Versi - Paralipomeni della Batracomiomachia/I. Versi (1816-1826)/II. Appressamento della morte
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II
APPRESSAMENTO DELLA MORTE
CANTICA
(1816)
Certi non d’altro mai che di morire.
CANTO PRIMO
Era morta la lampa in occidente,
e queto ’l fumo sopra i tetti e queta
de’ cani era la voce e de la gente:
quand’i’, volto a cercare eccelsa meta,
5mi ritrova’ in mezzo a una gran landa,
bella, che vinto è ’ngegno di poeta.
Spandeva suo chiaror per ogni banda
la sorella del sole, e fea d’argento
gli arbori che a quel loco eran ghirlanda.
10I rami folti gían cantando al vento,
e ’l mesto rosignol che sempre piagne
diceva tra le frasche suo lamento.
Chiaro apparian da lungi le montagne,
e ’l suon d’un ruscelletto che correa
15empiea il ciel di dolcezza e le campagne.
Fiorita tutta la piaggia ridea,
e un’ombra vaga nella valle bruna
giú d’una collinetta discendea.
Sprezzando ira di gente e di fortuna,
20pel muto calle i’ gía da me diviso,
cui vestía ’l lume della bianca luna.
Quella vaghezza rimirando fiso,
sentía l’auretta che gli odori spande,
mollissima passarmi sopra ’l viso.
25Se lieto i’ fossi è van che tu dimande.
Grand’era ’l ben ch’aveva, ed era ’l bene
onde speme nutría di quel piú grande.
Ahi, son fumo quaggiú l’ore serene!
Un momento è letizia, e ’l pianto dura.
30Ahi, la téma è saggezza, error la spene.
Ecco imbrunir la notte, e farsi scura
la gran faccia del ciel ch’era sí bella,
e la dolcezza in cor farsi paura.
Un nugol torbo, padre di procella,
35sorgea di dietro ai monti e crescea tanto
che non si vedea piú luna né stella.
Io ’l mirava aggrandirsi d’ogni canto,
e salir su per l’aria a poco a poco,
e al ciel sopra mia testa farsi manto.
40Veniva ’l lume ad ora ad or piú fioco,
e ’ntanto tra le frasche crescea ’l vento,
e sbatteva le piante del bel loco,
e si facea piú forte ogni momento
con tale uno stridor, che svolazzava
45tra le fronde ogni augel per lo spavento.
E la nube crescendo in giú calava
ver’ la marina, sí che l’un suo lembo
toccava i monti e l’altro il mar toccava.
Pareva ’l loco d’ombra muta in grembo,
50di notte senza lampa chiusa cella,
e crescea ’l buio a lo ’ngrossar del nembo.
Giá cominciava ’l suon de la procella,
e di lontan s’udiva urlar la pioggia
come lupi d’intorno a morta agnella.
55Dentro le nubi in paurosa foggia
guizzavan lampi e mi fean batter gli occhi,
e n’era ’l terren tristo e l’aria roggia.
I’ sentia giá scrollarmisi i ginocchi;
ch’i tuoni brontolavano a quel metro
60che torrente vicin che giú trabocchi.
Talora i’ mi sostava e l’aer tetro
guardava spaurato e poi correa,
sí ch’i panni e le chiome ivano addietro.
E ’l duro vento col petto rompea,
65che gocce fredde, giú per l’aria nera
soffiando, sopra ’l volto mi spignea,
E ’l tuon veníami ’ncontra come fera
rugghiando orribilmente senza posa,
e cresceva la pioggia e la bufera.
70E ne la selva era terribil cosa
il volar foglie e rami e polve e sassi,
e ’l rombar che la lingua dir non osa.
I’ non vedeva u’ fossi ed u’ m’andassi:
tant’era pien di dotta e di terrore
75che non sapea piú star né mover passi.
Era ’l balen sí spesso che ’l bagliore
s’accendea sempre e mai non era spento,
perch’al fine i’ ristetti a quell’orrore,
e mi rivolsi indietro; e ’n quel momento
80si stinse ’l lampo e tornò buia l’etra
ed acquetossi ’l tuono e stette ’l vento.
Taceva ’l tutto, ed i’ era di pietra
e sudava e tremava che la mente,
come ’l rimembra, per l’orror s’arretra;
85e ’l palpitar si facea piú frequente:
quando, com’astro che per l’aer caggia,
un lume scese e fémmisi presente.
Splendeva in quella tenebria selvaggia
sí chiaro che vincea vampa di foco,
90qual fornace di notte in muta piaggia,
e splendendo cresceva a poco a poco;
e ’n mezzo vi pareva uman sembiante
vago sí ch’a ’l ritrar mio stile è roco.
Ed i’ tremava dal capo a le piante,
95ma pur dolcezza mi sentia nel petto
in levar gli occhi a quel che m’era innante.
Bianco vestia lo Spirto benedetto,
raggiante come d’espero la stella,
e avea ’l crin biondo e giovenil l’aspetto.
100— Io l’Angel son che tua natura abbella,
tua guardia — (e su i ginocchi allor cascai)
cominciò quegli in sua santa favella.
— La gran Signora da’ sereni rai
mandommi c’ha di te pietade in cielo;
105poco t’è lunge ’l dí che tu morrai. —
I’ mi fei bianco in volto e venni gelo,
attonito rimasi e mi sentia
ritrarsi ’l core ed arricciarsi ’l pelo.
E muto stetti, e pur volea dir: — Sia,
110o Signor, quel ch’è fermo in tuo consiglio, —
ma voce della strozza non uscia.
E sol potei chinar la fronte e ’l ciglio,
e caddi al suol boccone; e quegli allora
levommi a un tratto e: — Fa’ cor — disse, — o figlio.
115Non ti dolga di tua poca dimora
in questa piaggia trista, e non ti caglia
ch’ancor del quarto lustro non se’ fòra.
Or ti parrá da quanto aspra battaglia
voler sia de l’Eterno che fòr esca,
120e come umana gente si travaglia,
e quant’è van quel che le menti adesca,
ed ammiranda vision vedrai,
per che gir di qua lunge non t’incresca. —
E poi soggiunse: — Mira! — ed i’ mirai.
CANTO SECONDO
Parve di fòco una vermiglia lista
a l’orizzonte a galla sopra ’l mare,
ch’atava in quell’orror la dubbia vista:
come di state dopo ’l nembo pare
5sul mar la notte luce di baleno
che lambe l’acqua e l’ombre fa piú rare;
o come ride striscia di sereno,
dopo la pioggia sopra la montagna,
allor che ’l turbo placasi e vien meno.
10Ed i’ vedeva gente molta e magna
passar non lunge innanzi a quel chiarore,
che n’era piena tutta la campagna.
E primier vidi sogghignando Amore
svolazzar su la gente di suo regno
15tanta ch’e’ di quaggiú parea signore.
Iva misera turba che fu segno
a suoi strali roventi, e parea tutta
atteggiata di doglia e di disdegno.
Questi son que’ che ne la fera lutta
20di nostra vita vinse la gran possa
di quel desio che pianto e morte frutta.
Quest’è la turba che nel mondo ingrossa
al volger d’ogn’istante, e non vien manco
per volar d’ora o spalancar di fossa.
25Fermo i’ guardava, e quel che m’era al fianco
(e ’l potea ben senza mirarmi il viso)
scorse ’l dubbiar de lo ’ntelletto stanco,
e disse: — Questa è gente che di riso
non ebbe un’ora in vostra vita lassa,
30pur sempre ebbe a cercarlo il pensier fiso.
E nutrí speme pazza e voglia bassa,
locando suo desire in cosa vana,
ed amò ben che, quando giugne, passa.
Quel vergognoso lá che s’allontana,
35è ’l prence tristo per cui delitto
tant’alta venne la virtú romana.
Appio è quel lá che cónto a voi fe’ ’l dritto,
pel cui malvagio amore un’altra volta
Roma fu lieta e suo tiranno afflitto.
40Antonio è quel che lamentar s’ascolta,
e di suo fato no, ma par si lagne
sol che sua donna scaltra gli sia tolta.
Vedi Parisse piú vicin che piagne
Ilio in faville e la reggia diserta
45e morti i frati e serve le campagne
e d’erba e sassi la cittá coverta:
e fu cagion di tanta doglia amore,
e vedi quel c’ha sí gran piaga aperta.
È Turno, e per Lavinia è ’l suo dolore,
50per chi di morti fe’ sí gran catasta
quel ch’al Tebro menò le teucre prore.
Vedi Sanson colá che mal contrasta
a Dalila, e ’l gran re ch’anco si dole
che sapienza contr’amor non basta.
55Mira quell’alme quivi che van sole
con la faccia scarnata e ’l ciglio basso,
e movon lente e senza far parole.
Vestali fûro, e sotto flebil sasso
menolle dura legge e crudo foco.
60di per loro a compor lo corpo lasso.
Vedi quanti ha malconci ’l tristo gioco,
e perduti ha il furor di voglia insana,
che tempo lungo a noverargli è poco.
Guata quel truce lá ch’a la cristiana
65fede aprí ’l lato, e che nel suol britanno
di giusto sangue fe’ tanta fontana.
e per amor, di re venne tiranno,
e mandò giú tant’alme a l’aria bruna,
sí ch’ancor dura e sará eterno ’l danno;
70per chi d’Anglia tal frotta si rauna
e mugulando s’addossa e si preme
qual sozzo gregge a la ’nfernal laguna.
D’infinita sciaura amor fu seme,
che non sua sol ma van mill’alme ognora
75per lui ’ve ’l tristo eternamente freme.
Oh miser’Anglia che tanta dimora
fai ne l’errore, e non ti basta ’l lume
de la mental tua lampa a uscirne fòra,
e giá tutto conosci forché ’l nume,
80e cieco nasce e non vi pensa e mòre
tuo popol gramo vinto dal costume. —
Poi sospirando disse: — Or vedi, amore
com’è crudele al mondo, e com’è duro
far ch’e’ non giunga a palpeggiarti ’l core.
85Sapienza non è sí saldo muro
che nol dirompa forza di suo strale,
e chi men l’ha provato è men sicuro.
E se l’alma infermò di tanto male
e sente l’aspra punta, ov’è la pace?
90e se pace non è, viver che vale? —
Sí come chi per poi soggiunger tace,
quel tacque, ed i’ mi vidi un mesto avante
giovane e tal che d’ello anco mi spiace.
Tanto mi vinse suo flebil sembiante
95che l’Angel di suo nome interrogai,
benché mio dir sonava ancor tremante.
E quel rispose: — Da sua bocca udrai
contar suo fallo e di suo fallo i danni. —
E l’approcciammo, ed i’ l’addimandai.
100— Ugo fui detto, e caddi in miei verd’anni,
e me Ferrara tra suoi forti avria,
se non fosse ’l mio padre infra’ tiranni; —
disse, e ristette e quasi si pentia,
poi seguitò: — Mi trasse al punto estremo
105non so se di mio fato o colpa mia.
I’ membro l’ora, ed in membrarla fremo,
che prima vidi le sembianze ladre
per ch’in eterno fra quest’alme gemo.
Vidi la donna misera che ’l padre
110erasi aggiunta, ma che ’l tristo letto
non fe’ bello di prole e non fu madre.
E cura inquieta mi sentii nel petto
che parea dolce, ma la voglia rea
vanezza e tedio femmi ogni diletto,
115I’ fea contesa e forse ch’i’ vincea,
ma un dí fui sol con quella in muto loco,
e bramava ir lontano e non volea,
e palpitava, e ’l volto era di foco,
e al fine un punto fu che ’l cor non resse,
120tanto ch’i’ dissi: — T’amo — e ’l dir fu roco.
Vergogna allor sul ciglio mi s’impresse,
e la donna arrossar vidi e gir via
senza far motto, come lo sapesse.
Poi nulla i’ fei, ma tanto piú che pria
125divampò ’l foco al soffio di speranza,
ch’arder le vene e i polsi i’ mi sentia.
Allor che tratto di mia queta stanza
fui d’armato drappello in su la sera
con feritá ch’ogni mio dire avanza,
130e dentro muta torre in prigion nera
chiuso che ’ndarno il genitor chiamava,
immobil tra catene come fera.
Stupido e sol rimasi in quella cava
ricercando mia colpa, ed oh dolore
135in ricordarmi di mia voglia prava!
Era giunta la notte a le tard’ore
che tace e per le vie gente non passa,
quando fioco romor sentii di fòre.
(O Italia mia dolente, o patria lassa
140che quant’alta a’ bei giorni tanto cruda
fosti a’ piú neri, e tanto ora se’ bassa,
ben sei di luce muta e d’onor nuda,
che tigre fosti quando era tua possa
e or se’ pietosa ch’uom per te non suda!)
145Orrendo un gel mi sdrucciolò per l’ossa,
e mancar sentii ’l fiato e ’l cor serrarse
quand’a l’uscio udii dar la prima scossa.
Sonâro i ferri al suo dischiavacciarse,
e seguí di persona un calpestio,
150e di lontana fiamma un chiaror parse.
Come chi vide ’l lampo che fuggío,
aspetta lo fragore e sta sospeso
tal senza batter ciglio mi stett’io.
E ’l genitore entrar che tenea steso
155il destro braccio e ne la man mirai
un ferro e ’n la sinistra un torchio acceso. —
— Morta è — disse — tua druda e tu morrai. —
Su le ginocchia i’ caddi in quel momento:
piagneva e volea dir: — Mio padre, errai. —
160Ma la punta a mia gola e’ ficcò drento,
e caddi con la bocca in su rivolta,
e ’l vital foco tutto non fu spento.
Parvemi che l’acciaro un’altra volta
alzasse, e di vibrarlo stesse in forse;
165poscia, com’uom che di lontano ascolta,
l’udii cercar de l’uscio: indi ritorse
il passo, e ’n cor piantommi e lasciò ’l brando,
per che l’ultimo ghiaccio lá mi corse,
e svolazzò lo spirto sospirando. —
CANTO TERZO
I’ lagrimava giá per la pietate
di quella miser’alma che perduta
aveva suo fallo e altrui crudelitate,
e ’l ciglio basso e la bocca era muta,
5quando ’l celeste: — Guata lá quel duce
disse, — c’ha man grifagna ed unghia acuta.
È l’Avarizia, e dietro si conduce
gregge che ’n vita fu de l’oro amico
non perché val tra voi ma perché luce.
10Del nome di que’ duri io non ti dico,
che non sudâr perché ’l sapesse ’l mondo
quando lor tempo avria chiamato antico.
Ve’ c’han sul collo di gran soma pondo
e van carpone e ’l capo in giú pendente,
15sí che lor faccia è presso d’ogn’immondo,
però che prona al suolo ebber la mente,
e di gloria e del ciel non ebber cura,
vivendo in terra come morta gente.
Or vedi quanto è trista e quanto è dura
20vostra vita mortal, che ’l fango e ’l fimo
piú che la gloria e ’l ciel per voi si cura.
Ben sète fatti di terrestre limo,
che tanta gente cerca morta terra,
per lo suo fine e per l’autor suo primo.
25E pur bell’alma vostro corpo serra
perché ricerchi e trovi ’l sommo amore,
che pace è vostro fin, non questa guerra. —
Qui tacque, e venne pallido ’l chiarore,
ch’iva aliando fosca tenebria
30come nottola oscena, in quell’orrore.
Venía gigante altissimo, ’l seguía
lunghissim’ombra piena di spavento,
cieco cosí che brancolando gía.
Correa da prima ratto come vento,
35poi tenne ’l passo per lo buio calle,
sí ch’iva al fine come neve lento.
Gli era infinito esercito a le spalle,
e di voci facea tanto certame
che tutta piena d’eco era la valle.
40Ivan latrando quelle genti grame,
e su lor crespa fronte e su la cava
lor mascella parea seder la fame.
Al lume i’ gli scorgea che s’avventava
da le angeliche forme ai visi smorti,
45e men chiaro e piú fioco ritornava.
— Questi tenner sentieri oscuri e torti
in cercar veritá — lo Spirto disse,
— d’errar volenterosi, o malaccorti.
Vedi colui che cosí presto visse,
50Zoroastro inventor di scienza vana,
e quel che ’nsegnò tanto e nulla scrisse:
i’ dico ’l Samio mastro che l’umana
mente fe’ vil cosí che la ridusse
a starsi con le fère in bosco e ’n tana;
55e quel da Citte che tanta produsse
gente al dolor sí come al piacer dura;
e l’Abderita che la mente strusse;
e la Cinica turba che sicura
da error non fu sotto ’l cencioso panno,
60e ’l lercio duce de la mandra impura.
Ve’ come soli e pensierosi vanno
Socrate e Plato e ’l magno di Stagira,
sdegnando ’l gregge e lo comun tiranno.
Guata lá que’ nefandi pieni d’ira
65contra l’Eterno, sopra la cui testa
solcato da baleni un turbo gira.
E séntigli ulular come foresta
allor che ’nfuria ’l vento, e che rimbomba
per l’aer fosco voce di tempesta. —
70Oh quanta gente è qui che ne la tomba
non è fatta anco polve, oh quanta gente
al disperato lago or tra lei piomba!
Come brulica giú l’onda bollente
per color cui fe’ vano il grande acquisto
75spietato inganno di corrotta mente!
Oh menti sciagurate, oh mondo tristo
cui lo pensier del vero tanto spiace
che par vergogna il ragionar di Cristo!
Giá contra ’l ciel latrava, ed or si tace
80tua gente in guisa d’uom che non si cura,
come a Dio conceduta abbia la pace.
— Vedi — soggiunse, — o figlio, com’è scura
vostra terrena via piena di doglia,
e com’è fral quaggiú vostra natura;
85che tanta gente di seguir s’invoglia
quel gigante colá, ch’è ’l tristo errore,
e tanto ignara il fa contra sua voglia.
Quanti cercâr saggezza e saldo onore
che trovâr fama tetra e falsitate,
90e lor fu vano il trapassar de l’ore!
Oh savissime sole, oh avventurate
l’alme che ricercâr del sommo Bene!
fumo giá non trovâr né vanitate.
Diêr soda meta a lor non dubbia spene,
95bramando uscir di questa terra bassa
u’ torpe error che cosí presto viene. —
Però ’l gigante che tant’ombra lassa
sopra ’l dolente esercito seguace,
venne sí ratto e cosí lento passa.
100Giá la piaggia parea tornare in pace
pel lontanar di quella turba folta
sopra cui ’l lume eternamente tace.
Da lungi la s’udia come talvolta
di nembo cui sul mar lo vento caccia,
105l’urlar tra l’onde e ’l mormorar s’ascolta;
o notturna del mar cupa minaccia
perché ’l villan che presso il turbo crede,
si desta e sorge ed al balcon s’affaccia.
Allor ch’a un tratto, sí come si vede
110campo di secche canne incontr’al sole,
quand’e’ co’ rossi raggi a sera il fiede;
o come andar tra noi di faci suole
notturno stuol, di Cristo appo ’l ferètro,
il dí che di sua morte il ciel si dòle:
115cotal si vide in mezzo a l’aer tetro
un lampeggiar di scudi e lance e spade
che tremolava intorno a fèro spetro.
Sua scossa asta parea grandin che cade
con alto rombo giú da nugol nero,
120su i tetti rimbalzando e per le strade.
Tentennava sua testa atro cimiero,
e pendea ’l brando nudo in rossa lista,
digocciolando sangue in sul sentiero.
Iva ’l membruto mostro e facea trista
125tutta sua via, che dietro si lasciava
foco ch’ardea tra l’erbe in fèra vista.
— Ve’ — l’Angel disse, — la crudel che lava
col sangue i campi, e col brando rovente
fa tante piaghe e tante fosse scava.
130Altro costume de l’umana gente:
cacciar lo ferro gelido e la mano
del prossimo nel corpo e del parente:
correre e disertar lo monte e ’l piano,
e ’n un giorno e ’n un punto l’opra e ’l frutto
135di sudor molto e molta etá far vano:
strugger mura, arder tempi e farsi brutto
di cenere, e vestirsi di terrore,
e ’ngoiar le cittadi come flutto:
guastar campagne e al pavido cultore
140messa la man tra le sudate chiome,
di sua casuccia trascinarlo fòre:
brillar tra morti e ’nsanguinati come
lion che ’n belva marcida si sfama;
rider tra genti lagrimose e dome.
145Dunque far solo il mondo è vostra brama,
e ’l viver vostro è per l’altrui morire,
e sí tra voi si viene in seggio e ’n fama?
Ve’ di quegli aspri le sembianze dire
lo cui passaggio al mondo fu guadagno,
150e ’l natale e la vita fu martire.
Mira colui che nome ebbe di magno,
e fe’ di sangue egizia frode rossa;
e ’l Pelide che piange suo compagno,
e guerra maladice e la sua possa,
155e presso ha ’l re de’ re che ’l teucro lido,
coprí di spoglie sanguinose e d’ossa,
e vincitor perí di ferro infido,
e per guerra perdé la luce e ’l regno;
e quel che ’nvan divenne a tanto grido:
160il macedone i’ dico, c’ha disdegno
però ch’ir vana da la morta valle
di sua man l’opra vide e di suo ’ngegno:
e Ciro e Brenno e Pirro ed Anniballe
che grandi un tempo e fûr meschini allora
165che fortuna lor dato ebbe le spalle;
e come sol per nembo si scolora
vider lor fama intenebrarsi, e poi
venir pallida e muta l’ultim’ora.
Cosí passa fortuna degli eroi,
170e la gran mole in un sol dí fracassa
che tanto pianto fe’ versar tra voi:
com’onda a gli astri sorta che s’abbassa
e cade in un baleno e al pian s’agguaglia,
e di suo levamento orma non lassa. —
175Tacque, e cadeva ’l suon de la battaglia
che giva di colei per lo sentiero
che tutto ’l mondo misero travaglia.
E mostro altro pareva onde piú fèro
non vede orma stampar su neve o sabbia
180lo Scita algente o ’l divampato Nero.
Aveva umane forme e umana labbia,
e passeggiar parean la guancia scura
l’invidia fredda e la rovente rabbia,
e a suo passaggio abbrividir natura,
185seccarsi l’erbe, e tremolar le piante
scrollando i rami come per paura.
Nel buio viso l’occhio fiammeggiante
a carbon tra la cenere, che splenda
solingo in cieca stanza, era sembiante.
190Al crin gli s’attorcea gemmata benda,
e scendea regio manto da le spalle
com’acqua bruna che di rupe scenda.
Sprizzato era di sangue e per lo calle
di sangue un lago fea la sozza vesta,
195che in dubbia e torta striscia iva a la valle.
Seguíalo incerto rombo di tempesta,
ed egl’iva sospeso, e ogni momento
il serto si cercava ne la testa.
Parea pien di sospetto e di spavento,
200guardavasi d’intorno, e tenea ’l passo
al suon de’ rami e al transito del vento.
Ecco ’l gran vermo d’uman sangue grasso,
lo qual però che ’l mondo ha ’n sua balía,
ben si conviene andar col ciglio basso.
205— Ecco ’l figliuol di vostra codardia —
cominciò quegli, — ecco la belva lorda,
ecco la perfid’, ecco Tirannia.
Quella che sempre vora e sempre è ’ngorda,
quella ch’è cieca come marmo al pianto,
210quella ch’è al prego come bronzo sorda.
O mondo gramo, e se’ codardo tanto
ch’uom su tuo’ seggi può seder sicuro
di sangue intriso la corona e ’l manto?
E quando etade ha suo passar maturo,
215passa ’l tirán giá sazio, e allor pur anco
trovar chi ’l biasmi e chi l’accusi è duro?
e di soffrir quest’orsa non se’ stanco
che ti ficca e rificca l’unghia e ’l dente
nel rosso petto e ’n lo squarciato fianco?
220Oh sciagurato mondo, oh etá dolente,
oh progenie d’abisso atri tiranni,
oh infamia eterna de l’umana gente!
Quest’è la bestia che da’ tuoi verd’anni
t’arse di rabbia, e del cui lercio sangue
225tinta bramasti aver la mano e i panni.
Quest’è l’orribil idra, quest’è l’angue
che gonfia sopra ’l mondo alza la cresta,
perché virtude è morta e ’l saper langue.
Vedi come la piaggia si fa mesta
230al passar de la fera, e ve’ ’l pugnale
ch’ha per iscettro, e ’l sangue che calpesta.
Vedi ’l nefando stuol che fu mortale
a lo sgraziato mondo, e da cui ’l mondo
non ebbe che ’l campasse brando o strale.
235Vedi Tiberio lá, vedi l’immondo
gregge di que’ che ne l’etá piú nera
Italia tua gravâr di tanto pondo.
Ve’ ’l furbo piú vicin che spinse a sera
la libertá romana, e n’ebbe fama,
240e ancor d’amici al mondo ha tanta schiera.
Ve’ Periandro lo tristo che brama
tenne d’aver tra’ greci saggi onore,
e sua Corinto misera fe’ grama.
Pur ve’ che di vergogna e di furore
245arse talor la gente, ed avventosse
col ferro nudo del tiranno al core. —
Allora Armodio vidi ch’avea rosse
le man de l’empio sangue, e per man rea
cadde, e per fama a un punto rilevosse.
250E ’l gran corintio vidi che piangea
sul prosteso fratel che venia manco
pel colpo onde suo brando lo spegnea.
E Bruto del tiranno aprir lo fianco,
e del romano imperador primiero
255squarciato ’l petto vidi e ’l volto bianco,
’l tenea ’l guardo fiso ed il pensiero
a quella truce vista, allor che sparse
ogni chiarore, e ’l ciel si fe’ piú nero;
e ’n un momento ’l vidi spalancarse:
260uscinne un tuono, e un fulmine strisciosse
per l’etra, e su la fera cadde e l’arse,
e misto di faville un fumo alzosse.
CANTO QUARTO
Tornò la piaggia queta: allor che sopra
oscuro carro apparse un che si stava
immoto in guisa d’uom cui sonno copra.
Sedeva, e sopra ’l petto gli cascava
5la testa ciondolante, e ’l carro gía
come va carro cui gran pondo grava.
Testuggini ’l traeano, e per la via
moveasi taciturno e cosí lento
che suon di rota o sasso non s’udia.
10— Vedi — ’l Celeste disse — quel c’ha spento
la fama e ’l grido di que’ magni tanti
lo cui rinomo è gito come vento.
Vedi che ’ntorno al carro e dietro o innanti
va quella gente trista lo cui volto
15tutto è ’nvoluto entro suoi lunghi manti.
Questa die’ tempo lungo e sudor molto
per viver dopo ’l passo, e tutto ’l frutto
de l’opra sua quel suo signor gli ha tolto.
Or muto di suo nome è ’l mondo tutto:
20pur die’ la vita perch’eterno fosse,
e ’l mertava quant’altri, e que’ l’ha strutto. —
O sventurata gente, e che ti mosse
a ricercar quel che da obblio si fura,
sí che giace tua fama entro tue fosse?
25Oh vita trista, oh miseranda cura!
Passa la vita e vien la cura manco,
e ’l frutto insiem con lor passa e non dura.
Quando posasti il moribondo fianco,
dicesti: — Assai vivemmo, e non fia mai
30che nostro nome di sonar sia stanco. —
Misera gente, ah non vivesti assai
per trionfar d’obblio che tutto doma:
invan per te vivesti e non vivrai.
Quanto me’ fa colui che non si noma
35al mondo no, ma nomerassi in cielo
quando deposto avrá la mortal soma!
Lui dolcezza sará lo final gelo,
né teme obblio, ch’avrá la terra a sdegno
quando vedrá ’l gran Bello senza velo.
40Or ti rafforza, o mio povero ’ngegno,
e t’aiti colui che tutto move,
ché dir t’è d’uopo di suo santo regno.
Or prendi a far quaggiú l’ultime prove,
ora a mia bocca ispira il canto estremo.
45Cose altissime canto al mondo nòve.
— Ve’ — quel soggiunse, e ’n ripensarvi io tremo,
— che solcando si va questo mar tristo
con iscommessa barca e fragil remo.
Assai travaglio, assai dolore hai visto:
50or leva ’l guardo a le superne cose,
or mira ’l frutto del divino acquisto. —
I’ sollevai le luci paurose
inver’lo cielo, e vidi quel ch’appena
mie voci smorte di ridir son ose.
55Come quando improvviso si serena;
il ciel giá fosco sopra piaggia bella,
e ’l sol ridendo torna e ’l di rimena,
e ’l loco sua letizia rinnovella
mentre in ogn’altra parte è ’l ciel piú nero
60e tutto intorno chiuso da procella:
cosí lassuso in mezzo a l’emispero
fendersi vidi i nugoli e squarciarse,
e disfogando i rai farsi sentiero.
E poi l’aperta vidi dilatarse,
65e crescer lo splendore a poco a poco,
sí che lucido campo in cielo apparse.
Lume di sole a petto a quello è fioco
che rifletteasi ’n terra e ’l suol fea vago
brillando tra le foglie del bel loco,
70qual da limpido ciel su queto lago
cinto di piante in ermo loco il sole
versa sua luce e sua tranquilla imago.
Qui vengon manco al ver le mie parole,
ch’i’ vidi cose in mezzo a quel fulgore,
75cui dir non può la lingua, e ’l pensier vòle.
Vidi distesa piaggia onde ’l colore
e ’l fiorire e ’l gioire a la beltate
m’aprîr la mente e dilatârmi ’l core.
Canti s’udian sí dolci che di state
80men caro è sul meriggio in riva a un fiume
udir gli augelli e l’aure innamorate.
Splendean l’erbette di sí vago lume
che luccicar men vaghi a la mattina
i rugiadosi prati han per costume.
85E la luce era tanta, che la brina
al sol men chiaro splende, e men raggiante
splende al sol bianca neve in piaggia alpina.
Intrecciavansi i raggi tra le piante,
e rifletteansi in onde tanto chiare
90che quel fulgor quaggiú non ha sembiante.
Come se viva lampa a un tratto appare
in tenebrosa stanza, chi v’è drento
forz’è che ’l lume con la man ripare:
sí mi vinser que’ raggi in un momento:
95per che l’umide luci i’ riserrai,
che ’l poter venne manco a l’ardimento.
E l’Angel disse: — Mira! — ed i’ levai
lo sguardo un’altra volta, e vidi quanto
nostra sola virtú non vide mai.
100Alme vestite di lucido manto
ivan per quelle vie del paradiso,
sciolte le labbra al sempiterno canto.
Oh che soavi lumi, oh che bel viso,
oh che dolci atti in quel beato stuolo,
105oh che voci, oh che gioia, oh che sorriso!
Allor mi parve abbandonato e solo
questo misero mondo, e ’l dolor molto
e ’l piacer nullo in questo basso suolo.
Piú ch’astro fiammeggiante era lor volto,
110e ’n guisa d’uom che placido si bea,
e’ ’l tenean fermo e tutto in su rivolto.
S’allegrava ’l terren quando ’l premea
alcun de’ santi co’ l’eterno piede,
e ogn’erba da lor tócca piú lucea.
115 — Mira de’ giusti la beata sede,
mira la patria, mira ’l sommo regno
cui non cura ’l mortal perché nol vede.
Or sí lo tristo suol verratti a sdegno —
disse ’l Celeste, — or sí ti saría duro
120drizzar la mente a men beato segno.
O ’ntelletto mortal, come se’ scuro,
che cerchi morte e duol, per questa terra
che da doglia e da morte fa sicuro!
Vedi color che ’l santo loco serra
125com’or son lieti ne l’eterna pace,
vinta presto quaggiú la mortal guerra.
Mira ’l vate regal che sí ferace
ebbe di canti sua divina cetra,
e tra gli altri lassuso or giá non tace.
130Vedi ’l magno Alighier che sopra l’etra
ricordasi ch’ascese un’altra volta,
e del dir vostro pose la gran pietra.
E vedi quel vicin ch’anco s’ascolta
lagnarsi che la mente al mondo tristo
135ebbe a cosa mortal troppo rivolta.
Mira colui che lagrimar fu visto
tutta sua vita, e or di suo pianto ha ’l frutto,
e cantò l’armi e ’l glorioso acquisto.
Oh dolce pianto, oh fortunato lutto,
140oh vento che ’l nocchier sospinse al porto
u’ nol conturba piú vento né flutto! —
I’ stava in quella vista tutto assorto
quando repente correr come strale
un lampo vidi da l’occaso a l’orto.
145Allor per l’aria tutta batter l’ale
rugghiando i quattro venti, e ’l tuon mugghiare
dal boreal deserto al polo australe,
e sbattersi da lungi e dicrollare
lor cime i monti, e dal profondo seno
150metter continuo cupo ululo il mare,
e l’aria farsi roggia in un baleno
come le nubi a sera in occidente,
e sotto a’ piedi ansando ir lo terreno,
e ’l ruscel che venuto era torrente,
155spumar, fumar con alto gorgoglío
sí come in vaso al foco onda bollente.
Quando con suon vastissimo s’aprío
in mezzo al santo loco il ciel piú addrento,
e allor cademmo al suol l’Angelo ed io.
160E tra sua luce sopra ’l firmamento
apparve Cristo e avea la Madre al fianco,
e tutto tacque e stette in quel momento.
Cosí smarrissi lo ’ntelletto stanco
quando l’Angel mi fe’ levar lo viso,
165che ’n lo membrar la voce e ’l cor vien manco.
Vidi Cristo, e non sono in paradiso?
e Maria vidi, e ’n terra anco mi veggio?
e vidi ’l cielo, e altrui pur lo diviso?
O Cristo, o Madre, o sempiterno seggio
170u’ celeste si fa nostra natura,
che narrar di voi posso e che dir deggio?
— T’allegra omai, che tua stagion matura —
disse lo Spirto, — e sei presso a la sede
ove letizia eternamente dura.
175Cristo e la Madre vede, e sol non vede
tuo mortal guardo quel che veder mai
non può da questo mondo altro che fede.
Quella nube tel cela da’ cui rai
lo fiammeggiar di cento soli è vinto,
180dove pur di mirar forza non hai;
dico la somma Essenza, inver’ cui spinto
è dal cor suo, ma ch’a mirar non basta
uom da suo corpo a questa terra avvinto.
Cónto t’è ’l mondo omai, cónta la vasta
185solitudin terrena ov’uomo ad uomo
ed a se stesso ed a suo ben contrasta.
Vedesti i frutti del piagnevol pomo,
e ’l cercar gioia che ’n dolor si muta,
e le vane speranze e ’l van rinomo:
190come dietro ad error sen va perduta
tanta misera gente, e come tanti
visser per fama di cui fama è muta.
Vedesti i fèri guai, vedesti i pianti
che reca armato chi ragion non prezza,
195e i crudi giochi e i luttuosi vanti.
Che far nel mondo vostro dove spezza
sue leggi e suo dover lo rege ei pure,
e misero diviene in tant’altezza,
se non cercar del cielo, ove sicure
200son l’alme dal furor de la tempesta,
e téma è morta e le roventi cure?
E lo ciel ti si dona. Omai t’appresta,
ché veduto non hai sogni né larve:
certa e verace vision fu questa.
205Presso è ’l dí che morrai. — Qui tutto sparve.
CANTO QUINTO
Dunque morir bisogna, e ancor non vidi
venti volte gravar neve ’l mio tetto,
venti rifar le rondinelle i nidi?
Sento che va languendo entro mio petto
5la vital fiamma, e ’ntorno guardo, e al mondo
sol per me veggo il funeral mio letto;
e sento del pensier l’immenso pondo,
sí che vo, ’l labbro muto e ’l viso smorto,
e quasi mio dolor piú non ascondo.
10Poco andare ha mio corpo ad esser morto.
I’ mi rivolgo indietro e guardo e piagno
in veder che mio giorno fu sí corto;
e ’n mirar questo misero compagno
cui mancò tempo sí ch’appien non crebbe,
15dico: — Misero nacqui, e ben mi lagno.
Trista è la vita, so, morir si debbe;
ma men tristo è ’l morire a cui la vita,
che ben conosce, u’ spesso pianse, increbbe.
I’ piango or primamente in su l’uscita
20di questa mortal piaggia, che mia via
ove l’altrui comincia ivi è finita.
I’ piango adesso, e mai non piansi pria:
sperai ben quel che gioventude spera,
quel desiai che gioventú desia.
25Non vidi come speme cada e pèra,
e ’l desio resti e mai non venga pieno,
cosí che lasso cor giunga la sera.
Seppi, non vidi, e per saper, nel seno
non si stingue la speme e non s’acqueta,
30e ’l desir non si placa e non vien meno. —
Ardea come fiammella chiara e lieta,
mia speme in cor pasciuta dal desio
quando di mio sentier vidi la mèta:
allora un lampo la notte m’aprío,
35e tutto cader vidi; allor piagnendo
ai miei dolci pensieri i’ dissi: — Addio! —
Giá l’avvenir guardava, e sorridendo
dicea: — Lucida fama al mondo dura;
fama quaggiú sol cerco e fama attendo.
40Misero ’ngegno non mi die’ natura.
Anco fanciullo son: mie forze sento:
a volo andrò battendo ala sicura.
Son vate: i’ salgo e ’nver’ lo ciel m’avvento,
ardo, fremo, desio, sento la viva
45fiamma d’Apollo e ’l sopruman talento;
grande fia che mi dica e che mi scriva
Italia e ’l mondo, e non vedrò mia fama
tacer col corpo da la morta riva.
Sento ch’ad alte imprese il cor mi chiama:
50a morir non son nato, eterno sono
ché ’ndarno ’l core eternitá non brama. —
Mentre ’nvan mi lusingo e ’nvan ragiono,
tutto dispare, e mi vien morte innante,
e mi lascia mia speme in abbandono.
55Ahi! mio nome morrá. Sí come infante
che parlato non abbia, i’ vedrò sera,
e mia morte al natal sará sembiante;
sarò com’un de la volgare schiera,
e morrò come mai non fossi nato,
60né saprá ’l mondo che nel mondo io m’era.
Oh durissima legge, oh crudo fato!
qui piango e vegno men, che saprei morte,
obblivion non so vedermi allato.
Viver cercai quaggiú d’etá piú forte,
65e pèro e ’ncontr’a obblio non ho piú scampo,
e cedo, e me trionfa ira di sorte.
Morir quand’anco in terra orma non stampo?
né di me lascerò vestigio al mondo
maggior ch’in acqua soffio, in aria lampo?
70Ché non scesi bambin giú nel profondo?
e a che, se tutto di qua suso ir deggio,
fu lo materno sen di me fecondo?
Eterno Dio, per te son nato, il veggio,
che non è per quaggiú lo spirto mio;
75per te son nato e per l’eterno seggio.
Deh! tu rivolgi lo basso desio
inver’ lo santo regno, inver’ lo porto.
O dolci studi, o care muse, addio.
Addio speranze, addio vago conforto
80del poco viver mio che giá trapassa:
itene ad altri pur com’i’ sia morto;
e tu pur, Gloria, addio, ché giá s’abbassa
mio tenebroso giorno e cade omai,
e mia vita sul mondo ombra non lassa.
85Per te pensoso e muto arsi e sudai,
e te cerca avrei sempre al mondo sola,
pur non t’ebbi quaggiú né t’avrò mai.
Povera cetra mia, giá mi t’invola
la man fredda di morte, e tra le dita
90lo suon mi tronca e ’n bocca la parola.
Presto spira tuo suon, presto mia vita:
teco finito ho questo ultimo canto,
e col mio canto è l’opra tua compíta.
Or, bianco ’l viso e l’occhio pien di pianto,
95a te mi volgo, o Padre, o Re supremo,
o Creatore, o Servatore, o Santo,
tutto son tuo. Sola speranza, io tremo
e sento ’l cor che batte e sento un gelo
quando penso ch’appressa il punto estremo.
100Deh m’aita a por giú lo mortal velo,
e come fia lo spirto uscito fòre,
nol merto no, ma lo raccogli in cielo.
T’amai nel mondo tristo, o sommo Amore,
innanzi a tutto, e fu quando peccai,
105colpa di fral, non di perverso core.
O Vergin Diva, se prosteso mai
caddi in membrarti, a questo mondo basso,
se mai ti dissi Madre e se t’amai,
deh! tu soccorri lo spirito lasso
110quando de l’ore udrá l’ultimo suono,
deh tu m’aita ne l’orrendo passo.
O Padre, o Redentor, se tuo perdono
vestirá l’alma, sí ch’io mora e poi
venga timido spirto anzi a tuo trono;
115e se ’l mondo cangiar co’ premi tuoi
deggio morendo e con tua santa schiera,
giunga ’l sospir di morte, e poi che ’l vuoi,
mi copra un sasso, e mia memoria pèra.