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xx. - Dunque ròndini, addio! | 207 |
sono la prima scarpetta di Titì (l’altra scarpetta andò perduta; chi sa dove sarà); io sono la rossa santacroce che la mamma tua trapunse quand’era giovinetta, anno mille ottocento quarantotto! (mi sèmbrano màcchie di sàngue del suo cuore); noi siamo i libri di medicina e di legge dei vecchi tuoi. Fa conto, figliuolo, di èssere conte o marchese!»
«E noi siamo due sciàbole arrugginite, ed un bàlteo del Quarantotto! Fa conto, figliuolo, di èssere cavaliere!»
«Io sono la màdia del pane quando si faceva il pane in casa!».
Aprivo anche l’altra grande finestra che guarda verso il sole quando tramonta; e si vedeva, nel cielo di perla ancora, declinare giù la falcata luna. Pareva che la Madonna azzurra, che è sopra il letto, ora navigasse col piè posato sull’arco della luna. E la frescura dei campi, salendo, dicea: «Noi siamo la giovinezza che non tramonta!».
Anche per ricoverare queste pòvere masserìzie io edificai la casetta sul mare.1
- ↑ Nel lùglio 1918, in un giornale di Milano fu stampato uno scritto che accusava l’autore del presente libro di non aver voluto nella casa, di cui qui si parla, i pòveri pròfughi! La casa fu requisita; ed