Sui monti, nel cielo e nel mare/La lotta a Oslavia
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La lotta a Oslavia.
26 gennaio.
Quando tutto è calmo sulla fronte, anche nei periodi di immobilità e di quiete che caratterizzano lo sverno della guerra, rimangono sempre qua e là dei settori, degli angoli, sui quali il silenzio non si compone mai. Vi sono centri di combustione in cui l’ardore persiste e la fiamma si rifugia quando l’incendio si spegne. Come l’incendio, la battaglia sedandosi si restringe intorno a certe speciali posizioni; essa si mantiene accesa in determinate zone, a volta a volta torpida o violenta, crepitante o rombante, ed è da questi punti di perenne incandescenza che l’azione si riallarga e ridivampa nell’ora in cui la lotta torna ad impegnare tutte le forze.
Questi focolari del combattimento sono creati dalla natura del terreno, vengono determinati da un’importanza tattica dei luoghi, corrispondono a posizioni alle quali tutto un sistema di difesa o di offesa si annoda. Sono quasi sempre come degli interstizi nella corazzatura del nemico, nei quali l’arma non cessa di appuntarsi e premere. Perciò sono sempre quelli.
I loro nomi tornano e ritornano sui bollettini, e, ripetuti, hanno finito per assumere una non so quale celebrità truce. Sembrano diventati nomi di protagonisti della guerra, evocano l’immaginazione di una ostilità incessante, e ci viene fatto di figurarci il San Michele, il Podgora, il Sabotino, eretti e vivi avanti a noi come combattenti titanici.
Uno di questi nomi è Oslavia.
Ufficialmente la zona di Oslavia è anche chiamata in un modo più complesso e indeterminato; spesso nei comunicati essa è la regione delle «alture a ovest di Gorizia». Ogni due o tre giorni queste alture fanno parlare di loro. Esse formano come una soglia di Gorizia fra due foschi pilastri: il Sabotino a sinistra e il Podgora a destra. Il combattimento vi si accanisce.
L’azione si ostina e si esaspera in quel varco, tutto vallette, tutto burroncelli, fiancheggiato e dominato dai monti nemici, nel quale la pressione della nostra offensiva inarca la linea varia e mutevole delle nostre trincee. Un fuoco terribile di artiglierie di ogni calibro vi si concentra. Il bombardamento non vi cessa mai interamente. Anche quando l’attacco o il contrattacco non agitano formicolii di uomini nei ripieghi del terreno e le posizioni appaiono solitarie, il cannone non riposa.
Non si può immaginare quale aspetto avessero quei luoghi prima della guerra. Tutto vi è devastato, schiantato, abbattuto, diroccato, sconvolto. Non più case, non più alberi, non più strade; la terra stessa, sventrata, ha assunto profili tempestosi di un colore rossastro di zolla nuda. Il combattimento sospinge e ritrae a volta a volta la linea spezzata delle posizioni, instabile nel fuoco, una linea che con i suoi parapetti informi, con i suoi blindamenti affrettati, con i «cavalli di Frisia» malconci dalle esplosioni e gettati in disordine sul bordo delle trincee, ha da lungi l’apparenza bizzarra di un allineamento disordinato di travi e di cose informi, creato dalla battaglia come quelle bordure di rottami che la burrasca lascia sulla spiaggia al limite dell’onda.
È più difficile tenerle quelle posizioni che prenderle, da una parte e dall’altra. Nessuno dei due avversarii può mai dirsi definitivamente insediato. Oslavia è passata quattro volte da una mano all’altra; talora nel corso di poche ore. Non ha più di tre chilometri di fronte quel campo di battaglia ma sono tre chilometri di inferno sui quali battono artiglierie che sarebbero bastate in altri tempi all’azione di un esercito.
La prima volta che mi sono avvicinato alle posizioni di Oslavia ne ho avuto un’impressione sinistra che non si è cancellata più. Mi è parso di affacciarmi su non so quale favoloso vallone della Morte. Era un’alba di battaglia, un’alba fredda, bieca, truce, fosca, brumosa, nella quale tutto assumeva fisionomie desolate o feroci. Di sereno, di caldo, di luminoso, non v’era che l’anima dei soldati nostri.
Una sterminata processione di uomini sfilava lentamente nell’ombra. Erano le truppe di attacco che si avviavano alle trincee. Sparivano fra le rovine di un villaggio bruciato e diroccato, neri ruderi che avevano forme strane e inattese nel lieve pallore crepuscolare e nella nebbia, e ricomparivano più oltre, sulla strada in discesa, fra profili incerti e fumosi di grandi alberi scheletriti dai quali cadevano, come una ruggine leggera, le ultime foglie ingiallite.
Si udiva lo scalpiccio quieto e vasto dei passi nel fango, e di tanto in tanto un mormorio di conversazioni passava. Degli ordini erano sussurrati: «Silenzio!... In colonna!... Avete tutti i vostri sacchi a terra?». «Signor sì!» — rispondevano delle voci sommesse. Improvvisamente qualcuno ha cominciato a fischiettare una canzonetta. Un ufficiale ha scattato: «Perdio, chi è che fischia? Silenzio, chè ci sentono!». Il fischio è cessato.
Intorno, una quiete profonda. Le posizioni erano invisibili e taciturne. Vi era una calma pesante, lugubre, inverosimile, piena di attesa, piena di angoscia, piena di minaccia, un’atmosfera da agguato. Si intravvedevano oltre la strada, fra indefinite, oscure e nuvolose masse di cespugli, dei cassoni di artiglieria, i cui cavalli attaccati si indovinavano per il tintinnare delle loro testiere pesantemente agitate.
Avanti a dei baraccamenti di cannonieri si sono sentite delle risate represse: i soldati che passavano si indicavano l’uno all’altro una baracchetta addossata ad un rialzo di terreno, sulla quale era scritto: «Grand Hôtel — Cura dei fanghi e ferruginosa». Una testa di shrapnell austriaco attaccata allo stipite della porta simulava il campanello, e un cartello avvertiva: «Un colpo per il portiere». Le diciture burlesche divertivano la truppa che andava, all’attacco.
La strada era spezzata da enormi buche aperte da granate da 305. La pioggia ne aveva fatto dei laghi rotondi e melmosi, e sull’acqua calma, come sopra uno specchio plumbeo e velato, si seguivano le immagini rovesciate dei soldati che passavano in fila indiana sul bordo, un po’ curvi, con un profilo gibboso per il calcio del fucile che sollevava la mantellina sulla spalla. Poco oltre le truppe sparivano.
Si gettavano giù per un pendio e entravano nei camminamenti. Gli uomini sembravano inghiottiti ad uno ad uno dalla terra e dalla nebbia. Scendevano come in una botola immane piena di tenebre. Affondavano subito nel fango molle e viscido, vi si immergevano quasi, scivolavano, cadevano sulle reni, si rialzavano aiutandosi l’uno con l’altro, le mani impastate di argilla. Non parlavano più. Erano già nel raggio d’azione delle mitragliatrici nemiche. Ma il silenzio gravava ancora assoluto sul grigiore torpido della mattina invernale.
Ed ecco che a poco a poco le brume si diradavano, si sollevavano, scoprivano sfondi tetri, valloncelli oscuri che davano un’impressione di freddo, rivelavano fianchi squallidi di alture desolate. Era un succedersi monotono di piccole vette denudate; tutto un paesaggio a onde, triste, gelido, scolorato: un labirinto di costoni e di forre. Si direbbe che, fra il Sabotino e il Podgora, quella singolare apertura di Oslavia sia dovuta a un crollo della cortina dei monti. Vi è infatti come un disordine di caduta, un frastagliamento di dissoluzione.
Sassoso, sterposo, cinereo, imponente, il Sabotino strapiomba a settentrione. Nell’innalzarsi lento della nebbia pareva che sorgesse, la grande montagna fortificata, scoscesa, brulla, violenta, vicina, sempre più alta a misura che le filacciose mollezze dei vapori salivano verso la vetta velata. Le collinette di Oslavia sotto al Sabotino fanno pensare a dei marosi ai piedi di uno scoglio.
Si scorgevano sui declivi della montagna i passaggi coperti del nemico, lunghi camminamenti riparati da muri o da frasche, biancheggianti di pietrame o segnati in nero da sterpaglie secche intrecciate, dietro alle quali gli austriaci si muovono invisibili. Una trincea sterminata, che scendeva dall’alto in basso, dalla cresta alla valle, tagliando il monte con una fenditura profonda, mostrava netti i suoi bordi chiari, cosparsi di detriti dello scavo fresco simili allo smollicamento lasciato da una lama sulla crosta di un pane gigantesco. I reticolati si allargavano a striscie irregolari con un’apparenza di vegetazioni diafane, di straordinarie gramigne azzurrastre, basse e tenaci.
Chi è sul Sabotino guarda a Oslavia come si guarda sulla via da una finestra. Prima della guerra attuale sarebbe sembrata inattuabile, impossibile, assurda, la conquista di posizioni che hanno il nemico di fronte, di fianco e in alto. Ma le vecchie teorie sono rovesciate, le situazioni più inverosimili si affrontano, si assalta l’inaccessibile, si tiene l’intenibile, si resiste nelle circostanze più critiche, si riesce a rimanere aggrampati con le unghie e con i denti su fronti spaventose, allo scoperto o quasi, come gatti sotto la cresta di un muro troppo alto, salvo a scivolare indietro un po’ per scegliere l’istante di un nuovo slancio.
Quella mattina si trattava appunto di un nuovo slancio. Volevamo riprendere Oslavia, conquistata otto giorni prima, e perduta dopo ventiquattro ore di resistenza accanita sotto ad un bombardamento annichilatore.
Le posizioni austriache a sinistra si profilavano sullo sfondo cupo delle falde del Sabotino. Le trincee correvano sinuosamente, sopra confuse e tetre ondulazioni di dorsi, fino ad allacciarsi a destra alle ridotte nemiche fra le boscaglie fulve e bruciacchiate del Grafenberg e del Podgora.
Nessuno sa quali nomi avessero, ad una ad una, quelle piccole vette; le carte non li indicano e chi li conosceva è scomparso. Si combatte in una terra sbattezzata, sulla quale tutto è molto. I soldati distinguono i luoghi con nomignoli di guerra o con cifre di altitudini.
A sinistra è la posizione del «Lenzuolo Bianco», detta così per il candore di una rovina, resto di una fattoria; è un gran muro intonacato e scoronato, che spicca vivamente sulla grigiastra monotonia del suolo come un grande panno di bucato disteso da un lavandaio gigante. La posizione del Lenzuolo Bianco si attacca alla «Quota 188» un’altura tondeggiante sul cui declivio tormentato si sfanno dei ruderi di case che hanno preso il colore del fango. L’altura declina nel «Costone del Bosniaco». Un soldato bosniaco era di vedetta in quel punto, una mattina di novembre, e ad un certo momento fu visto sollevarsi sulla trincea, chi sa perchè. Pareva enorme nella foschìa, colpì le immaginazioni per quelle sue proporzioni da statua. Una palla lo abbattè, e il cadavere è rimasto lungo tempo lì, disteso, supino. Serviva da punto di riferimento, e il flusso e il riflusso degli attacchi portava il calpestìo della moltitudine urlante intorno al suo sonno solenne.
Il costone scende in un’avvallatura: la Sella di Oslavia. Subito dopo un rudere: la «Casa della Botte», che deve il suo nome ad una botte presa fra le rovine per rafforzare la trincea in quel punto. Poi viene la collina di Oslavia. Il villaggio si allineava sopra una piccola cresta, lungo una strada campestre. Le case sono crollate sotto alle esplosioni, e le granate hanno anche scalzato la terra dalle fondamenta, verso di noi; le muraglie che erano affondate nel suolo, le radici degli edifici, si allungano scoperte e oscure, piantate in una convulsione di fanghiglia rossastra, coronate di bianche macerie. E Oslavia distrutta ha assunto così l’apparenza mostruosa di una gigantesca dentatura guasta e scarnita sopra una immane gengiva lacerata.
La linea delle posizioni, dopo Oslavia, penetra in un terreno più selvaggio, tutto boscaglie, tutto ombra, per salire oltre le alture di Peuma, sui fianchi del Podgora, così spesso simile ad un vulcano, tanto è sconvolto e fumigante. Il valore di questa fronte ristretta, bassa e nodata fra le due montagne nemiche come la dura cervice del toro fra le due corna, è nella possibilità che essa offre di dominare Gorizia e le sue comunicazioni. Ma è un varco nel quale è difficile entrare e spaventoso fermarsi. Gli austriaci ne dominano ogni forra, ogni ripiego; possono dirigervi accuratamente il tiro di batterie introvabili, nascoste sul Monte Kuk, verso Plava, sul Monte Santo, sul Sabotino, sul San Gabriele, a Gorizia, battendo le posizioni di Oslavia di fronte, d’infilata, alle spalle anche.
Appena il giorno cominciò a schiarire il cannone si destò. Scendeva una pioggia fine c gelata, e l’ululato dei proiettili pareva un fantastico lamento delle nubi basse. Gli ammassamenti delle nostre riserve erano celati a quando a quando nel fumo. Le difese austriache parevano moltiplicarsi con l’aumentare della luce. Gradatamente nuove e nuove linee escivano dall’ombra, rivelandosi in successione sui declivi. Si poterono contare, in alcuni punti, fino ad otto ranghi di trincee, disposte come i fiiai i di una vigna, alternate ai reticolati. Come sarebbe passato l’assalto?
L’attesa era lunga, opprimente, affannosa; pareva ad ogni minuto si prolungasse, pesante, incalcolabile. Al di là di Oslavia biancheggiava Gorizia, pallida nella pioggia, ma vicina. Si sarebbero potuti numerare gli alberi dei suoi filari, lungo lo stradone del borgo Caririzia, avanti alla stazione ferroviaria. Ad un certo momento si è udito l’urlo lungo e musicale di una sirena di opificio.
Il fuoco aumentava di intensità; nuove batterie entravano continuamente in azione; le granate piombavano a raffiche sulle posizioni, sui rovesci, al di qua, al di là, per tutto. Nembi di schegge, di sassi, di terra, arrivavano frullando dopo ogni schianto vicino. Qualche ferito veniva raccolto sulle retrovie; le prime barelle sbucavano faticosamente dai sentieri coperti.
In un rifugio profondo scavato nella roccia, una specie di catacomba, i telefonisti di un comando, in fila, ognuno davanti al suo apparecchio, gridavano tutti insieme, trasmettendo ordini, rapporti, istruzioni, e in un pandemonio di voci le conversazioni s’intrecciavano, si sovrapponevano, in una confusione folle, mentre alle spalle dei telefonisti era un passare febbrile di aiutanti e di piantoni che porgevano o prendevano carte, e tutto questo in una tenebra da miniera diradata appena da una luce vacillante di candele, attaccate con qualche goccia di cera alle sporgenze della roccia. Quando scoppiava qualche granata vicina, la catacomba sobbalzava; delle pietre cadevano con tonfi sordi dalla vôlta puntellata, e subito dopo passava un soffio possente, lo spostamento d’aria dell’esplosione, che spegneva tutte le candele. Il gridìo delle trasmissioni continuava nel buio.
Gli scoppi pareva venissero su dalla terra, come brevi eruzioni. Un grosso proiettile si annunziò col suo muggito sonoro, cupo e intermittente. «Eccolo, eccolo!» — esclamò qualcuno. Chi udì il rombo si curvò ed attese. Uno schianto enorme e profondo, una pioggia di terriccio, di fanghiglia, di sassi copre tutti, uno svolgersi lento di fumo giallo e denso invade ogni cosa. Poco dopo delle voci concitate gridano confusamente. «Cos’è successo? Chi è colpito? Dove? L’osservatorio? Oh!»
Lì, a qualche passo di distanza un osservatorio blindato di artiglieria è scomparso. Al suo posto vi è un cratere. Il terreno ha cambiato aspetto. Un soldato, ferito da una scheggia, si avvicina a quella buca sinistra, si curva sul suo bordo, e pieno di una speranza disperata chiama a nome gli ufficiali che erano là. Dalla sua fronte cola il sangue nella cavità funerea. Intorno, sulla terra sconvolta sono sparse delle cose irriconoscibili che fumano nell’aria gelida.
«Via, via! Svelti, portate i megafoni per le trasmissioni a voce!» Le osservazioni affidate ad altri ufficiali sono ricominciate, le segnalazioni alle batterie hanno ripreso. L’interesse supremo della battaglia ha riafferrato tutti, subito. Lo scoppio della granata è stato dimenticato come un fatto svanito nel passato. Nessuno vi ha pensato più quando si è udito il grido: Salgono! Salgono!
L’assalto saliva.
Coperti di melma, scivolando ad ogni passo, con i fucili infangati il cui otturatore non si chiudeva più che a colpi di paletta sulla leva, i soldati a sciami si inerpicavano fra i reticolati cercando i varchi. Era un brulichìo grigio dal quale sprizzavano lividi bagliori di lame, e l’urlo dell’assalto si spandeva lontano come il mugolìo della bufera nei boschi. Attaccavano su tutta la linea, avanzavano a sbalzi, avevano lunghi minuti di immobilità. Fermandosi, la loro linea si faceva più densa, diventava come una siepe sottile e granulata, si confondeva alle ombre dei ripieghi del suolo, prendeva la forma delle arginature e dei ciglioni nei quali cercava protezione. Avanti a lei delle folte nubi bianche indicavano lo scoppio degli esplosivi c delle bombe incendiarie destinate a bruciare le armature dei «cavalli di Frisia».
Erano quegli stessi soldati che alla mattina sfilavano uno per uno avanti al buffonesco «Grand Hotel» dei baraccamenti. Pareva di conoscerli tutti per aver marciato un po’ con loro e averli sentiti ridere. La visione di quell’assalto era una cosa sublime e atroce; si sentiva profondamente, con dolore e con fervore, con un orgoglio pieno di passione, con una fierezza appenata, che era nostra carne fraterna che avanzava laggiù, ascendendo come in una truce apoteosi.
Il fuoco scrosciava assordante, e il martellamento delle mitragliatrici, serrato, regolare e meccanico, pareva più terribile della fucileria per quello che aveva di sistematico, di disciplinato, di impersonale, di fatale. Scoppii di granate e di bombe oscuravano tutto col loro fumo nerastro, e di quando in quando sui nembi, prese dal vortice, volavano delle mantelline aperte clic ricadevano lente con un aleggiare da grandi uccelli. Sotto, nell’ombra di queste nubi, l’assalto oscillava in un rimescolìo confuso, pareva farsi indeciso. «Dio mio, torna indietro!» — si udiva mormorare. No, andava avanti, riprendeva. Saliva da trincea a trincea come se i ranghi delle difese fossero i gradini di una scala da giganti.
«Sono arrivati!... No!... Sì, eccoli, i primi spariscono nelle macerie! È vero! Eccoli, eccoli sulla vetta!» Un generale, intorno al quale s’incrociavano queste esclamazioni commosse, si volse grave, girò intorno uno sguardo raccolto come volesse parlare. Ma fu dopo lunghi istanti di silenzio che trovò le parole.
Indicando con la mano tesa le posizioni prese, con voce mutata disse: «Quei soldati.... Bisognerebbe baciare dove posano il piede!» Così fu ripresa Oslavia. Ma non potevamo illuderci che fosse la fine. In questi giorni la lotta si è riaccesa più violenta che mai.
Tutto quello che è avvenuto ora a Oslavia, la successione tempestosa di attacchi e contrattacchi che ha fatto per cinque volte oscillare avanti e indietro la linea delle posizioni sopra una fronte di un chilometro e mezzo, non ha che un valore di episodio. È stata un’azione di battaglioni la quale non poteva avere, qualunque fosse stato il suo esito, una influenza apprezzabile nel complesso delle operazioni.
Oslavia è — lo abbiamo già detto — una soglia fra i due pilastri del Sabotino e de Podgora, e non ha che la importanza di un passaggio. È una posizione di transito non un posizione di appoggio, di comando, di solidità. Essa apre una strada al dominio di Gorizia, ma il dominio è al di là. Per essere utilizzata Oslavia deve essere varcata. Non permettendoci le circostanze di inoltrarci, poco importa che le trincee in quel punto siano trecento metri più avanti o trecento metri più indietro.
Per sè stessa Oslavia non controlla alcun settore, non si impone da nessuna parte, non ha forza propria; è una strana bassura ondula e varia, un labirinto di collinette, di costoni, di burroncelli, di greti, di vallette, sul quale tutti e due gli avversarii possono battere con piena efficacia. La facilità relativa con cui Oslavia è presa e ripresa, dice la difficoltà di tenerla. Nessuna occupazione può mettervi solide radici.
Ma se l’azione di Oslavia non è che un episodio nel quadro della guerra, essa ha un interesse profondo per i suoi caratteri, per sua intensità, per l’esempio singolare che offre dei sistemi odierni di combattimento, per l’eroismo di cui era tutta vampante, per la sua feroce bellezza.
Oslavia aveva per noi il difetto di tante posizioni prese d’impeto, in avanzata. Non possedeva immediatamente alle spalle tutto quel solido appoggio di fortificazioni campali, di rifugi, di passaggi protetti, di cunicoli, di trincee, di tane, che le truppe sono costrette a creare quando conquistano con sforzo lento e costante, scavando e minando.
Dove l’offensiva è più difficile, più lunga, più cauta, più faticosa, come sul Podgora, si debbono compire lavori immensi di attacco, che dànno resistenza alla fronte perchè servono anche alla difesa. Le retrovie sono meglio garantite, le comunicazioni più sicure, il sapiente alveare di profonde scavazioni che si distende sui rovesci diventa un serbatoio di riserve pronte; l’arrivo immediato di rincalzi è facile e relativamente protetto. Il nemico che occupasse di sorpresa un tratto della prima linea, avrebbe subito il passo sbarrato da un dedalo di opere; non potrebbe sfondare facilmente, si troverebbe rinserrato come in un sistema di paratie stagne, preso in un intreccio misterioso di passaggi nei quali l’assalto si disgregherebbe per finire senza forza, incanalato in una rete di trincee, ad urtare contro sbarramenti minuscoli e insuperabili.
Ma quando una posizione non è stata raggiunta con i tenaci sistemi dell’assedio, quando l’azione l’ha conquistata solo con brevi soste, alla buona vecchia maniera, non rimangono sul territorio d’avanzata tracce profonde dell’attacco; il terreno impreparato è più o meno scoperto ed esposto, i camminamenti sono pochi e superficiali, i rifugi insufficienti Quei lavori che si è costretti a fare quando l’offensiva lo impone, non sempre conviene compierli poi per la difensiva, considerando che essi richiedono uno sperpero enorme di energia, di tempo e di materiale in luoghi che si spera di abbandonare per una nuova avanzata. Allora la prima linea rimane relativamente isolata, sottile, fragile.
A Oslavia sarebbe stato anche difficile intraprendere grandi lavori di consolidamento a causa della natura stessa del suolo, molle, friabile, che scivola, che s’impasta, che si sfalda. È un suolo argilloso che la pioggia scava, trascina e scioglie in melma. Le pareti delle trincee profonde crollano, i camminamenti si colmano; bisognerebbe ricorrere a rivestimenti di fascine e legname, che il bombardamento facilmente sconvolge e incendia. La costruzione di trincee di cemento, le sole che si adattino al terreno, non è possibile nella vicinanza immediata del nemico, a cinquanta o sessanta metri dalle mitragliatrici. Per la stessa ragione invece dei reticolati, che non possono venire solidamente piantati, si adoperano come difesa ausiliaria i «cavalli di Frisia», dei grovigli di filo di ferro spinato intorno ad armature di legno, che si costruiscono lontano, che si trasportano di notte per gettarli e ancorarli al di là delle trincee, e che perciò debbono essere forzatamente leggeri.
Per arrivare alle alture di Oslavia noi dobbiamo scendere in un terreno che il nemico domina quasi interamente, giù per gli ultimi declivi orientali di San Floriano e di Pri Fabrisu, in fondo ad una valletta, e poi risalire. Tutto questo terreno non offre che un troppo incerto riparo alle truppe di riserva, che non potevano essere tenute alla mano nella immediata vicinanza delle posizioni per venirvi scagliate al momento opportuno. Tre, quattro ore di difficile marcia le separavano dall’azione. Dopo lunghi bombardamenti micidiali e sconvolgitori, al sopraggiungere di assalti improvvisi e serrati, è difficile che qualche elemento di trincea, privo di soccorsi, non esaurisca in alcune ore la sua forza di resistenza. In queste condizioni, all’arrivo dei rincalzi non è più questione di difesa ma di offensiva: bisogna riprendere quello che si è perduto.
Perciò la caratteristica delle recenti azioni di Oslavia è stata il contrattacco. Ci siamo difesi riconquistando. Rispondevamo agli assalti assalendo. Il nemico non arrivava ad insediarsi sulla posizione, che ne era scacciato.
Fu il 12 di gennaio che si cominciò a presentire l’offensiva austriaca. Quel giorno, il fuoco di artiglieria che batteva Oslavia si fece più intenso. L’indomani il bombardamento aumentò ancora. Il 14 anche i grossi calibri del nemico entrarono in azione. Dei 280, dei 210, persino dei 305, tempestavano i trinceramenti e le retrovie, fulminavano gli approcci, cercavano le nostre batterie e le nostre batterie e le nostre riserve nella distanza. Tiravano sulle macerie di Pri Fabrisu sulle rovine di San Floriano, sui ruderi di Quisca, frugavano gli avanzi dei villaggi demoliti, mentre le artiglierie nostre rispondevano con tiri d'interdizione e la valle di Oslavia si costellava di eruzioni e di nembi, che spandevano il loro fumo filaccioso e greve in lunghe striature grigiastre.
Nel pomeriggio il cannoneggiamento si fece serrato, continuo, era udito da tutta la piana friulana, il suo boato arrivava a Udine, come un brontolio di temporale sull'orizzonte sereno.
Le nostre trincee, talvolta percosse in pieno, crollavano qua e là, i soldati rannicchiati nel fondo ricevevano le frane pesante dei parapetti sui loro dorsi curvi e si trovavano spesso chiusi e premuti in una tenebra improvvisa, soffocante e fredda, interamente sepolti nel molle terriccio greve dal quale essi emergevano faticosamente, come formiche dalla sabbia del formicaio calpestato, per rimettersi subito al lavoro di rafforzamento, febbrili, muti, le vesti, il volto e le mani incrostati di mota, simili a statue di creta statue di creta con degli occhi viventi.
Dei blindaggi colpiti saltavano in aria in una vampa, e travi e tavole volavano alte nel fumo, roteando. I «cavalli di Frisia», divelti dai loro ancoraggi, erano rovesciati; gettati via, dispersi dagli scoppi, e sui bordi delle trincee passavano raffiche clamorose di schegge, di pietre, di detriti, di rottami, di pallottole, di fili di ferro strappati alle difese e staffilanti l’aria con sonora veemenza. Si videro, poco a tergo delle posizioni, dei tronchi d’albero enormi, sfrondati e cincischiati dal fuoco dei combattimenti passati ma rimasti fino allora saldi come colonne, schiantarsi e sparire lanciati lontano nel barbaglìo di un baleno.
Entro le trincee passavano soffi possenti e caldi, buffate di un ardente uragano, travolgenti e brevi: l’alitare impetuoso delle esplosioni vicine. Non si ascoltava più l’ululato delle granate in arrivo, quella gran voce sovrumana che avverte; troppo vasto era il coro prodigioso dei proiettili che solcavano il cielo, e gli scoppi stordivano come percosse.
Il rancio caldo non poteva essere portato lungo i camminamenti battuti, e la truppa mangiava i viveri di riserva, quando si ricordava di mangiare. Le perdite indebolivano certi reparti più esposti, battuti d’infilata; qualche plotone non aveva più comando. Da quell’inferno arrivavano fonogrammi pieni di calma e di fiducia.
L’eroismo della fanteria nella guerra moderna è quasi sempre una virtù di sopportazione, la forza di una immobilità; si combatte giacendo senza difesa in una bufera di morte. Il nemico non si vede, il pericolo non si para, e il valore di una difesa è in una tenacia passiva, nell’inerzia di una attesa indefinita entro un’atmosfera di massacro. L’unico nemico col quale si lotti in quelle ore eterne è il proprio istinto; bisogna inchiodarsi con la volontà sulla posizione insanguinata. Nulla può soccorrere, l’arrivo di rinforzi nelle trincee tempestate non diminuirebbe il pericolo e aumenterebbe le perdite. Il rinforzo si risolverebbe in un indebolimento. È necessario che gli effettivi in prima linea siano minimi e siano saldi.
Vi è un solo momento in cui la loro presenza in trincea è indispensabile, il momento nel quale il cannone tace e la fanteria avanza. Per aspettare questo momento risolutivo dell’urto, debbono sottomettersi in silenzio per giorni e giorni alla folgorazione delle artiglierie, essere delle cose, essere come delle zolle viventi della terra flagellata. Quando il terreno lo permette, i difensori si ritraggono dalla linea battuta e si tengono al coperto aspettando l’assalto e, appena l’artiglieria tace, si ributtano avanti, ripopolano la posizione abbandonata, e sulle trincee demolite fermano l’avanzata nemica. A Oslavia i rovesci non offrivano rifugio.
Solo la magnifica resistenza del soldato italiano al bombardamento rende possibili certe situazioni. Non so quali truppe più delle nostre posseggano questo spirito di sacrificio, di abnegazione, di rassegnazione, di disciplina, e tanto coraggio di fronte all’ineluttabile.
Verso la sera del 14 il bombardamento austriaco cessò. La notte discese chiara, fredda e calma; sorse la luna, e nel suo azzurro chiarore i soldati lavorarono a rafforzare le trincee devastate. La tregua fu breve. Alle otto il cannoneggiamento ricominciò, più serrato, furibondo, con una violenza definitiva. La vallata, con le sue gibbosità, con i suoi costoni brulli, con le sue tetre ondulazioni, s’illuminava tutta, sinistra e imponente, in un palpitare di lampeggiamenti, in un balenìo violastro e fumigante, piena del tremolìo di fantastiche luci. Poi, improvvisamente, silenzio.
Erano le nove e mezza. Trascorsero alcuni minuti, lenti, grevi di attesa, e la fucileria scrosciò.
La linea delle posizioni si disegnò a poco a poco con uno scintillìo fitto di colpi. Segnali luminosi sprizzavano dalle nostre trincee, lanciando in aria vivide fiammelle azzurre e rosse, e i razzi illuminanti del nemico salivano lenti e dritti nel cielo sereno, con la loro lieve coda sottile di faville, per accendere in alto delle candide abbaglianti meteore, che spandevano per lunghi secondi sulla terra la calma luminosità di un crepuscolo e lasciavano, estinguendosi, un punto di bragia oscillante fra le stelle. Pareva che frugassero per tutto, quelle luci sorprendenti, sotto alle quali ogni cosa proiettava un’ombra lunga, netta e instabile.
Si distinguevano sul fragore uniforme dei fucili e delle mitragliatrici i boati delle granate a mano, la cui vampa dava diafanità sanguigne a dense nuvole di fumo. Di tanto in tanto saliva confusamente da laggiù il grido dell’assalto e della mischia. Lontano, nello sfondo vaporoso e oscuro del paesaggio notturno, Gorizia distendeva il punteggiamento dei suoi lumi, una tranquilla costellazione di fanali accesi e di finestre illuminate.
Per due ore continuò il bombardamento, con brevi periodi di languore. Verso mezzanotte la battaglia sembrava cessata. Vi furono venti o trenta minuti di calma. Poi il fuoco riprese. Ebbe un’altra ora di parossismo e si quietò lentamente. Si era intuito seguendo lo strepito, uno spostamento successivo dell’attacco. Il centro di intensità della lotta era passato da destra a sinistra. Ma i telefoni erano interrotti e mancavano notizie immediate e precise. Del resto, nella notte i combattenti stessi non conoscevano quello che avveniva ai loro fianchi. Gli ultimi fonogrammi, annunziato l’attacco, dicevano: «resistiamo». Ma i messaggi erano giunti dai settori meno premuti dal nemico. L’azione, in quella prima fase, era affidata alla iniziativa dei comandanti locali.
Nel buio dovevano essere avvenuti frammischiamenti inevitabili, perdite di contatto, e sospensione della lotta indicava un disorientamento che paralizzava tutti e due gli avversari. Intanto le artiglierie del nemico e le nostre riprendevano il fuoco, non più sulle posizioni, perchè era difficile sapere chi le tenesse, ma al di qua e al di là, con tiri d’interdizione, facendo sbarramenti e cercando di mettere dalle due parti un ostacolo al movimento delle riserve.
La battaglia doveva decidersi il giorno dopo.
Ecco cosa era successo nella notte del 14 gennaio.
La posizione principale di Oslavia è formata da due collinette, una più alta a sinistra, — la Quota 188 — una più bassa e oblunga a destra — la collina di Oslavia. Fra le due, un lieve avvallamento per il quale s’inoltra la strada che scende a Gorizia — la così detta Sella di Oslavia. Gli austriaci, preparato l’attacco con tre giorni di bombardamento, hanno lanciato sette od otto battaglioni all’assalto, dirigendo lo sforzo maggiore verso la Sella. Quattro battaglioni erano formati di truppe fresche, portate da oltre Lubiana. A loro era affidato il compito più grave: lo sfondamento. Erano arrivate alla mattina stessa per ferrovia a Gorizia, dove avevano trovato pronto per loro il bagno e il rancio, e nel pomeriggio si erano messe in marcia per la fronte. Gli altri battaglioni appartenevano alle truppe del settore.
Gli austriaci si avvicinarono in silenzio, preceduti da lanciatori di granate. Arrivarono all’improvviso. A dieci passi dai parapetti si vide ad un tratto l’agitazione delle loro ombre nel chiarore lunare. Non vi erano più «cavalli d Frisia», la strada era stata aperta dalle cannonate. Essi balzarono su urlando e lanciando bombe. La fucileria che scrosciò subito era la nostra.
Un particolare curioso non vogliamo dimenticare: non ha importanza ma caratterizza il nemico. Durante la prima sosta delle artiglierie sull’imbrunire, un ufficiale austriaco avanzò verso le nostre trincee della Sella gridando: «Italiani, non sparate, è stato concluso un armistizio!» Probabilmente egli voleva soltanto constatare se la Sella era ancora occupata e riconoscere i passaggi e portava avanti la menzogna come uno scudo. Più tardi si udirono delle acclamazioni nelle posizioni nemiche e delle voci gridavano in italiano: «È stata fatta la pace!» Pronunciavano paaze. Un prigioniero ha dichiarato poi che si trattava della paaze col Montenegro.
Il primo urto avvenne a destra, dove la collina di Oslavia declina nella confluenza di due valloncelli. Qui l’assalto fu fermato. Sulla vetta della collina di Oslavia invece la linea della difesa dovette arretrare. Discese di un centinaio di metri per non essere spezzata. Non vi erano più trincee lassù, il bombardamento aveva tutto sconvolto, l’assalto non trovo ostacoli e il fuoco della resistenza, valorosa ma esangue, non poteva lungamente fermarlo. Ma sopassati i ruderi del villaggio, che sono sulla vetta, gli austriaci non osarono proseguire l’avanzata. I nostri chiamarono allora i rinforzi più vicini per procedere al contrattacco. Due compagnie, che costituivano la prima riserva, accorsero, e sfilavano correndo giù per i camminamenti angusti quando, scoperte forse dai razzi illuminanti, furono prese d’infilata dall’artiglieria nemica. Avanti a tutti, alla testa della nera colonna, il comandante cadde per il primo, morto, e la truppa fu costretta a fermarsi, aspettando l’alba.
A sinistra delle rovine di Oslavia, verso la Sella, dove l’assalto si scagliò più pesante, ammassato, impetuoso, l’ondata austriaca trovò una connessura e filtrò, non si sa ancora come. La battaglia aveva fatto dei vuoti. I difensori della Sella si accorsero ad un tratto di essere aggirati sulla destra. Sentirono il fuoco nemico avvilupparli, tagliarli fuori. La loro resistenza si prolungò fino alle undici e mezza; furono due lunghe ore di lotta furibonda, ostinata, con corpi a corpi che empivano la notte di clamori. Poi la Sella fu perduta.
Il colonnello che comandava il settore della Quota 188, un eroico ufficiale che è morto il giorno dopo fulminato da una palla in fronte mentre comandava un assalto, fece abilmente spostare due compagnie per creare un argine alla sua destra minacciata Gli austriaci, fermati così nella loro manovra di aggiramento, tentarono di aver ragione della Quota 188 con un nuovo attacco frontale.
Fu questo il combattimento di cui si udì il frastuono a mezzanotte, quando tutto pareva finito. L’attacco arrivò alle trincee; in due punti anche vi penetrò. Ma il nemico fu ricacciato a baionettate, subito dopo. I combattimenti erano durati quattro ore. In quel periodo di stanchezza e di stupore che segue la battaglia nessuno sapeva ancora in modo definitivo i risultati della lotta.
La notte era freddissima; sul terreno che gelava e s’induriva, incipriato di brina, risuonava il passo delle nostre truppe di rincalzo che sfilavano per le retrovie, rischiarate dalla luna al tramonto. Lungo i trinceramenti le pattuglie in esplorazione strisciavano cautamente per ristabilire i contatti, riconoscendo spesso il nemico dal mormorio delle sue voci barbare, dalla intonazione tedesca o slovena di parole ascoltate a qualche passo di distanza.
Per rafforzarsi gli austriaci scavavano trincee, al di qua delle quali trasportavano e gettavano gli avanzi dei nostri «cavalli di Frisia». Si udiva il battere delle zappe sui sassi delle macerie di Oslavia. Ogni tanto lo scoppio di qualche granata italiana faceva far silenzio, come un comando. All’alba, il tiro delle nostre artiglierie ha cominciato a battere con intensità crescente i due brevi settori occupati dal nemico. La nostra offensiva s’iniziava. Eravamo noi ora a martellare una difesa.
Il cannoneggiamento è divenuto intenso e generale verso le otto, favorito dalla limpidezza di una mattinata di una serenità cristallina. Le nostre batterie cancellavano ogni traccia dei lavori notturni, sovvolgevano e squarciavano ancora una volta la tragica altura di Oslavia e la Sella. Gli austriaci erano scomparsi dietro le rovine del villaggio. La loro artiglieria rispondeva imperversando sui nostri rovesci, sui camminamenti, sulle retrovie, cercando di sbarrare il passo all’attacco che si andava preparando.
In queste strane battaglie di posizione l’artiglieria, accumulata nei centri di azione, assume il predominio; è lei che realmente attacca, difende, conquista, respinge, schiaccia. Lo scontro delle fanterie, il combattimento umano, quello che una volta costituiva la vera battaglia, si fa sempre più raro e breve. Gli uomini si slanciano per occupare materialmente quello che spesso gli esplosivi hanno già virtualmente preso. Avanti alle truppe tuona una avanguardia di granate, che non si vince che sopportandola. La grande, la terribile difficoltà che i nostri battaglioni dovettero affrontare per rirendere Oslavia non fu la difesa degli austriaci trincerati: fu la traversata delle zone battute dall’artiglieria nemica. Era la marcia mortale e non l’assalto.
La natura tatticamente sfavorevole del terreno ci obbligava a muoverci in piena vista di tutti gli osservatorii nemici. Dal Sabotino scorgevano tutte le nostre colonne sfilare per i camminamenti e guidavano su di loro le raffiche delle batterie. La guerra in queste condizioni è una prova di impassibilità, un esperimento di resistenza morale: due fanterie avversarie, discoste, che non si vedono fra di loro, sono sottoposte alla fulminazione; quella che non resiste ha perduto. Nel bombardamento i nostri marciavano; gli austriaci abbandonavano Oslavia.
Tutta la mattinata e parte del pomeriggio continuò la bufera delle cannonate. Alle tre il nostro fuoco di artiglieria allungò il tiro oltre le posizioni; passò l’ordine di avanzata. Le truppe si slanciarono all’assalto, a sciami, balzando fra le asperità della collina di Oslavia, scomparendo, ricomparendo più su, gettandosi nelle vecchie trincee servite ai primi attacchi o nelle cavità aperte dalle granate quando sentivano ululare a stormi i grossi proiettili nemici, andando avanti subito dopo gli scoppi, e tutto il costone pareva pagliettato dal balenìo delle baionette. Gli austriaci facevano un gran consumo dei loro nuovi shrapnells-granata, che esplodono due volte, in aria e a terra. Ma la fanteria austriaca era scomparsa.
Sulla vetta non erano rimasti che pochi uomini tagliati fuori dal nostro fuoco d’interdizione. Un plotone austriaco, asserragliato nelle rovine di due case, fu sloggiato con la baionetta. A sinistra della collina, una compagnia italiana sorpassò audacemente le posizioni per inseguire un manipolo austriaco che fuggiva verso la formidabile altura di Peuma. I fuggiaschi imboccarono un camminamento, e i nostri dietro, urlando, le baionette basse. La fuga portò lo scompiglio in una trincea avanzata austriaca, che si vuotò. I nostri la occuparono, vi si asserragliarono, lavorarono a rovesciarne i parapetti, la tennero.
Era sull’imbrunire. Quella trincea è stata difesa dai nostri tutta la notte. Ma non fu possibile potere stabilire comunicazioni con essa e inviarvi rinforzi, e l’abbandono si impose. L’artiglieria austriaca aveva chiuso la strada con un fuoco furioso che diceva la concitazione e l’allarme.
Al tramonto del giorno 15 noi avevamo dunque ripreso Oslavia e ci eravamo incuneati a sinistra nelle forti posizioni nemiche di Peuma, ma al centro la Sella era rimasta austriaca.
Un primo tentativo per riconquistarla era fallito. Fu precisamente all’assalto della Sella che cadde l’eroico colonnello alla cui pronta manovra si doveva la difesa della Quota 188. Per cooperare ad un nuovo sforzo fu fatto avvicinare un reparto di bersaglieri. Venne scorto dal nemico, cannoneggiato, decimato, fermato in fondo al vallone dove si accovacciò e passò la notte.
La Sella di Oslavia, per la sua conformazione, permetteva agli austriaci un concentramento di fuoco di mitragliatrici. A tutti gli attacchi, quel punto aveva sempre opposto la più tenace resistenza. E questa avvallatura, così forte quando è difesa da levante, rappresenta invece un punto vulnerabile quando è difesa da ponente.
Alla sera del giorno 15 la situazione era delle più singolari. Noi ci trovavamo fianco a fianco con gli austriaci, sulla medesima fronte. Avevamo un nucleo nemico nelle nostre stesse trincee.
L’attacco frontale non essendo stato sufficente, si accentuò la pressione laterale. Le due estremità della nostra linea tagliata cominciarono a tendere una verso l’altra, rinforzate, ingrossate, come due parentesi che si avvicinino, mentre sulla fronte l’assalto progrediva, più cauto e più lento.
Questa fu l’azione del giorno 16, un’azione di piccoli gruppi, tutto un combattimento di infiltrazione, di sgretolamento. Erano tre minuscole fronti che si andavano accostando. Nelle prime ore del pomeriggio la riconquista era completa.
Per la terza volta riprendevamo possesso delle posizioni di Oslavia. Ma la calma non seguì, quella calma relativa dei periodi di sosta. Un lento bombardamento continuò notte e giorno, a intervalli. Gli austriaci volevano impedire i lavori di rafforzamento. Battevano anche lontano, a caso, cercando di ostacolare i trasporti del materiale, i movimenti di truppe, indovinando l’affaccendamento notturno di soldati curvi sotto a pesanti «cavalli di Frisia» portati a spalla da cantieri remoti. Arrivavano ai villaggi ancora abitati, le grosse granate massacratrici di inermi.
A San Martino di Quisca, di fronte al fosco Sabotino, gli abitanti gremivano perennemente la piccola chiesa, in vetta al paesello montano, e una preghiera fervente di donne genuflesse si spandeva dalla porta spalancata mentre le mura del tempio tremavano ai boati, e fra le vecchie case, per le viuzze anguste e scoscese, salivano gruppi di contadini esterrefatti, smorti, silenziosi, portando a braccia i loro feriti esangui. Il paesello era bombardato, come un fortezza.
Il giorno 24 si presentì un nuovo attacco. Dalle prime ore il cannoneggiamento divenne più violento, più serrato, più terribile di quello che non fosse mai stato. Il nemico aveva aumentato il numero delle sue batterie. I colpi da 305 pareva volessero demolire le colline.
Il tempo era radioso, e dal terreno secco le esplosioni sollevavano immani cumuli di polvere rossiccia che si adagiavano nella calma, frammisti al fumo. Dalle rovine di San Floriano, battute anche loro, le posizioni di Oslavia erano in certi momenti invisibili; allo spostarsi lento delle nubi esse riapparivano oscure, smorte, come spente nell’ombra densa dei nubi. Per i combattenti, laggiù, il sereno era scomparso; essi vedevano in un cielo grigio il sole velato come nelle giornate di ghibli sulla costa africana.
Verso le cinque si è levato un vento leggero e freddo, ed è scesa la nebbia, per tutto. Era una di quelle nebbie invernali, fitte e improvvise che isolano, chiudono, mettono una parete plumbea avanti agli sguardi, disorientano. Il bombardamento continuava nel caos dei vapori. La nebbia anticipava la notte, scolorava tutto in un funereo lividore crepuscolare. Alle cinque e mezza il tiro dell’artiglieria austriaca si allungò e subito dopo l’assalto nemico arrivò, senza gridi, rapido, inavvertito.
Gli austriaci stessi, lanciati ciecamente nella nebbia, non sapevano forse quando avrebbero incontrato la nostra difesa. S’iniziò la lotta a corpo a corpo senza transazioni. In un minuto fu la mischia su tutte le trincee. Non ci si vedeva a due passi, e l’azione si snodava in infiniti episodi. Fu un frammischiamento fantastico nell’ombra, entro le trincee, nei camminamenti. Era difficile distinguere gli amici dai nemici. «Parla!» — gridavano i nostri soldati prima di sferrare il colpo. Sulla Sella un capitano dei bersaglieri prese per il petto un uomo che gli pareva dei suoi e che si ritirasse: «Vergogna, torna indietro subito!» gli gridò. L’uomo alzò le mani: era un austriaco. Nessuno può fare la storia di quell’ora di tumulto.
Non bisogna immaginare la fronte di Oslavia come percorsa da una linea continua di trincee. Il terreno spezzato in un’infinità di valloncelli e di greti, cosparso di macerie, sconvolto dalle artiglierie, ci aveva costretti a sezionare la difesa in numerosi elementi di trincea, disposti per ogni verso, nei quali il combattimento s’intrecciava. Si comprese subito però che questa volta il nemico, arrivato con forze maggiori, aveva rinnovato la tattica del giorno 14, ma portando l’attacco più violento e deciso sopra un punto diverso.
La nostra azione ha avuto per scopo il rinsaldamento della nostra fronte. È stata un’azione lenta, sistematica, costante, riuscita, ma che non possiamo considerare ancora interamente finita.
Il bombardamento è continuato furibondo il giorno 25, poi è andato rallentando ma non ha avuto più soste. E qualche volta ha tormentato posizioni dall’apparenza deserte. Perchè in questa guerra di trincee nulla può far distinguere una posizione abbandonata da una posizione difesa, finché non si va a vedere.
Fino al momento in cui le fanterie avanzano, spesso non è possibile sapere se vi è della vita dietro l’ostile profilo dei luoghi contro i quali si combatte. Gli uomini debbono confondersi nella immobilità delle cose, debbono subire le vicissitudini del suolo, debbono arrivare alla impassibilità della terra alla quale si immedesimano, essere come delle pietre poste a segnare i limiti estremi di un dominio.