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44 | i - versi |
CANTO TERZO
I’ lagrimava giá per la pietate
di quella miser’alma che perduta
aveva suo fallo e altrui crudelitate,
e ’l ciglio basso e la bocca era muta,
5quando ’l celeste: — Guata lá quel duce
disse, — c’ha man grifagna ed unghia acuta.
È l’Avarizia, e dietro si conduce
gregge che ’n vita fu de l’oro amico
non perché val tra voi ma perché luce.
10Del nome di que’ duri io non ti dico,
che non sudâr perché ’l sapesse ’l mondo
quando lor tempo avria chiamato antico.
Ve’ c’han sul collo di gran soma pondo
e van carpone e ’l capo in giú pendente,
15sí che lor faccia è presso d’ogn’immondo,
però che prona al suolo ebber la mente,
e di gloria e del ciel non ebber cura,
vivendo in terra come morta gente.
Or vedi quanto è trista e quanto è dura
20vostra vita mortal, che ’l fango e ’l fimo
piú che la gloria e ’l ciel per voi si cura.
Ben sète fatti di terrestre limo,
che tanta gente cerca morta terra,
per lo suo fine e per l’autor suo primo.
25E pur bell’alma vostro corpo serra
perché ricerchi e trovi ’l sommo amore,
che pace è vostro fin, non questa guerra. —
Qui tacque, e venne pallido ’l chiarore,
ch’iva aliando fosca tenebria
30come nottola oscena, in quell’orrore.