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valli attaccati si indovinavano per il tintinnare delle loro testiere pesantemente agitate.

Avanti a dei baraccamenti di cannonieri si sono sentite delle risate represse: i soldati che passavano si indicavano l’uno all’altro una baracchetta addossata ad un rialzo di terreno, sulla quale era scritto: «Grand Hôtel — Cura dei fanghi e ferruginosa». Una testa di shrapnell austriaco attaccata allo stipite della porta simulava il campanello, e un cartello avvertiva: «Un colpo per il portiere». Le diciture burlesche divertivano la truppa che andava, all’attacco.

La strada era spezzata da enormi buche aperte da granate da 305. La pioggia ne aveva fatto dei laghi rotondi e melmosi, e sull’acqua calma, come sopra uno specchio plumbeo e velato, si seguivano le immagini rovesciate dei soldati che passavano in fila indiana sul bordo, un po’ curvi, con un profilo gibboso per il calcio del fucile che sollevava la mantellina sulla spalla. Poco oltre le truppe sparivano.

Si gettavano giù per un pendio e entravano nei camminamenti. Gli uomini sembravano inghiottiti ad uno ad uno dalla terra e dalla nebbia. Scendevano come in una botola immane piena di tenebre. Affondavano subito nel fango molle e viscido, vi si immergevano quasi, scivolavano, cadevano sulle reni, si rialzavano aiutandosi l’uno con l’altro, le mani impastate di argilla. Non parlavano più. Erano già nel