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206 | viàggio d’un pòvero letterato |
per ricoverare vècchie cose, vècchie masserìzie, errabonde come me per tanti anni; le quali mi pareva che domandàssero, anche esse, pace ed asilo. Le ho ricoverate nella casetta, sì che la camera da letto sembra quasi una bottega da rigattiere!
Ma quando di lùglio, alle quattro del mattino, spalancavo gli scuri, e dalla gran finestra entrava, io non so bene, se la luce dei pianeti e delle stelle o del nuovo giorno, e poi il fiammeggiare dell’aurora dal mare, era una gran letìzia, una gran frescura: e, nel silènzio profondo, io udiva un bisbigliare tènue: «ringraziamenti».
«Ringraziamenti», dicèvano le vècchie cose.
Levava io appena la testa dal capezzale, e vedevo il sole che si allungava per istaccarsi dall’azzurro del mare: e sùbito, da così lontano, mandava già pennellate d’oro su le pareti.
Dicèvano le vècchie cose: «Io sono la pìccola Madonna che per sette anni fui appesa sopra il tuo lettìcciolo in collègio; io sono il magro e ardente dàlmata, tuo professor Politeo dalla pupilla irònica; io sono il professor Carducci; io