Storia di Milano/Capitolo XX
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Breve ritorno del duca Sforza, fatto prigioniere; e governo del re di Francia Lodovico XII, fino alla lega di Cambrai
(1500) Poichè il re Lodovico XII ebbe abbandonato Milano per ritornarsene nel suo regno, una porzione dell’armata francese s’incamminò verso della Romagna per togliere Imola e le altre città promesse al duca di Valentinois, dalle mani del conte Girolamo della Rovere. Il duca di Valentinois era figlio di Alessandro VI, il conte Girolamo era figlio di Sisto IV. È facile l’immaginarsi quai dovessero essere i costumi di que’ tempi, se tali esempi diedero anche i poscia graduati al sommo sacerdozio. Doveva quindi quel corpo di Francesi innoltrarsi ad occupare il regno di Napoli. Divenne così meno imponente nella Lombardia la nuova forza conquistatrice. Il governatore maresciallo Trivulzio stabilì la sua residenza nella corte vicino al Duomo, avendovi una guardia di trecento Tedeschi. Malgrado la severità della disciplina usata dal Trivulzio, siccome accennai, non era possibile il prevenire ogni disordine. Un Francese pose violentemente le mani sopra di una contadina che portava il pane a cuocere al pubblico forno in Lardirago, terra lontana da Pavia cinque miglia. La contadina si difese robustamente. Il Francese non volea desistere. Accorse il di lei padre con un bastone. Il Francese lo stese morto. Varii contadini si scagliarono sull’uccisore, che dovette soccombere. Un corpo di Francesi postato nel contorno sopravenne; saccheggiò la terra, bruciò le case, impiccò varii. In Milano pure si cominciarono a vedere delle tumultuarie adunanze di malcontenti. La plebe in Porta Ticinese si attruppò e gettò a terra i banchi ai quali si riscuotevano le gabelle. Il governatore Trivulzio vi si recò; e dopo di avere inutilmente procurato che badassero alle di lui parole, diè mano alla spada, e, secondato da’ suoi domestici, uccise alcuni e molti altri rimasero assai mal conci. L’affare non terminava così, se messer Francesco Bernardino Visconte, signore sommamente autorevole, non vi accorreva. Si abolirono alcune gabelle, venne sedato quel disordine; ma non perciò rimase quieta la città. Frate Girolamo Landriano, generale degli Umiliati, messer Leonardo Visconte, e messer Alessandro Crivello, proposto di San Pietro all’Olmo, animavano la plebe contro del nuovo governatore Trivulzio. Lodovico il Moro accostatosi a Como, col favore dei cittadini v’era rientrato, ed eransi espulsi i Francesi. Ivi s’andavano radunando Tedeschi e Svizzeri allo stipendio sforzesco. Il giorno 27 di gennaio 1500 si cominciò a conoscere nella città una inquietudine che minacciava la sedizione. Il Trivulzio pose dell’artiglieria sulla torre che allora sosteneva le campane del Duomo, e si premunì in corte; ma trovandosi ivi mal collocato, e nel centro di una città mal contenta, pensò di ricoverarsi nel castello. Il popolo violentemente se gli oppose; giacchè temevasi che, giuntovi, non adoperasse quell’artiglieria sulla città. Il Trivulzio parlò al popolo, lagnandosi di non essere profeta nella sua patria. Mostrò essere pazzia l’ostinarsi a voler essere piuttosto sudditi di un picciolo principe, ramingo, bisognoso, e che smunga i popoli colle gabelle, anzi che ubbidire ad un monarca generoso, potente, ricco... Le grida insultanti del popolo non gli permisero di continuare il discorso, e non senza pericolo; sicchè appena gli riuscì di ricoverarsi nuovamente in corte. Poco dopo, il popolo pose le barricate alle imboccature delle strade, e tutte le finestre ebbero provvisione di sassi ed altre materie, per offendere i Francesi. Fra le lettere di Girolamo Morone una ve n’è del 4 marzo 1500, in cui, descrivendo a Girolamo Varadeo quest’incontro, dice del Trivulzio: che in tantam prorupit iracundiam, ut prudentiam omnem abjecisse videretur... seroque cognovit humanitatem et mansuetudinem, saeviente populo, magis quam vim et arrogantiam proficere. Vi fu chi rimproverogli di aver tre facce, come ne portava lo stemma; fugli rinfacciato di essere egli ribelle al suo sovrano, subdolo, traditor della patria, e dovette soffrire tutto ciò da una moltitudine di seimila persone armate, il che si scorge nella citata lettera. A tale stato si ridussero gli affari de’ Francesi poco dopo partito il re.
Frattanto Lodovico il Moro (che in Inspruck era stato accolto umanamente e con sensibilità dall’imperator Massimiliano) non aveva omessa cosa alcuna affine di accelerare il suo ritorno nella patria. Vero è che nell’avversa fortuna quel principe non seppe mostrare quel vigor d’animo e quella serenità di mente, che solo possono farci reggere fra le sventure e superarle. Egli da Inspruck spedì Ambrogio Bugiardo per Bari, e Martino Casale per Pesaro, colle istruzioni a ciascuno di portarsi a Costantinopoli. Questa commissione fu data a due, e per vie separate, acciocchè uno almeno potesse eseguirla. Voleva che a di lui nome animassero il Turco a passare nell’Italia ed aiutarlo a ricuperare Genova, promettendo di unirglisi per far la guerra ai Veneziani. Parrebbe incredibile questo partito, se il Corio non ci avesse stampate le istruzioni dalle quali furono accompagnati que’ due ministri. Ma la protezione dell’imperatore procurò allo Sforza soccorsi più reali e solleciti; essendosi per ordine suo radunato un valente corpo di Svizzeri e di Tedeschi. Questi l’aspettavano ne’ confini; e trovandosi, siccome accennai, diminuite le forze dei Francesi, pel corpo di milizia spedito all’impresa d’Imola sotto il comando dell’Allegre, riuscì facil cosa al duca di nuovamente presentarsi; e le inquietudini del popolo ne furono opportuna occasione. Messer Sanseverino comandava quattromila fanti svizzeri. All’accostarsi di questi, il Trivulzio abbandonò Milano. Il giorno 4 di febbraio 1500 il duca Lodovico rientrò in Milano per Porta Nuova, cinque mesi e due giorni dopo che l’ebbe abbandonata. Tutti i corpi politici gli andarono incontro. Mentre il duca Lodovico passava verso la Scala, dove oggidì è il teatro, venne avvisato che i Francesi, padroni del castello, facevano una sortita; il che alquanto lo sconcertò. Nulladimeno vi si pose ordine, ed egli proseguì l’intrapreso cammino al Duomo, d’onde passò ad alloggiare nella corte, su cui l’artiglieria del castello, sebbene operasse, non potè far danno, per esserne premuniti i tetti. Un giorno solo rimase Lodovico in Milano: egli passò a Pavia, lasciando al governo di Milano il cardinale Ascanio suo fratello.
Gli Sforzeschi saccheggiarono le case del castellano traditore Bernardino Corte e de’ Trivulzi. Messer Erasmo Trivulzio si avventurò di presentarsi al duca, chiedendogli perdono. Il duca, innasprito dalle vicende, lo condannò ad esser chiuso nel forno di Monza, cioè nel carcere orrendo fabbricato e sofferto da Galeazzo I. Ma il cardinale Ascanio, più saggio, persuase al duca di non usare la vendetta. Il tempo era quello più che mai di acquistarsi gli animi colla benignità e col perdono.
Dee cagionar maraviglia il vedere come senza spargersi quasi sangue umano, ritornassero gli Sforzeschi ad impadronirsi di Milano, e ne scacciassero i Francesi. Vero è, com’è notato più sopra, che l’armata francese erasi indebolita per la spedizione dell’Allegre; vero pure è che sedicimila Svizzeri e mille corazzieri tedeschi s’erano uniti allo stipendio del duca Lodovico; che non mancava il duca nè d’artiglieria nè di corrispondenti munizioni: ma pure potevasi disporre colle truppe francesi un campo e disputare almeno l’ingresso nel Milanese allo Sforza. Ciò non si fece per le rivalità consuete fra i primi generali e ministri. Gian Giacomo Trivulzio era, come si è detto, luogotenente del re e governatore. Ma i primari Francesi, mal sofferendolo, attraversavanlo in ogni cosa. Il conte di Lignì, uomo di somma autorità nella guerra, disponeva le cose per modo, che appena lasciava al Trivulzio il titolo di governatore. Il vescovo di Luçon, gran cancelliere e presidente del senato, bramava non meno dell’altro la rovina del Trivulzio. Si voleva che gli affari andassero male a segno, che il re fosse costretto di togliere al Trivulzio la dignità. Di ciò scrive minutamente Girolamo Morone a Girolamo Varadeo, in data del 31 dicembre 1499. Questo illustre nostro cittadino Morone in seguito ebbe molta parte negli avvenimenti pubblici del Milanese e dell’Italia, come vedremo. Fu veramente uomo grande, di un giudizio esatto, di penetrante ingegno, e tale che in ogni secolo, e presso qualunque nazione avrebbe potuto primeggiare; il che non si può dire di molti. Lodovico XII nel nuovo piano politico aveva creato un avvocato fiscale, il quale per ufficio avesse cura e tutela delle ragioni del principe, sì per gl’interessi camerali, che per la giurisdizione rispetto a’ feudi, alla corte di Roma e ad ogni altra competenza. Questo avvocato del principe aveva la facoltà d’intervenire a qualunque adunanza, in cui potesse avere interesse la giurisdizione sovrana; nè potevasi dai tribunali determinare, se prima su tai punti non avesse esposte le sue ragioni l’avvocato del re. A questa carica volle Lodovico XII promovere un nobile milanese, che ne avesse il talento; e scelse il giovane Girolamo Morone, mosso dalla buona fama che correva di lui, senza ch’ei lo sognasse nemmeno. Tant’egli era alieno dal pensarlo, che vennegli l’annunzio per parte del re, mentre egli, ritirato in una villa, stavasene lontano dalla tumultuosa rivoluzione che cagionava nella città la venuta de’ Francesi. Morone nelle sue lettere descrive il fatto. Egli eseguì assai bene il proprio ufficio finchè dominarono i Francesi. Partiti questi, egli rimase in Milano senza inquietudine, perchè senza colpa. Il duca Lodovico lo chiamò, e lo accolse con somma cortesia. Gli propose di volerlo spedire a Roma ed a Napoli per ricercare soccorsi contro de’ Francesi; e lo avvisò di prepararsi ad eseguire questa commissione. Il Morone ringraziò il duca dell’onore che voleva fargli; ma considerandosi ancora assai giovine ed imperito per affari di Stato, supplicò per essere dispensato da una commissione che difficilmente sarebbe riuscita con buon servizio del duca e con onore di lui. Il duca Lodovico graziosamente replicò che il senno del Morone era virile se l’età era fresca, e che sperava sarebbe ottimamente riuscito. Il Morone soggiunse al duca che nè il papa nè il re di Napoli si sarebbero fidati di lui, attesochè dai Francesi era stato beneficato, e che questo solo bastava a renderlo un negoziatore infelice. Nemmeno a ciò s’arrese il duca, replicando che la confidenza ch’egli mostrava di avere in esso lui, avrebbe convinti e il papa e il re per modo che avrebbero liberamente trattato seco. Vedendo il Morone deluso ogni sotterfugio, con sommessione dichiarò ch’egli avrebbe data la vita pel servizio del suo natural principe; ma che egli sentiva una ripugnanza invincibile a far cosa alcuna in danno de’ Francesi, dai quali era stato favorito. Lodovico lodò la virtù del Morone, lo congedò, ma si conobbe che non ne rimase contento: profecto rationis efficacia victus, manum dedit; attamen, dum me dimisit, eum mihi subiratum dignovi, quoniam, ut scis, principes quod volunt, nimium velle solent, et ut plurimum quod juvat magis, quam quod decet, cogitant. Le lettere del nostro Morone si trovano nella biblioteca del fu conte di Firmian, e meriterebbero di veder la luce, poichè sono l’opera di un uomo di Stato, che ebbe fra le mani i principali affari d’Italia de’ tempi suoi; e conseguentemente servono di molto aiuto per la storia.
Lodovico il Moro stette per due settimane a Pavia per ivi radunare le sue soldatesche, le quali s’andavano ogni dì aumentando, mercè gli Svizzeri e Tedeschi che scendevano dalle Alpi e si ponevano allo stipendio di lui. Milano frattanto era inquietata dalle scorrerie che tentavano i Francesi acquartierati nel castello, malgrado la custodia del cardinale Ascanio; volavano di tempo in tempo le palle sulla città: avvenimento che cinquant’anni prima avea preveduto il buon Giorgio Piatto. Il duca, avendo più di sedicimila Svizzeri, mille corazzieri tedeschi e molta cavalleria italiana, forz’era che tentasse qualche azione. Egli mancava di denaro, nè poteva lungamente mantenere al suo stipendio quest’armata. I Francesi dell’Allegre da Imola ritornarono per unirsi ai compagni. Dalla Francia era spedito nuovo rinforzo sotto il comando del duca della Tremouille; non v’era speranza pel Moro, se non nella rapidità di approfittare dell’occasione favorevole. Dispose adunque d’impadronirsi di Vigevano, e da Pavia partitosi ai 20 di febbraio 1500, il giorno 25 se ne rese padrone. Per animare i suoi egli aveva loro promesso il saccheggio di quella città, e gli Svizzeri avevano raddoppiati con tal mercede i loro sforzi. Ma il duca amava quel luogo, e non ebbe cuore di vedere eseguita la rovina di que’ cittadini. Fece distribuire a ciascun soldato un ducato d’oro, di che rimasero tutti assai malcontenti. Poi Lodovico Sforza co’ suoi si inoltrò verso Mortara, otto miglia distante da Vigevano, e collocò le tende in faccia del Trivulzio. I Francesi erano alquanto sbigottiti dai prosperi eventi dello Sforza; gli Sforzeschi per questi medesimi erano animosi. Francesco Sanseverino, uomo che avea un nome nella milizia, animava il duca a cogliere l’occasione e venire tosto a giornata, prima che un nuovo corpo di Svizzeri e il duca de la Tremouille rendessero formidabile il nemico; ma il duca, sempre incerto e mancante di energia, rispondeva esser meglio il vincere temporeggiando, che tentare l’incerta fortuna di una battaglia; la qual massima non poteva essere più fuori di luogo che in bocca d’un principe gli Stati di cui sieno occupati da un nemico potente, e che non avea per liberarsene altro mezzo che una momentanea armata, senza un erario con cui tenerla quanto occorresse allo stipendio; giacchè il cardinale Ascanio, per raccogliere danaro, era ridotto a far coniare moneta cogli argenti delle chiese di Chiaravalle, del Duomo, di Sant’Eustorgio, di San Francesco e di San Marco. Ma il duca Lodovico non aveva ereditati i talenti militari del duca Francesco suo padre. Egli era un principe colto bensì, ma non un eroe; principe di vaste idee anzi che di grandi e solide, snervato dall’avversa fortuna, privato della duchessa, abbandonato a consigli vacillanti. Avrebbe dovuto cimentarsi coll’armata francese; ma invece levò le tende e trasportò il suo campo sotto Novara, che era in poter de’ Francesi sotto il comando del conte di Musocco, figlio del maresciallo Trivulzio. Il duca promise il sacco di Novara; il che era in quei’ tempi un diritto militare, allorchè per assalto e senza capitolazione veniva presa una città. Alcuni cittadini novaresi segretamente intrapresero a concertare col Moro per introdurlo nella città. Novara era assai ben munita, nè facil cosa era l’impadronirsene. La prima condizione che i cittadini vollero, fu quella di aver salve le cose loro. Il duca, contentissimo per sì inaspettato mezzo, che spianava ogni ostacolo, a tal condizione aderì, e così entrarono gli Sforzeschi in Novara; sicchè a stento potè appena per la porta opposta correre a salvamento quel presidio. Ciò accadde il giorno 20 di marzo 1500. I soldati si posero a saccheggiare a norma della parola datane loro dal duca; ma egli nuovamente lo proibì; il che sempre più alienò da lui l’animo di quell’armata, composta di soldati che non aveano legame veruno col duca; gente collettizia, radunata allora allora per la speranza di far bottino, e che vedevasi delusa e quasi schernita dal duca, malgrado la sua parola, e malgrado anche i loro diritti militari.
Mentre Lodovico Sforza stavasene co’ suoi entro Novara, il di cui castello tuttavia era in mano dei Francesi, il ministro del re di Francia alla dieta del corpo elvetico, Antonio Brissey, maneggiava il colpo decisivo, per cui il suo re, senza contrasto, rimanesse duca di Milano. Gli scrittori sinora hanno rappresentata la prigionia del Moro come un tradimento degli Svizzeri; ed hanno offeso con ciò, non solamente il carattere de’ fedeli ed onorati Elvezii, ma la verità e il buon senso, che non permetterebbe mai di credere che sedicimila uomini si unissero per tradire chi li paga. Le lettere del Morone ci svelano come seguisse il fatto. Poichè fu Lodovico in Novara, i Francesi s’accrebbero; e molta gente venne dalla Svizzera sotto le loro bandiere. S’avvide allora il duca del male che avea fatto non ascoltando i consigli del Sanseverino; e, come dice il Morone: se ipsum arguere, propriamque vecordiam accusare non cessabat, nec quid consilii caperet satis intelligebat. Galeazzo Visconti era il ministro del duca alla dieta elvetica, ed ivi non cessava di animare quella sovranità a cogliere l’onorevole occasione di dar la pace alla Lombardia. Solo che la dieta lo volesse, doveano cessare al momento le ostilità; giacchè le forze principali dei due eserciti consistevano negli Svizzeri, che avevano bensì la libertà di vendere i loro militari servigi alla potenza che più era in grado a ciascuno; ma conservavano sempre il carattere di sudditi della dieta, alla quale non avrebbero potuto mancare, se non sacrificando l’onore, la patria, i parenti e i loro poderi. Bastava un ordine supremo agli Svizzeri dei due eserciti, per cui si vietasse loro di combattere, che la sospensione d’armi era al momento fatta. Bastava spedire abili negoziatori che, a nome della sovranità elvetica frapponendosi, conciliassero la pace; e per necessità doveano l’una e l’altra parte piegarsi e ricevere in certo modo la legge. Il progetto era nobile, umano e grande. Fu aggradito. Si spedirono gli ordini sovrani per due corrieri alle due armate. Si trascelsero dodici deputati, i quali venissero a dar la pace. Assicurato di ciò il duca, si collocò in Novara. Ma il destrissimo Antonio Brissey corruppe il corriere che portava il decreto all’armata francese, per modo ch’ei s’appiattò in un villaggio per più giorni, mentre l’altro corriere spedito al Moro diligentemente accelerava il suo cammino. Così doveva accadere che gli Svizzeri sforzeschi ricevessero il comando di non combattere, ed i Francesi non lo ricevessero. Di ciò venne sollecitamente avvisato il Trivulzio. Qualche notizia ne ebbe anche il Moro, leggendosi nella cronaca del Grumello: Essendo una sera Ludovico Sforcia in camera sua, in Novara, poco prima di essere preso, giocando a scacho con Franchasso Sanseverino; et essendo in epsa camera Almodoro, suo favorito astrologo, et Jo. Stephano Grimello co’ suoi fratelli, gionse una spia a lui, quale li parlò in le orecchie uno poco di tempo, che niuno intendere poteva. Giochando epso Ludovico Sforcia alzando gli occhi a lo Almodoro astrologo, disse queste parole: - Almodoro, Johane Jacobo Trivulcio ha dicto che, avanti passino giorni quindici, sero prigione del Gallico Re; che dicesi da voi? Dette risposta Almodoro che il Trivulcio non diceva vero, perche non si ritrovava alcuno pianeto per il qual si potesse coniecturar tal cosa che sua Signoria havesse ad esser prigione, anzi victoriosissimo. Giunse agli Svizzeri sforzeschi il divieto sovrano che proibiva loro di battersi. L’armata francese, il giorno 4 di aprile, si pose in marcia e si collocò un miglio distante da Novara, in modo da impedire al duca ogni soccorso di viveri. I Francesi gli presentarono la battaglia; e il duca non sapeva comprendere come ciò fosse, poichè, dal decreto recato agli Svizzeri suoi, vedevasi che un consimile ordine contemporaneamente si spediva agli Svizzeri nemici. Tentò varie strade per far notificare agli Svizzeri della Francia l’ordine dei loro sovrani, ma la vigilanza de’ Francesi lo impedì. Non aveva provvisione di viveri in Novara; e forz’era sloggiare i Francesi, per non perirvi di fame. Invano il duca chiese agli Svizzeri il loro aiuto, che nol potevano prestare senza fellonia. Essi soltanto si offersero a schierarsi bensì in ordine di battaglia, acciocch’egli co’ Tedeschi e cogl’Italiani che aveva staccato, si potesse, volendo, aprirsi vigorosamente una strada e ricoverarsi in Milano, dove il cardinale Ascanio teneva cinto il castello con diecimila uomini, ed erano vicini nuovi soccorsi dell’imperatore. I Tedeschi e gl’Italiani, che il Moro seco aveva in Novara, erano ottomila uomini, picciolo corpo bensì a fronte dell’armata francese, ma bastante per una impetuosa incursione che lo ponesse in salvamento. Così venne stabilito. Ma usciti appena gli Svizzeri da Novara e trovatisi a fronte dei nemici, nemmeno sostennero quell’apparenza; ed improvvisamente piegando le loro bandiere e riponendole nel sacco, abbandonarono il posto; il che pose in tal disordine gli ottomila Tedeschi e Italiani, che, sorpresi, volsero le spalle, e, disordinatamente fuggendo, si ricovrarono di bel nuovo entro le mura di Novara, dove fu costretto di ricoverarsi frettolosamente il duca. Mancavano i viveri pel giorno seguente. La notte si trattò fra il Ligny e il duca, e si concertò una capitolazione. Il giorno vegnente, cioè il memorando giorno 10 aprile 1500, il Trivulzio la disdisse e dichiarò nulla, pretendendo che mancasse nel generale francese la facoltà di concertarla. Un onorato capitano albanese, che trovavasi nell’armata del duca, lo consigliò di montare sul di lui cavallo barbero, di prodigiosa fortezza e velocità, sul quale sicuramente si sarebbe portato a Milano; ma il duca, timido, avvilito, non seppe risolversi. Si rivolse invece a pregar gli Svizzeri che lo vestissero come uno de’ loro fantaccini, acciocchè sconosciuto, potesse evitare la prigionia. Capitolarono gli Svizzeri sforzeschi co’ nemici, ed ottennero di liberamente tornarsene al loro paese. Mentre uscivano da Novara gli Svizzeri, e con essi il duca travestito, un araldo a nome del duca uscì da Novara, e si portò dal generale Ligny per confermare la capitolazione. Sperava il Moro con tale astuzia di occupare frattanto i generali francesi e distorgli dal sospettare la fuga di lui. Lodovico, attorniato da sedicimila Svizzeri, era già fuori della città, e consolavasi credendosi in salvo, senza avere con veruna capitolazione abdicate le sue ragioni. Il cardinale di Rohan comandò all’armata francese di porsi in ordine di battaglia, acciocchè gli Svizzeri dovessero sfilate due a due attraverso. V’è chi crede che lo stesso comandante svizzero sforzesco avesse tradito il duca, avvisandone il cardinale. La faccia dei sovrani è nota, e corre sulle loro monete. Il Moro venne scoperto, tanto più facilmente, quanto che egli per la statura eccedeva la comune, e pel fosco colore del volto ebbe per sopranome il Moro. Nella lettera il Morone dice: infelix Ludovicus, qui non oris, non majestatis quam in vultu semper habuit, non proceritatis habitum mutare potuerat, licet vestes commutasset, agnitus apprehensusque fuit. Quel drappello di cavalleria sforzesca che trovavasi in Novara, còlto il momento in cui i Francesi ebbero preso il duca, facta statim eruptione si salvò, attraversando l’armata francese; il che mostra qual fosse il partito che avrebbe dovuto prendere il duca.
Appena fu il duca nelle mani de’ Francesi, che, in quel medesimo umiliante arnese da fantaccino svizzero, fu condotto alla presenza del comandante Gian Giacomo Trivulzio. Pareva che la presenza di quel principe, già suo sovrano, ora suo prigioniero, dovesse eccitare nell’animo del Trivulzio, non già la collera, ma la compassione. La perduta sovranità, e l’abbiezione presente, la prigionia dovevano eccitare in un cuor generoso la brama di alleggerire i mali del suo avverso destino, non di aggravarli. Convien dire che non fosse mosso da questi principii l’animo del maresciallo Trivulzio, poichè duramente allora gli rinfacciò il bando che gli aveva dato. Passò il duca in custodia del duca de la Tremouille, il quale, rispettando la sventura di lui, lo providde di abiti e di quanto conveniva alla di lui condizione. Il giorno 17 d’aprile, che fu venerdì santo, partì da Novara per la Francia, abbandonando per sempre l’Italia. Il duca de la Tremouille con trecento cavalli lo scortava. Passando per Asti, lo sventurato Lodovico dovette ascoltare mille ingiurie dal popolaccio affollato, che gli avrebbe fatto insulti anche maggiori, se la nobile generosità francese non l’avesse impedito. Arrossiva il disgraziato principe, cadevangli amare ed inutili lagrime, scoppiavagli il cuore, onde a Susa cadde in tal languore, che convenne sospendere per qualche giorno il cammino, che poi ripigliossi. Onde, passate le Alpi e condotto in Francia, fu dapprima collocato nella torre dei Gigli di San Giorgio nel Berry. Ivi potè corrompere poi i custodi, e, nascosto sotto il fieno d’un carro, uscì dalla ròcca: ma, al suo solito, mancando pure di ardimento in quella occasione, si smarrì ne’ boschi vicini, e fu nuovamente raggiunto. Quindi, in più stretta custodia collocato nel castello di Loches, finì i suoi giorni nel 1508, ai 27 di maggio, nell’anno cinquantesimosettimo di sua vita. Principe a cui furono rimproverate le morti del duca Giovanni Galeazzo, e dell’onorato e venerando Cicho Simonetta; ma che nel rimanente fu un sovrano sincero, generoso, liberale, amico del merito, conoscitore dei talenti, promotore della coltura in ogni genere, tenero marito, padre affettuoso, principe capace di amicizia e di benevolenza, e tale insomma che probabilmente venne spinto dal predominio altrui a macchiarsi contro sua voglia. Come politico poi, o come militare, convien confessare ch’ei mancava intieramente di talento, e che non mostrò nemmeno di avere condotta alcuna. Fluttuante, incerto, pare che i soli casi momentanei determinassero le sue azioni, senza avere un costante principio; il che rese gli ultimi fatti suoi meschini agli occhi di ognuno. Così terminò lo splendore della casa Sforza, che durò cinquant’anni e non più; giacchè, come vedremo, assai breve e povera comparsa fecero dappoi i due figli di Lodovico, Massimiliano e Francesco, ch’ei lasciò ricoverati nella Germania presso dell’imperatore. Il cardinale Ascanio fu preso e condotto parimenti nella Francia. Gli stipendiati sforzeschi che rimanevano in Milano, si sbandarono. Sulla prigionia del duca Lodovico si coniò la medaglia in cui, al rovescio della testa del maresciallo Trivulzi, leggesi: Expugnata Alexandria, delecto exercitu, Ludovicum Sfortiam ducem expellit, reversum apud Novariam sternit, capit. Il maresciallo Trivulzio aveva, siccome vedemmo, molti nemici. Il tumulto accaduto in Milano sotto il governo di lui doveva condurre il re Lodovico XII a confidare in altra mano la suprema dignità, siccome fece, dichiarando suo luogotenente e governatore il cardinale di Rohan, che si chiamava il cardinale d’Amboise. Nemmeno per tre mesi il Trivulzio durò governatore. Per pochi mesi pure tenne questa carica il cardinale, a cui fu successore, nell’anno medesimo 1500, il signore du Benin. Entrò in Milano il Trivulzio il giorno 15 aprile, e andossene ad alloggiare in sua casa, non più in corte. Il cardinale, il giorno 17 di aprile, entrò come governatore. È facile l’immaginarsi quale fosse l’inquietudine de’ Milanesi in tale rivoluzione, disperando di più rivedere il loro natural principe, e temendo la vendetta de’ Francesi, offesi nell’ultima rivoluzione. In fatti, il cardinale pretendeva dalla città ottocentomila scudi, ossia dodicimila marche d’oro, in rifacimento delle spese fattesi per ricuperare lo Stato. La pena fu poi ridotta a soli trecentomila scudi, e nemmeno di quest’ultima somma se ne portò tutto il carico, poichè, trattine centosettantamila scudi effettivamente pagati, mercè di un regalo di gioie del valore di ottomila scudi d’oro fatto alla regina Anna di Brettagna, moglie del re Lodovico XII, ella impetrò dal sovrano suo sposo il dono del rimanente.
Dalla presa del duca Lodovico sino al 1507, poco o nulla accadde nel Milanese che meriti luogo nella storia, fuori che gli Svizzeri si resero padroni di Bellinzona, ed il re di Francia accondiscese a lasciarne loro il dominio. Negli anni 1502 e 1503 la pestilenza venne a Milano da Roma e fece strage. Quest’era la undecima volta, dal nono secolo in poi, in cui Milano fu esposta a tal miseria; avendo io osservate memorie di pestilenza negli anni 883, 964, 1005, 1244, 1259, 1361, 1373, 1400, 1406 e 1485. Nel secolo XVI, del quale ora scrivo, più volte vi penetrò, come vedremo. (1507) L’anno 1507, il giorno 24 di maggio, Lodovico XII, per la seconda volta, venne in Milano. Egli si era impadronito di Genova e fece il solenne ingresso, andandogli incontro, oltre il clero e i corpi pubblici, ducento giovani vestiti di drappo di seta celeste, ricamato a gigli d’oro. Il re entrò per Porta Ticinese sotto diversi archi trionfali, essendo le vie tutte coperte di tela, magnificamente parate. Così erano le vie sino al castello, dove terminò l’entrata. Eranvi in seguito de’ carri dorati, a foggia de’ trionfi dei Romani antichi. Il re stava sotto a baldacchino di drappo d’oro, con corteggio immenso di principi, marchesi, conti, sei cardinali, e quattro altri ne vennero il giorno seguente, in tutto dieci cardinali. Il re visse in Milano coll’affabilità istessa dell’altra volta; andava ai pranzi, e fu da Galeazzo Visconti, da messer Antonio Maria Pallavicino; e sopra ogni altro si ricorda il festino veramente magnifico che diede Gian Giacomo Trivulzio al re ed alla corte, in cui sedettero più di duecento gentiluomini, cinque cardinali e centoventi damigelle milanesi. Inoltre vi furono tavole imbandite per quattrocento arcieri reali, ed altretanti domestici e cortigiani; onde più di mille convitati sedettero alle mense del Trivulzio: e ciò, essendo la stagione favorevole, seguì il 27 di maggio, sotto sale posticcie, piantate lungo il corso di Porta Romana. Indi vi si ballò e s’ebbe il divertimento delle maschere. Al re singolarmente piacque una bellissima giovine, Catterina di San Celso, che cantava, suonava e ballava sorprendentemente, ed aveva somma grazia, ingegno e vanità di conquiste.
Fra i varii spettacoli che in quella occasione si videro, uno ve n’ebbe il quale minacciò di cagionare degli inconvenienti. Il giorno 14 giugno 1507 fu destinato ad una rappresentazione militare. Il giorno precedente cadeva la solennità del Corpus Domini, ed il re, con sette cardinali, col duca di Savoia, e i marchesi di Monferrato e Mantova, e una schiera di ministri esteri, aveva decorata la solita processione. La comparsa militare consisteva nel mostrare l’attacco di una fortezza. Erasi accomodato, a foggia di una ròcca, a quest’oggetto, il palazzo dove soleva dimorare il governatore, ch’era Carlo, gran maestro d’Amboise, succeduto al cardinale di Rohan. A difendere il forte, stavano esso governatore, il marchese di Mantova e il maresciallo Trivulzio, con cento uomini d’armi. L’attacco si faceva con forti bastoni, e tanto fu l’ardore, che alcuni vi rimasero morti, molti feriti; e la cosa era talmente impegnata, non volendo alcuna delle due parti cedere, che, per evitare una funesta scena, dovette il re in persona porsi di mezzo. Un mese e mezzo dimorò il re Lodovico questa seconda volta in Milano, d’onde partissene il giorno 11 luglio alla vòlta di Savona, per abboccarsi col re di Spagna, e concertar il matrimonio della sorella del duca di Nemours con quel re. I Veneziani, vedendo che il re Lodovico XII si era con facilità impadronito di Genova, cominciarono a temere questo potentissimo vicino, che aveano incautamente invitato ed assistito. Mossero delle pratiche per animare l’imperator Massimiliano, il quale aveva alla sua corte i due esuli principi Massimiliano e Francesco, figli del duca prigioniero. Non poteva il capo dell’Impero considerare mai come legittima l’invasione fatta dal re di Francia nel Milanese. Il feudo non passava nelle femmine, e quindi era viziato il titolo su cui fondavasi il re. Veramente ancora più viziato era quello che poteva mostrare Francesco Sforza; poichè la Bianca Maria, nella sua origine, aveva una macchia, della quale era immune la Valentina. Ma appunto per questo, quell’augusto avea, con nuova investitura, costituito duca Lodovico secondogenito, acciocchè l’investitura mostrasse l’arbitrio cesareo nella scelta. Oltre poi l’augusta maestà dell’Impero, nel cuore di Massimiliano parlavano i moti del sangue in favore dei due giovani principi oppressi. (1508) Lusingato adunque Massimiliano del favore de’ Veneziani, si presentò ai difficili passi dell’Adige per discendere dal Tirolo nella Lombardia; e, col pretesto di passar poi a Roma per farsi incoronare, scacciar prima i Francesi dal ducato di Milano. Ma trovò opposizione tale de’ Veneziani, che dovette tornarsene. Egli mosse le armi contro i Veneti, ed essi occuparono le terre imperiali di Gorizia e Trieste. Questi furono gli ultimi motivi che determinarono la famosa lega di Cambrai l’anno 1509; lega in cui il papa, l’imperatore, il re di Francia, il re di Spagna, e vari altri minori principi Gonzaghi, Estensi, ecc., si unirono a danno della prepotente repubblica veneta; lega per cui Venezia fu nel punto di perire, e per cui ricevette un colpo siffatto, che più non le fu possibile riascendere alla primiera grandezza. Era egli meglio per Venezia l’avere per confinante un principe di forze moderate, come lo Sforza, ovvero un re di Francia? Sulla casa Sforza essa acquistò Brescia, Bergamo e Crema. Il tempo cambia i principi, e le repubbliche immortali seguitano sempre la stessa politica. Un successore debole sul trono di Milano accresceva nuove spoglie ai Veneti; Cremona, la Gera d’Adda terminarono in mano de’ Veneti... Quantunque, era forse un bene per Venezia l’accrescere tanto lo Stato suo? E se, invece di farsi delle città suddite, ella ne avesse fatte altretante alleate e partecipi della veneta libertà, dando la cittadinanza veneta ai vinti, come i Romani... forse rinasceva Roma nel seno dell’Adriatico. Mi si perdoni questa digressione. Facil cosa è giudicare dagli effetti, siccome fa lo storico; ma gli uomini di Stato, costretti ad antivedere, sono dalle apparenze sedotti facilmente. L’oggetto di questa unione si era che il papa togliesse alla Repubblica le città marittime della Romagna; l’imperatore acquistasse Verona, Vicenza e Padova; il re di Francia riunisse al Milanese Crema, Bergamo e Brescia. Gli altri principi tutti avevano concertata la porzione che lor doveva appartenere dello spoglio de’ Veneziani.
I Veneziani radunarono un esercito di sessantamila uomini; e ne confidarono il comando al conte Bartolomeo d’Alviano. Si presentarono i Veneti all’Adda. Di contro comparve il governatore di Milano gran maestro Carlo d’Amboise, con una men forte armata. I Veneziani posero il fuoco a Treviglio; il loro comandante voleva prendere Lodi e Milano, od almeno tentarlo prima che giugnesse il re di Francia, il quale con nuovi armati passava le Alpi; ma i provveditori veneti non lo permisero. (1509) Comparve Lodovico XII in Milano il giorno l° di maggio del 1509, e fu questa la terza volta. Vi dimorò otto giorni; indi co’ suoi s’incamminò alla vòlta di Cassano. Egli avea al suo seguito da cento de’ primi gentiluomini milanesi, che seco conducevano più di mille cavalli corredati con maravigliosa magnificenza; e questi combattevano a proprie spese senza stipendio; su di che il Prato: al vedere quelle cavalcanti compagnie sì di Francesi come di Milanesi, con i sajoni quasi tutti di broccato d’oro sopra le fulgenti armi, avendo il re, vestito di bianco, nel mezzo, era veramente uno obstupescere l’occhio del riguardante. Giunse il re a Cassano; si pose di fronte ai Marcheschi. I Veneziani erano vantaggiosamente accampati alla sinistra riva dell’Adda, che scorreva avanti al loro campo. Voleva il re arditamente passare il fiume ed attaccarli, ma Giovan Giacomo Trivulzio lo sconsigliò da questo temerario partito a fronte di una numerosa armata, provveduta di molta artiglieria. Il re fece de’ ponti, e su di essi passarono i Francesi; ciò accadde il 10 maggio 1509. V’erano il Trivulzio, La Palisse, il duca di Bourbon. Il conte Bartolomeo d’Alviano voleva attaccare i Francesi al momento in cui stavano passando il fiume; e si lagnò de’ provveditori veneti, che gli strappavano dalle mani la vittoria e lo esponevano poi alla rovina. Non permisero i provveditori che scendesse dal suo campo trincerato. Il re pose il suo accampamento col fiume alle spalle e fece rompere i ponti, acciocchè i soldati sapessero che non rimaneva scampo alcuno colla fuga. I Veneziani si ritirarono verso Caravaggio. Il 14 maggio 1509 si posero in marcia i Francesi. I Veneziani avevano circa ventimila fanti e mille uomini d’armi. Fra i primi nell’attaccare furono i nostri Milanesi. Il fatto seguì fra Agnadello e Mirabello. Rimasero sul campo sedicimila persone. Alcuni dissero persino ventimila. L’Alviano fu ferito. Ventitre pezzi di grossa artiglieria vennero in potere de’ Francesi. Molti Veneziani rimasero prigionieri. Il poco che rimase dell’armata marchesca fuggì verso Brescia. Dopo questa insigne sconfitta d’Agnadello, del 14 maggio, i Francesi presero Caravaggio il 16; il giorno 18 maggio Bergamo si sottomise al re; e il giorno 23 maggio Brescia pure conobbe il re di Francia per suo signore. Crema nel mese istesso si sottomise. Tale fu l’impressione che fece la vittoria di Agnadello, che Verona, Vicenza e Padova portarono al re le chiavi, e il re le fece consegnare agli ambasciatori del re de’ Romani, come città a lui appartenenti.
Dopo un così rapido corso di vittorie il re Lodovico XII, il giorno 1° di luglio, entrò in Milano con una sorta di trionfo. Girò da San Dionigi dietro la fossa per entrare solennemente da Porta Romana, che allora era al ponte; e da Porta Romana al castello erano le case coperte di panni di razza, con li padiglioni sopra; come dice il Prato, che descrive la pompa essere stata tale, che ardiva paragonarla ai trionfi de’ Romani antichi. Vi erano quattro archi trionfali, e l’ultimo sulla piazza del castello, il quale, fra gli altri belli, era bellissimo, d’altezza di più di cinquanta braccia, disopra avendo di rilievo la imagine del re, sopra un cavallo tutto messo a oro, di maravigliosa grandezza, con due giganti a canto, e tutte le commesse battaglie intagliate e dipinte, che era una bellezza a vedere, e più superba cosa saria stato, se la subita venuta del re non avesse il mezzo dell’opera intercisa; così il Prato. Il re era preceduto da carri dorati, che rappresentavano le città sottomesse, alla foggia de trionfi romani. S’era preparato un magnifico carro trionfale, tutto dorato e condotto da quattro cavalli bianchi, coperti superbamente di ricamo, e scortato da ventiquattro pomposi custodi; ma il re non volle ascendervi e rimase a cavallo, corteggiato da gran numero di principi, conti e marchesi, ducento gentiluomini francesi, e molti gentiluomini milanesi sì superbamente vestiti, che il più domestico abito era semplice broccato; così il Prato. Il re poco dopo tornò in Francia.
Mentre i Francesi riunivano al ducato di Milano Brescia, Bergamo e Como, l’imperatore possedeva Verona, Vicenza e Padova; e il papa s’era reso padrone di Ravenna, Cervia, Imola, Faenza, Forlì, Rimini e Cesena. Ma, come accade sempre alle forze collegate, che i separati interessi de’ soci le scompongono ben tosto, così riuscì ai Veneziani di riprendere Padova. Poco dopo, segretamente il papa fece pace co’ Veneziani, ed ottenne la signoria delle città che avea conquistate nella Romagna, con di più il patto che la Repubblica non mai occupasse Ferrara. Così, mancando il papa di fede alla Lega, questa cessò, e ciascuno si rivolse a provvedere a’ casi suoi.