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216 | viàggio d’un pòvero letterato |
festosamente, baroccini, contadini, coi cesti delle verdure fresche, del pollame vivo che canta, delle uova, delle frutta rugiadose. Questa gente che vuol mangiare; questo mondo che ogni mattina vuole vivere!
Garrìvano in alto le ròndini.
Antica via Romea, che costèggia il lido adriano, quanta gente passò! Passàrono i legionari, passò il gran piede dei Goti, passò il piedino di Francesca. Ma forse ella venne di Ravenna cavalcando un bel destriero.
Beato il mio vetturale che non sa nulla di queste cose!
Ogni tanto qualche fìschio lungo, di trebbiatrice: presso le aie, ogni tanto, vampate calde di spighe sgranate. Dietro gli olmi, saliva verso oriente la lìnea del mare: qualche vela sospesa. Riudivo, con effetto di incantesimo, al passare dei passanti, il suono del dialetto dell’infànzia. Mi pareva a quei suoni di vedere i miei morti antichi. «Come mai perdura — io mi domandava — tanta letìzia nel mondo!» Ma le ròndini garrìvano più forte. Mi affissai in quel garrire delle ròndini, e ripetei anch’io, non so come, le parole del Pàscoli: