffitto con Dante dipinto, perchè non precipitasti?
Io la fabbricai la pìccola casetta — sì è vero — per mia pace e de’ miei, e questo è un lusso, lo riconosco; ma anche per ricoverare vècchie cose, vècchie masserìzie, errabonde come me per tanti anni; le quali mi pareva che domandàssero, anche esse, pace ed asilo. Le ho ricoverate nella casetta, sì che la camera da letto sembra quasi una bottega da rigattiere!
Ma quando di lùglio, alle quattro del mattino, spalancavo gli scuri, e dalla gran finestra entrava, io non so bene, se la luce dei pianeti e delle stelle o del nuovo giorno, e poi il fiammeggiare dell’aurora dal mare, era una gran letìzia, una gran frescura: e, nel silènzio profondo, io udiva un bisbigliare tènue: «ringraziamenti».
«Ringraziamenti», dicèvano le vècchie cose.
Levava io appena la testa dal capezzale, e vedevo il sole che si allungava per istaccarsi dall’azzurro del mare: e sùbito, da così lontano, mandava già pennellate d’oro su le pareti.
Dicèvano le vècchie cose: «Io sono la pìccola Madonna che per sette anni fui appesa sopra il tuo lettìcciolo in collègio; io sono il magro e ardente dàlmata, tuo professor Politeo dalla pupilla irònica; io sono il professor Carducci; io sono la prima scarpetta di Titì (l’altra scarpetta andò perduta; chi sa dove sarà); io sono la rossa santacroce che la mamma tua trapunse quand’era giovinetta, anno mille ottocento quarantotto! (mi sèmbrano màcchie di sàngue del suo cuore); noi siamo i libri di medicina e di legge dei vecchi tuoi. Fa conto, figliuolo, di èssere conte o marchese!»
«E noi siamo due sciàbole arrugginite, ed un bàlteo del Quarantotto! Fa conto, figliuolo, di èssere cavaliere!»
«Io sono la màdia del pane quando si faceva il pane in casa!».
Aprivo anche l’altra grande finestra che guarda verso il sole quando tramonta; e si vedeva, nel cielo di perla ancora, declinare giù la falcata luna. Pareva che la Madonna azzurra, che è sopra il letto, ora navigasse col piè posato sull’arco della luna. E la frescura dei campi, salendo, dicea: «Noi siamo la giovinezza che non tramonta!».
Anche per ricoverare queste pòvere masserìzie io edificai la casetta sul mare.1
«Ma questo è il lusso dei lussi» diceva l’uomo del fisco, puntando l’ìndice su la fronte. «Questo è il supèrfluo dei supèrflui!»
O uomo lùgubre del fisco, lusso tu chiami il culto delle memòrie? della famìglia? dei pòveri morti? Sai tu di quanto se ne avvantàggia la pàtria?
Ma l’uomo del fisco non conosceva la pàtria mèglio di Dante.
«Io non la tasserò mai bastantemente questa aristocràtica casetta!» mi disse, e mantenne la parola. E i pòveri e i ricchi a buona ragione mi dìcono: «Voi non siete dei nostri».
Ah, dolce casetta, perchè non poter fare come la Madonna di Loreto, che ordinò agli àngioli di trasportarla, la sua casa, di là dal mare?
Poi altre cose sono sopraggiunte in questi ùltimi anni oltre all’uomo del fisco, cose reali e cose fantàstiche, che sèguitano ancora a ballare nella mente: sono imàgini che non stanno ferme. Appena elle si fèrmano un po’ quando fugge il treno. E poi viene avanti quel pòvero piccino che correva nella sua dolce infànzia per le stanze della casetta: la sua casetta! Ora pende immòbile e come tetro da un ritratto della parete; e il sole invano lo percuote. Quali cose tristi, o mio piccino, hanno fermato il tuo tènero riso? Ho l’impressione di un gran tradimento intorno a me. Ma davanti a me cammina Cristo, e quelle sue folli parole: «Làscia tutto, butta via tutto!», mi hanno inebbriato di una nuova passione: «non fabbricare qui nulla — dice Cristo — : non èssere proprietàrio di nulla; non èssere iscritto in nessun registro! Allora non avvèngono più tradimenti; allora si cammina ben lieve!».
Invece io per effetto di quella casetta sono inscritto fra i proprietari del mondo. Ma noi non siamo proprietari di nulla!
Ma pensare che bizzarra cosa! Fino a un certo tempo della vita noi lavoriamo per legarci alla vita, fabbrichiamo case, compriamo terre, piantiamo àlberi, piantiamo figliuoli, e con che entusiasmo! Si crede nella glòria, nella làmpada della vita; v’è chi crede nella civiltà, nella filosofìa e in altri zuccherini della ragione. Poi viene un momento che desideriamo di èssere slegati. Allora si comprende, e ci si meravìglia. Ma, dunque, noi possedevamo un’enorme provvista di volontà di vìvere! Dove era questa volontà occulta? Per fortuna che questo desidèrio di èssere slegati dalla vita viene a pochi, se no sarebbe un affare sèrio, anche per il fìsco. Tutti andremmo dietro a Cristo.
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Mi era grave, per tutti questi motivi, ritornare alla casetta di Bellària. Eppure era necessàrio. D’altra parte in quella città non volevo rimanere. Ecco: andremo a Bellària lentamente, con un lungo giro. Andrò prima a San Màuro che è la pàtria di Giovanni Pàscoli, tanto più che io ho un dèbito da assòlvere con lui. E in secondo luogo, il dottor Grigioni, che è mèdico condotto di San Màuro, mi aveva più volte fatto invito per lèttera di andarlo a trovare e visitare una sua raccolta di cose del Pàscoli. «Un uomo che ha raccolto con amore le cose del pòvero Pàscoli, deve èssere necessariamente un uomo fornito di quella gràzia (mi pare che si chiàmino gràzie i doni di Dio), che è la bontà.» Così dicevo fra me, perchè di persona non conoscevo il dottor Grigioni «E come mèdico, certamente deve èssere un filòsofo: ma filòsofo di quella filosofia che non muta come quella delle scuole; perchè fondata sull’uomo, che non muta. Sarà un dottore venerando con una bella barba bianca.»
Pòvero Pàscoli! Io volevo — come ho detto — andare in peregrinàggio a San Màuro per còmpiere un’òpera di riparazione verso lui, morto, di certi pensieri che di lui ebbi quando era vivo. Negli ùltimi tempi che egli fu in vita, la sua voce lamentosa di fraternità e di pace non la potevo più sentire. Mi pareva un mendicante che domandasse agli uòmini quello che essi non pòssono dare: l’amore e la pietà. Anche quella sua religione per gli ùmili non mi piaceva: «Sì, Pàscoli, regala il pane bianco e gratùito! Dopo lo butteranno via e domanderanno le tartine». È sconfortante, lo so: ma è così. E anche non mi piaceva nel Pàscoli quel suo portare i fiori del sentimento al socialismo. «Il socialismo — io diceva — è quello che è; e se è, è perchè oggi ci deve èssere; ma dei tuoi fiori devoti non sa che fàrsene».
«Giovanni Pàscoli — io dicea anche — non far la capinera, che alleva le ova del cuculo; perchè quando il cuculino è cresciuto appena, butta giù dal nido tutte le capinerine.
«Tu ben ti intendi di uccellini, Giovanni Pàscoli! Il cuculino non lo fa per cattivèria, oh no! È l’istinto. Ha fatto così, e farà sempre così!»
Ma lui era sincero come un morente che dice ai viventi: «Amàtevi, andate d’accordo, non fatevi del male, aiutàtevi l’un l’altro». E quando nelle sue ùltime poesie cantò cose eròiche e la Pàtria, sì, anche allora era sincero, e l’eco della sua arpa era ben grande! Ma forse egli ne aveva sgomento, perchè, allora, anche la guerra.... La guerra sempre? e la notte si doveva bàttere il petto come il Petrarca quando gli si affacciava la magnificenza carnale di madonna Làura; se non che Pàscoli non possedeva Dio a cui domandare mercè.
Ma come spesso mi avviene, io ragionavo per passione. Giovanni Pàscoli era come un vero santo, il quale voleva tutto il bene, perchè aveva conosciuto tutto il male; e di questa santità la sua poesia portava le divine stigmate, come ebbi documento il giorno che egli morì.
Quando egli morì, ci fu un grande funerale in Bologna, e la gente faceva confronti fra questo funerale e quello del Carducci e quello di non so chi altro. Ma in quel giorno in Bologna vidi sopra la casa dove abitava il Pàscoli fuori di porta d’Azèglio, un gran màndorlo improvvisamente fiorire. E la sera in una bottegùccia vidi una giovanetta cieca e di ùmile condizione, la quale piangeva; e domandàndole io perchè, rispose; per la morte del Pàscoli. Ella non lo conosceva di persona, ma diceva che per le poesie di lui aveva, lei cieca, veduto il cielo ed i fiori.
Queste due cose mi fècero molta impressione e così decisi di andare a San Màuro a fare ammenda dei miei pensieri.
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Lasciai l’albergo di quella città, e mi trovai in piazza che era primo mattino. Cominciavano a venire le prime vetture da nolo. Ne noleggiai una.
Il giro per San Màuro importava parecchi chilòmetri di più; e il vetturale fece valere i diritti dell’Ostenda d’Itàlia per domandarmi venti lire; e infine si arrese per diciotto, perchè io ero io; ma non lo dicessi a nessuno che lui veniva per così poco.
Ed ecco càpita lì, tutto trafelato, un grosso prete. E si spiegò: egli doveva recarsi al mercato, a Savignano, e aveva perduto la prima corsa del treno delle quattro e mezzo. Si offrì, poi insistè per salire anche lui. Avrebbe contribuito per due lire al nolo della vettura; poi due e mezzo. Arrivò sino a tre lire. Ma io sempre di no con la testa.
— Capisce — diceva — che ho affari urgenti al mercato?
Ma io sempre di no con la testa.
— Ah, non capisce? Tedesco è lei?
Quando il prete vide che a nessun patto io ero disposto a farlo salire, si sfogò col fiaccheraio, in dialetto:
— S’è fatto un mondo così superbioso, così aristocràtico con questi forestieri, che l’è una vergogna! Ma non ci si stava bene in due?
E indicava i quattro cuscini, che io mi ostinavo ad occupare da solo.
«Prete, prete, egli è che io poco amo i làici che vanno al mercato; meno poi i chièrici!»
Ed il prete rimase lì, su la piazza, a querelarsi contro la aristocrazia.
Passò il borgo di San Giuliano, passàrono le Celle, dove è il Cimitero. Me ne accorsi dal rumore delle ruote sul passàggio a livello. Allora soltanto levai la mano dagli occhi.
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Per la grande via Emilia, per quella che fu già la via Romea, fra le siepi bianche di pòlvere, scendèvano alla città, festosamente, baroccini, contadini, coi cesti delle verdure fresche, del pollame vivo che canta, delle uova, delle frutta rugiadose. Questa gente che vuol mangiare; questo mondo che ogni mattina vuole vivere!
Garrìvano in alto le ròndini.
Antica via Romea, che costèggia il lido adriano, quanta gente passò! Passàrono i legionari, passò il gran piede dei Goti, passò il piedino di Francesca. Ma forse ella venne di Ravenna cavalcando un bel destriero.
Beato il mio vetturale che non sa nulla di queste cose!
Ogni tanto qualche fìschio lungo, di trebbiatrice: presso le aie, ogni tanto, vampate calde di spighe sgranate. Dietro gli olmi, saliva verso oriente la lìnea del mare: qualche vela sospesa. Riudivo, con effetto di incantesimo, al passare dei passanti, il suono del dialetto dell’infànzia. Mi pareva a quei suoni di vedere i miei morti antichi. «Come mai perdura — io mi domandava — tanta letìzia nel mondo!» Ma le ròndini garrìvano più forte. Mi affissai in quel garrire delle ròndini, e ripetei anch’io, non so come, le parole del Pàscoli:Dunque ròndini, ròndini, addio.
Oh, buon poeta! Eri tu che mi prestavi dalla tomba la tua cantilena:
Ma saranno pur gli stessi voli;
Ma saranno pur gli stessi gridi;
Ma saran pur gli stessi nidi,
Risarà tutto quello che fu.
Una monòtona cantilena in verità. Ma le cantilene dei poeti bisogna controllarle buttàndole contro il sole, contro le ròndini. E se queste cose rispòndono, allora le cantilene più disadorne sono veramente adorne.
Chi sono i poeti? Sono coloro che parlano dopo la morte.
Dunque, ròndini, ròndini, addio! cioè: addio, dolce vita!
E poi, ripensàndoci e come eccitato da quel garrire che accompagnava sopra la mia testa l’andare traballante della vettura, mi pareva che anche un altro poeta avesse così preso commiato dalla vita con un addio alle ròndini.
E cercando chi altri avesse detto così, vidi verso occidente la lìnea dei monti, San Leo, la Carpegna, Montefeltro.
Per quei monti di Romagna passò San Francesco la prima volta che si recò alla Vèrnia; e partèndosi per sempre dalla Vèrnia, disse così: «Dunque addio, addio, addio! Io me ne parto con fra Leone, pecorella di Dio, e qui non farò più ritorno. Addio, addio, addio! Addio tutti: addio ròndini, addio Monte degli Àngioli, monte pingue, monte coagulato, restati in pace che mai più ci rivedremo!».
Ma il fiaccheraio ruppe l’incanto: si fermò ad una bottega su la via, da cui pendeva una frasca.
— Se permette — disse — mi rinfresco la gola, — e balzò di cassetta, e poi stava lì su l’ùscio dell’osteria centellinando da un boccaletto di còccio, in un bicchiere, un così vermìglio vino, con tanta gioia, con tanto sole in quel vino, che mi parve quasi natural cosa cominciare il giorno libando il vino. Se non fossi stato io più ebro di lui, lo avrei imitato.
— Lo poteva prender su, pòver pritazz! — disse.
Non risposi: se saliva il prete, non saliva San Francesco.
— Già che siamo su la strada, — dissi io, — vi volete fermare un poco alla Torre?
— Vuole andare a visitare le cantine della Torre? — ridomandò lui. — Ci va tanta gente. C’è una botte che è grande come una casa.
— Anzi non entreremo nè meno alla Torre. Basta che vi fermiate un po’, e poi giriamo tutt’intorno, di passo. La cosa farà piacere anche a questa vostra bèstia, che mi pare non àbbia troppa volontà di andare.... — conclusi innocentemente.
Se ne ebbe a male. Questo io non dovevo dire. Era una bèstia eròica la sua. Non disse «eròica»: disse «di un sentimento, che nemmeno un cristiano! Sa lei quante mìglia pàssano, adesso, con la stagione dei bagni, sotto le sue zampe? E senza mai alzare la frusta e senza biada! Che vale, del resto — concluse — farci delle spese? Già, finita la stagione, tutte queste pòvere bèstie da piazza sono destinate alla carretta o al pelatòio. È il gran sentimento che ha. — «Ah, sì!» — urlò infine verso di me levando la palma della grossa mano, e: «Va là, Filopanti!» e sùbito le quattro gambe ballerine della bèstia affrettàrono premurosamente il loro ritmo.
— Vede?
— Vedo. E perchè la chiamate così?
Non sapea. La aveva comprata con quel nome.
Sventurata bèstia, se non fossi nata così piena di natural sentimento — pensavo, — avresti la consolazione di gustare un po’ di biada prima di andare al pelatòio.
- ↑ Nel lùglio 1918, in un giornale di Milano fu stampato uno scritto che accusava l’autore del presente libro di non aver voluto nella casa, di cui qui si parla, i pòveri pròfughi! La casa fu requisita; ed è vero il contràrio, cioè che domandando ai pròfughi di fare, per i due mesi dell’estate, posto anche al proprietàrio, restringèndosi e usando la cucina in comune (che sarèbbero stati risarciti delle maggiori spese dal detto proprietàrio), quelli rispòsero non intèndere di restrìngersi, né avere nulla in comune.
La sola cosa di cui l’autore si dolse fu che non si volle o non si potè dare tempo e modo di convenientemente ricoverare le cose familiari di cui qui è parola.
La requisizione della casa, del resto, era pìccolo sacrificio e sèmplice dovere.
Lo scritto del giornale conteneva parole che andàvano sino all’augùrio dell’impiccagione per il proprietàrio letterato e per la letteratura; la firma era di una signorina.
Allora non mi parve il caso di rispòndere, e se oggi ne fàccio menzione, qui, è per necessità, affinchè chi legge questa pàgina sentimentale su la casa, e àbbia letto quello scritto, non si formi dell’autore concetto diverso dal vero.