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58 | i - versi |
CANTO QUINTO
Dunque morir bisogna, e ancor non vidi
venti volte gravar neve ’l mio tetto,
venti rifar le rondinelle i nidi?
Sento che va languendo entro mio petto
5la vital fiamma, e ’ntorno guardo, e al mondo
sol per me veggo il funeral mio letto;
e sento del pensier l’immenso pondo,
sí che vo, ’l labbro muto e ’l viso smorto,
e quasi mio dolor piú non ascondo.
10Poco andare ha mio corpo ad esser morto.
I’ mi rivolgo indietro e guardo e piagno
in veder che mio giorno fu sí corto;
e ’n mirar questo misero compagno
cui mancò tempo sí ch’appien non crebbe,
15dico: — Misero nacqui, e ben mi lagno.
Trista è la vita, so, morir si debbe;
ma men tristo è ’l morire a cui la vita,
che ben conosce, u’ spesso pianse, increbbe.
I’ piango or primamente in su l’uscita
20di questa mortal piaggia, che mia via
ove l’altrui comincia ivi è finita.
I’ piango adesso, e mai non piansi pria:
sperai ben quel che gioventude spera,
quel desiai che gioventú desia.
25Non vidi come speme cada e pèra,
e ’l desio resti e mai non venga pieno,
cosí che lasso cor giunga la sera.
Seppi, non vidi, e per saper, nel seno
non si stingue la speme e non s’acqueta,
30e ’l desir non si placa e non vien meno. —