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le retrovie, fulminavano gli approcci, cercavano le nostre batterie e le nostre batterie e le nostre riserve nella distanza. Tiravano sulle macerie di Pri Fabrisu sulle rovine di San Floriano, sui ruderi di Quisca, frugavano gli avanzi dei villaggi demoliti, mentre le artiglierie nostre rispondevano con tiri d'interdizione e la valle di Oslavia si costellava di eruzioni e di nembi, che spandevano il loro fumo filaccioso e greve in lunghe striature grigiastre.

Nel pomeriggio il cannoneggiamento si fece serrato, continuo, era udito da tutta la piana friulana, il suo boato arrivava a Udine, come un brontolio di temporale sull'orizzonte sereno.

Le nostre trincee, talvolta percosse in pieno, crollavano qua e là, i soldati rannicchiati nel fondo ricevevano le frane pesante dei parapetti sui loro dorsi curvi e si trovavano spesso chiusi e premuti in una tenebra improvvisa, soffocante e fredda, interamente sepolti nel molle terriccio greve dal quale essi emergevano faticosamente, come formiche dalla sabbia del formicaio calpestato, per rimettersi subito al lavoro di rafforzamento, febbrili, muti, le vesti, il volto e le mani incrostati di mota, simili a statue di creta statue di creta con degli occhi viventi.

Dei blindaggi colpiti saltavano in aria in una vampa, e travi e tavole volavano alte nel fumo, roteando. I «cavalli di Frisia», divelti dai loro ancoraggi, erano rovesciati; gettati via, dispersi dagli scoppi, e sui bordi delle trincee