Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo III/Libro IV/Capo IV

Capo IV – Principii della poesia provenzale e della italiana

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Capo IV – Principii della poesia provenzale e della italiana
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Capo IV.

Principii della poesia provenzale e della italiana.

I. Nuovo argomento ci si offre qui a trattare, e nuovo genere di letteratura, di cui non ci è ancora avvenuto di dover tenere ragionamento. La poesia non avea finora usata in Italia altra lingua fuorchè la latina. Ma come questa nel parlar famigliare veniva ognor più corrompendosi, e dalle rovine di essa già cominciava a formarsi un nuovo idioma che sempre più andava stendendosi, ea’acquistando ogni giorno e parole ee’espressioni e vezzi in gran copia; [p. 517 modifica]QUARTO 5I7 cosi esso dopo essersi trattenuto per lungo tempo, per così dire, entro le domestiche mura, divenne poscia più ardito, e osò ancora di uscire in pubblico, e mostrarsi ne’ libri e ne’ monumenti che dovean passare ai posteri. Di ciò già abbiam favellato nella Prefazione a questo tomo premessa, ove abbiamo investigata l’origine della lingua italiana. Qui dobbiam solo cercare della poesia, e esaminare a qual tempo cominciasse in essa ad usarsi questa lingua medesima. Su questo argomento ancora si è scritto molto da molti; ed io non potrei uscirne giammai, se tutte volessi esaminare le opinioni diverse di diversi scrittori, e scoprir tutti i falli in cui molti di essi sono caduti. Atterrommi dunque al mio usato costume di sceglier ciò solo eli’ è più degno di risapersi, e di trattare colla maggiore esattezza che mi sia possibile quelle sole quistioni che alla storia dell’italiana letteratura sono più importanti. II. E primieramente a me sembra inutile quella che pur da alcuni si tratta diffusamente, cioè a qual nazione si debba l’invenzion della rima (22). Ogni lingua ha parole che hanno la (a) Benché antichissimo sia l’uso della rima, esso però non basta a trovar l’origine del verso italiano; perciocchè questo non si distingue sol dal latino per mezzo della rima , la quale quanto di ornamento accresce alla italiana poesia, tanto ne toglie alla latina, ma ancora perchè il verso latino è formato singolarmente , come dicono i gramatici , dalle misure del tempo, e perciò chiamasi metrico; l’italiano è formato dal numero delle sillabe e dalla posizion degli accenti, e perciò chiamasi armonico. Or chi furon i primi a usare di questa sorta [p. 518 modifica]5l8 LIBRO medesima desinenza; ogni lingua dunque ha rime, e ogni nazione ha potuto usar delle rime. Anzi non solo ha potuto usarne} ma appena troverassi lingua in cui esse non veggansi di verso? Non furon certo gl’italiani; perchè versi armonici si ritrovano molto più antichi dei più antichi versi italiani. A me perciò non appartiene l’esaminare una quistione che punto non è connessa colla storia dell’italiana letteratura; nè io entrerò qui in campo fra due valorosi combattenti spagnuoli, l’ab. D. Giovanni Andres e l’ab. D. Stefano Arteaga. Il primo nel tomo primo della sua grand’opera Dell’origine", de’ progressi e dello stato attuale di ogni letteratura (p. 311, ec.) aVea attribuita agli Arabi la lode di avere nelle provincie meridionali dell’Europa introdotta la poesia armonica (benchè la poesia arabica sia in parte anche metrica), e di avere singolarmente col loro esempio eccitato ne’ Provenzali quell’amore della poesia che fu l’origine di tante lor rime. Il secondo nella prima edizione del primo tomo delle sue Rivoluzioni del teatro musicale italiano combattè modestamente l’opinione dell’ab. Andres (p. 145, ec.). Questi nel secondo tomo della sua opera, avendo dovuto ritornare sullo stesso argomento , rispose in quella maniera che deesi usare tra’ dotti in somiglianti contese, alle ragioni del suo avversario (p. 48). Ma l’abate Arteaga più non tenne misura, e nella nuova edizione veneta dello stesso primo suo tomo lusingossi di atterrare l’abate Andres con una lunghissima nota piena di sarcasmi e di amare ironie (p. 162, 183). Ma io ripeto che non è di quest’opera l’entrare alla disamina di questo punto, di cui ci tornei à in acconcio il trattare ad altra occasione che indicheremo tra poco. Molto meno debbo io frammischiarmi in un’altra calda contesa risvegliatasi pochi anni sono tra due scrittori francesi. M. le Grand autore della raccolta de’ Fabliaux et Contes du XII et du XIII siècle stampata in Parigi in quattro tomi l’anno 1779, ec. nella prefazione ad essa premessa affermò che queste Favole da lui pubblicate, e scritte nell’antica lingua [p. 519 modifica]QUARTO 519 talvolta usate. Io non rinnoverò qui le contese insorte al principio di questo secolo in Italia intorno alla poesia degli Ebrei (Giom. de Lctt. dItal. t. 7, p. 269). Checchè sia di essi, egli è certo che i Greci ancora e i Latini, benchè per lo più non usassero de’ versi rimati, pur ne usaron talvolta, e dei Latini singolarmente ha mostrato il ch. Muratori (Antiq. Ital. t. 2, diss. 40) che ve ne ha esempj fin dai tempi più antichi, e che quanto più venne degenerando la purezza di quella lingua, tanto più frequente divenne l’usar la rima ne’ versij come se alla grazia dell1 espressione, che più non v’era, si volesse supplire colf armonia. Potcvan dunque gl’italiani per lor medesimi osservare che, attesa l’indole della lor lingua, la rima francese, erano in grazia e in leggiadria assai superiori a tutte le poesie provenzali} e che le parti settentrionali della Francia assai prima e assai meglio delle meridionali aveano coltivate le lettere. Questa proposizione irritò altamente, come era ad attendersi, gli abitanti della Provenza, contro i quali era singolarmente rivolta; e parecchi opuscoli pubblicati furono a confutarla. Ma niuno con più impegno si accinse alla difesa de’ Provenzali, che l’autore del Viaggio letterario di Provenza (ch’è il P. Papon dell’Oratorio, autore ancora della recente Storia di Provenza) stampato in Parigi nel 1780, al fin del quale leggonsi cinque lettere sui poeti provenzali dirette a sostenere la preminenza e l’onore di quegli antichi poeti, e a screditare gli autori francesi delle Favole e de’ Racconti. M. le Grand non si tacque, e l’anno seguente pubblicò in Parigi in risposta al suo avversario le Observations sur!les Troubadours. E forse la guerra non è ancora terminata. Ma noi ne staremo pacifici spettatori, senza prendere parte alcuna in una contesa che punto non ci appartiene. [p. 520 modifica]5ao libro avrebbe aggiunta nuova bellezza a’ lor versi: e potevano ancora essere invitati a usar della rima dall’esempio di qualunque nazione; poichè presso qualunque nazione, e presso i Latini singolarmente, potean vederne la norma. Ciò che più è degno d’essere ricercato, si è quale delle due lingue volgari che a questo tempo cominciavano in Italia e nelle provincie con essa confinanti ad essere in uso, cioè l’italiana e la provenzale, fosse la prima a usar de’ versi rimati (23). III. Se a decidere questa contesa vogliam usar solamente l’autorità di qualche antico scrittore, sembra che la gloria di avere prima d’ogni altra nazione usata ne’ versi volgari la rima, debbasi agl’italiani, cioè a’ Siciliani. Il Castelvestro fu il primo, ch’io sappia, ad affermarlo, confutando la contraria opinione del Bembo (Giunte alle Prose del Bembo, p. 38 ed. di Nap. 1714)- E a provarla egli si vale di due passi dell’Opere del Petrarca. Questi parlando de’ diversi generi di letteratura e di poesia allora usati, Pars, dice (praef. ad Epist. famil.), mulcendis vulgi auribus intenta suis et ipsa legibus utebatur. Quod genus apud Siculos (ut (et) Avvertasi ch’io fo qui il confronto tra le due sole lingue provenzale e italiana; e che al più il confronto si può stendere alle altre lingue volgari formate dalla latina. Quindi non mi pare opportuna l’aggiunta fatta dal sig. Laudi (l. 2y/j. ¡4) a questo passo della mia Storia, ove ci dice che la lingua tedesca può contrastare agl1 Italiani l’antichità della poesia. Più altre lingue, e singolarmente l’arabica , potrebbon entrare in questo contrasto. Ma ogniun vede ch’io non ragiono delle lingue che diconsi madri, ma di quelle che dalla lingua latina si son formate. [p. 521 modifica]QUARTO Sai fama est) non multis ante saeculis renatum brevi per omnem Italiam ac.longius manavit, apud Graecorum olim ac Latinorum vetustissimos celebratum, si quidem et Romanos vulgares rhythmico tantum carmine uti solitos accepimus. Qui veggiam dunque affermarsi dal Petrarca, come cosa di cui correva allor tradizione, che alcuni secoli prima fosse tra’ Siciliani rinato l’uso della rima. Lo stesso sembra egli indicare nelle sue poesie, annoverando i poeti che scrisser d’amore. Ecco i due Guidi che già furo in prezzo; Onesto Bolognese, e i Siciliani Che fur già primi e quivi eran da sezzo. Trionfo d’Amore, c. 4Nel qual secondo passo però non è abbastanza evidente s’ei parli di primato di tempo, o anzi di merito (24). Ma nel primo non vi ha (a) Il ch. sig. D. Pietro Napoli Signorelli crede cotanto autorevole la testimonianza del Petrarca, il quale dà a’ Siciliani la lode di avere i primi rinnovata l’arte del rimare, che si meraviglia di me, come abbia potuto interpretare quelle parole in senso diverso (Vicende della coltura nelle Due Sicilie, t. 2, p. 194)- E veramente se il Petrarca ce ne facesse sicura fede , non dovremmo sì facilmente rigettarne l’autorità. Ma per una parte ei ne parla come di semplice tradizione, ut fama est; per l’altra non abbiam finora rime siciliane che nell’antichità agguaglino le provenzali, e perciò a me sembra che in questa occasione a una testimonianza appoggiata alla semplice tradizione debba antiporsi l’evidenza del fatto. Quanto poi all’origine e alle vicende della poesia provenzale, più cose dovrem forse dire in altra occasione, cioè quando, piacendo a Dio , pubblicheremo il bell’opuscolo che su ciò scrisse fin dal secolo XVI Giammaria Barbieri modenese, uomo in questa materia dottissuno. [p. 522 modifica]522 LIBRO luogo ad alcun altro senso, fuorchè a quello che abbiam recato; e sembra perciò, che secondo il parer del Petrarca debbasi ai Siciliani concedere questo vanto sopra i Provenzali. Nè egli era uomo, come osserva li Muratori (l. c. ec. Della perfetta Poes. l. 1, c. 3), a cui i Provenzali non fosser noti. Anzi egli vissuto sì gran tempo fra loro, e giovatosi forse ancora talvolta de’ loro versi, dovea pur risapere a qual tempo avesse cominciato a fiorir tra essi la poesia e la rima. IV. Ma ad accertarci se il Petrarca abbia scritto il vero, convien ricercare a qual tempo cominciassero i Provenzali a verseggiar volgarmente , e a qual tempo i Siciliani. Io lascio in disparte alcuni più antichi esempj di poesie provenzali che si arrecano dagli autori della Storia letteraria di Francia (t. 7, avertiss. p. 46, ec.) e dal Muratori (Antiq. Ital. vol. 3, p. 708). Ma egli è certo che Guglielmo IX, conte di Poitiers, verso il fine dell’ xi secolo e al principio del xii scrisse poesie provenzali (Hist littér. de la France t 11, p. 44; Hist. de Languedoc t 2, p. 247) (25), alcune delle (*) Con quella stessa sincerità con cui ho confessato che si hanno poesie provenzali più antiche dell’italiane, avrei ancor confessato che delle poesie medesime deesi l’onore e la lode non solo a’ Francesi abitanti della Provenza , ma anche agli Spagnoli abitanti della Catalogna , se avessi fatte le riflessioni che molto eruditamente ci viene schierando innanzi l’ab. Lampillas (par. 1, t.2.p. 180), colle quali egli assai bene lo pruova. Questa quistione a me era indifferente , e pago di aver mostrato la mia imparzialità riguardo all’Italia , [p. 523 modifica]QUARTO 5a3 quali furono pubblicate dalP Alteserra (Reriun Jquitan. I. io, c. 14)• Noi al contrario non possiamo addurre sicuro esempio di poesia ita« liana innanzi al fine del xn secolo. Io so che il non trovarsi menzione di più antiche poesie non basta a provare ch’esse non vi fossero veramente; poiché può essere che molto prima si cominciasse a poetare in lingua italiana, benché di questi sì antichi versi non ci sia rimasta memoria. Ciò non ostante eonvien confessare che in cotai controversie, quegli credesi vincitore , che ha in favor suo i monumenti più antichi. Quindi io inclino a credere che i Provenzali prima di noi prendessero a verseggiare. E forse il passo da noi poc’anzi allegalo di Francesco Petrarca , in cui dice che la rima rinacque presso de’ Siciliani, vuoisi intendere in quel senso in cui 1’ hanno spiegato gli autori della Storia letteraria di Francia (t. n^acertiss. p. 4g); cioè che i Normanni stabiliti nella Sicilia fin dall’ xi secolo rinnovarono ivi 1’uso della poesia limata, e che da essi poi si sparse non bo creduto necessario l’entrare in una contesa che non può essere che tra gli Spagnuoli e i Francesi. Ma che poi l’ab. Lampillas (p. i<)3, ec.) affermi coraggiosamente che io e I’ ab. Bettinelli per iscancellarne vieppiù ogni memoria, sfiguriamo stranamente il cognome de’ loro principi, senza che mai da noi vengano chiamati (Conti di Barcellona , questo è uno de’ consueti suoi complimenti, de’ quali egli ci onora , dopo avere profondamente spiate le secrete nostre intenzioni. <> Hgli inoltre troppo maggior parte di lode nella prima origine della poesia provenzale alla sua nazione ha accordato di quel che veramente convengale. Ma non è di quest’opera l’esame di questo punto». [p. 524 modifica]5a4 LIBRO per tutta l’Italia (a). Aggiungasi, che un’altra pruova che dal Muratori si arreca (l. cit. p.705) a persuaderci che la poesia volgare non ebbe in Italia la prima origine da’ Provenzali, a me pare che non abbia forza bastante a persuadercene. Egli produce l’autorità di Leonardo Aretino, il quale nella Vita di Dante scrive così: Cominciossi a dire in rima, secondo scrive Dante, innanzi a lui circa anni centocinquanta , e i primi furono in Italia Guido Guinizelli bolognese, ec. Ma non sembra questo, a dir vero, il sentimento di Dante. Egli nella Vita nuova ha queste parole (Op. t. 4, par. 1 , p. 35 ed. Ven. parag 17): E non è molto numero d’anni passati, che apparirono questi poeti volgari... e se volemo guardare in lingua d oco (cioè nella provenzale) e in lingua di si (cioè nella toscana) noi non troviamo cose dette anzi il presente tempo centocinquant’anni. Colle quali parole ei sembra dare a un dipresso la medesima antichità alla poesia provenzale e alla italiana. Ma egli è certo che abbiam poesie provenzali assai più di 150 anni innanzi a’ tempi di Dante; perciocchè questi scrivea l’opera mentovata 1’anno 1 2q5 (Vedi Mem, per la Vita (a) Se vuoisi attribuire a’ Normanni l’origine della poesia rimata in Sicilia, non può più accordarsi tal lode a-’ Provenzali; perciocché due popoli iùrono essi di lingua c di costumi del tutto diversi. Ala io ridetto che non troviamo in Italia saggio alcuno di poesia normanna, molti ne abbiamo di poesia provenzale. E sembra perciò più verisimile che se i Siciliani da altri appresero I uso delle rime, da’ Piovenzali l’apprendessero, non da’ Normanni. [p. 525 modifica]quarto 5a5 di Dante § 17)? e già abbiam dimostrato che almeno due secoli prima erano quelle poesie in uso. Al contrario possiam credere con fondamento che Dante abbia esagerata alquanto l’antichità della poesia italiana, perchè egli stesso non nomina poeta alcuno che sia vissuto innanzi al secolo XIII. Concediam dunque a’ Provenzali il primato di tempo nella poesia volgare, e mostriamo con ciò, che paghi delle nostre glorie non invidiamo le altrui (27). (27) Il sig. abate Lampillas ci avverte che al tempo di Federigo I imperadore , gli Spagnuoli contribuirono assai alla coltura de’ poeti siciliani (Sag", Apologet!.par. 1, t. 2 , p. 191). E come ciò? Perchè Federigo trovandosi in Torino fu visitato da Raimondo Berlinghieri conte di Barcellona e di Provenza , accompagnato da gran turba di poeti provenzali, e avendo questi recitate molte belle canzoni nella lor lingua, Federigo ne fu rapito per modo, che oltre al far loro splendidi doni, compose egli medesimo in quella lingua un madrigale. La venuta del conte di Provenza Raimondo Berlinghieri II a Torino nel 1162 ad abboccarsi coll imperador Federigo è certa (V. Papon Hist. de. Provence, t. 2, p. 239); e diasi ancora per vero ch’ei fosse accompagnato da molti poeti provenzali. Come sa egli l’abate Lampillas che que’ poeti fossero spagnuoli? Raimondo Berlinghieri, dic’egli, era conte di Barcellona insieme e di Provenza. Ma ciò è falso. Conte di Barcellona era allora un altro Raimondo Berlinghieri IV, zio del conte di Provenza (Art de verifier les Dates , ed. 1770, p. 743, 759), che postosi in viaggio col nipote morì prima di giungere a Torino. Quindi, se vi eran poeti in quel viaggio, essi potevan essere ugualmente provenzali e spagnuoli. Ma fossero essi pure spagnuoli. Come contribuirono essi con ciò alla coltura de’ poeti siciliani? Crede egli forse che Torino sia città della Sicilia? O forse crede che Federigo I fosse re di Sicilia? Io nol crederò mai sì ignorante della geografia e della storia, ch’ei possa esser [p. 526 modifica]caduto in tali errori. Ci dica egli dunque di grazia, per qual modo l’accoglienza fatta da Federigo in Torino a’ supposti poeti spagnuoli, e un madrigale da lui composto in lingua provenzale, potè contribuire al coltivamento dei Siciliani? Il sig. D. Pietro Napoli Signorelli ha creduto (Vicende della coltura nelle Due Sicilie, t. 2, p. 237) che l’abate Lampillas e gli autori da lui citati parlino dell’imperador Fedrigo II, di cui potrebbesi ciò affermare con maggior verisimiglianza, se il Fatto fosse vero, Ma essi parlano del primo. Anche il sig. nbate Arteaga ha creduto (Rivoluz. del teatro music, ital t. 1, p. 149. ed. ven.) che la venuta in Italia di Raimondo Berlinghieri o Berengario conte di Provenza e di Barcellona a visitare Federigo I molto contribuisse a spargere il gusto della poesia provenzale in Italia. Ma è certo che a’ tempi di Federigo I non troviamo tra gl’italiani alcun poeta provenzale; e il solo che a quest’età appartiene, è Folchetto di cui qui ragioniamo, il quale non già tra noi, ma in Marsiglia apprese a poetare provenzalmente; e il più antico italiano che poetasse in provenzale è, a mio credere, il marchese Alberto Malaspina, di cui diremo nel tomo seguente, e che solo dopo il 1190 comincia ad essere nominato nelle storie. Non può negarsi però che la poesia provenzale non cominciasse ad essere conosciuta e protetta in Italia poco dopo la metà del secolo XII. Ne abbiam le pruove nella Storia dell’abate Millot, di cui diremo nella nota seguente. Veggiamo in essa che Bernardo di Ventadour diresse a Giovanna d’Este una sua canzone in cui esorta Federigo I a far pentire i Milanesi della lor ribellione (t. 1, p. 35); e in lode della medesima troviamo accennata una canzone di un poeta anonimo , in cui si dice eli’ essa rende pregevole il paese d’Este, di Trcvigi, della Lombardia e della Toscana, e che risiede nel Castello dell" Occasione (r. 3, p. 439, ec.), 5a6 libro V. Se poi gl’Italiani apprendessero a rimare da’ Provenzali, ovver da altri, non è cosa si agevole a stabilire. Converrebbe interrogar que1 medesimi clic prima d’ogni altro usarono della [p. 527 modifica]QUARTO 537 rima5 e chieder loro da chi prendesser l’esempio. Egli è certo però, che i nostri Italiani non sol conobbero i Provenzali, ma con loro ancora si unirono, e poetarono nella lor lingua. Abbiamo le Vite de’ Poeti provenzali, tra’ quali se ne veggono alcuni italiani, scritte da Giovanni Nostradamus, e stampate a Lyon l’anno 1575. Egli afferma di averle tratte da alcune antiche Cronache de’ monasteri di Lerins, di S. Vittore di Marsiglia , e di altri. Ma qualunque sia l’autorità di tali scrittori, le Vite da lui pubblicate sono anzi favolosi romanzi, nome probabilmente allegorico. Questa Giovanna d’Este non è stata conosciuta dal Muratori, e fra i molti principi di questa illustre famiglia, che circa la metà del XII secolo vissero, io non posso decidere di qual tra essi fosse figliuola. In un’altra canzone lo stesso Bernardo nomina la Dama di Saluzzo, e la sua graziosa sorella Beatrice del Viennese (t. 1, p. 36). Or la dama di Saluzzo dovette essere Alasia figlia di Guglielmo III marchese di Monferrato, e moglie di Manfredo II marchese di Saluzzo (V. Tenivelli Biografia piemont. t. 2 Albero de’ March, di Monferrato); della quale sembra che fosse sorella, ben’ hè nell1 Albero de: Marchesi di Monferrato non sia nominata , Beatrice di Monferrato moglie di Guigo V, conte del Viennese, succeduto già in età pupillare a Guido Delfino suo padre l’anno 1149 (Art (de verifier les Dates, p. 759). Convien dunque dire che i poeti provenzali cominciassero a spargersi per l’Italia , e a trovar protezione presso i principi italiani. Nelle lor Vite però pubblicate da M. Millot io non trovo circa questi tempi menzione di alcun altro poeta provenzale che fosse tra noi, fuorchè di Oglero viennese a’ tempi di Federigo I, di cui si dice che fu lungamente in Lombardia, e che lodò il marchese di Monferrato (t 1, p. 340), cioè probabilmente il suddetto Guglielmo III. [p. 528 modifica]528 LIBRO che vere storie (*). Veggasi la dotta critica che ne hanno fatta i Maurini autori della Storia generale della Linguadoca (t. 3, p. 5i8, ec.), e l’abate Goujet (13ibi. frane, t. 8, p. 488, ec.). (*) Dopo la pubblicazione di questo e del seguente tomo della mia Storia, è stata pubblicata in Parigi nel 1774 l’Histoire littéraire des Troubadours scritta dall’abate Millot, e raccolta dagl’immensi volumi che su questo argomento avea compilati M. de Sainte-Palaye. Dopo le fatiche di questi quarant’anni, quanti ne ha spesi il secondo in radunar le materie di sì vasta opera, vi era motivo a sperare che la storia de’ poeti provenzali dovesse ornai essere rischiarata per modo, che appena rimanesser più tenebre a dissipare. Ma l’aspettazione degli eruditi è stata delusa; e dopo la pubblicazione di questa opera si può ben dire che son più note le poesie de’ Provenzali , e che molte belle notizie riguardo ai costumi di quell’età vi s’incontrano; ma che le lor Vite son quasi avvolte nell’antica loro oscurità. In questo Giornale di Modena è stato inserito l’estratto dell’accennata Storia, in cui se ne scuoprono molti errori e molte inesattezze; e si mostra tra le altre cose, che il bellissimo codice Estense delle Poesie provenzali, che pur è stato veduto da M. de Sainte-Palaye, si descrive in modo , come s’ei mai non I’ avesse veduto (t. 9, p. 63). Le Vite de’ Poeti son tratte comunemente da’ codici ch’io pure ho citati, ma non sempre si confrontano i lor racconti colle storie più sicure di quell’età; il qual confronto avrebbe fatti scoprire non pochi errori che in dette Vite son corsi. Leggasi, a cagion d’esempio, la Vita di Folchetto da Marsiglia (t. 1, p. 179, ec.), e si vedrà che benchè qui si ammettono alcune favole da me ancor confutate, altre cose però si affermano, senza recarne pruova, che a me son sembrate improbabili e false. Ciò che vi ha in questa di più pregevole, è il racconto delle cose fatte da Folchetto contro gli Albigesi, mentri era vescovo, delle quali io non ho fatta menzione, perchè erano estranee al inio argorneulo. [p. 529 modifica]QUARTO D29 lo mi stupisco però, che non solo il Crescimbeni (Comm. della volgar Poes. t. 2 , par. 1, p. 5, ec.), ma il Quadrio ancora (Stor. della Poes. t. 2, p. 108, ec.) vissuto in tempi assai più rischiarati, le abbiano troppo buonamente adottate, e inserite nelle lor opere; benchè pure il Crescimbeni le abbia con alcune utili note illustrare sovente, il che ha trascurato di fare il Quadrio. Assai migliori notizie si potrebbon raccogliere da’ codici mss. di cotai poesie, che si conservano nella biblioteca reale in Parigi, nella Vaticana, nella Laurenziana, e in alcune altre d’Italia, ne’ quali veggonsi ancor le Vite de’ loro autori, forse aneli’ esse non prive di favolosi racconti, ma certo assai meno di quelle del Nostradamus. Due codici ne ha fra le altre questa Estense biblioteca, uno di singolar pregio scritto l’anno 1254, ma in esso non veggonsi le Vite de’ Provenzali; l’altro assai più recente, e in esso se ne leggono alcune, delle quali ragioneremo nel tomo seguente , a cui per ragion di tempo appartengono. Tra quelli del primo codice alcuni ve ne ha per avventura italiani, benchè dal Nostradamus si dican di patria provenzali; ma non avendo noi più distinta contezza nè del tempo a cui essi vissero, nè della lor vita, non possiamo dirne più oltre. VI Quegli che sembra aver vissuto almeno in parte a questa età, benchè toccasse in parte ancor la seguente, è Folco ossia Folchetto, soprannomato di Marsiglia, ma genovese di patria. Di lui narra il Nostradamus, ricopiato e tradotto dal Crescimbeni e dal Quadrio (l. cit. Tiraboschi, Voi. III. 34 [p. 530 modifica]53l> LIBRO p. ii5), che fu figliuolo di un mercatante genovese detto Alfonso che abitava in Marsiglia; che fu assai caro a Riccardo re d’Inghilterra al conte Raimondo di Tolosa, a Barral signore cioè visconte di Marsiglia , e ad Adelasia detta da altri Adelaide di lui moglie (a), in lode della quale scrisse molte canzoni; che essendo essi morti quasi tutti al medesimo tempo, annoiato del mondo entrò tra’ Cisterciensi; che fu fatto abate di Torondetlo presso Luco in.Provenza, indi vescovo prima di Marsiglia, e poi di Tolosa, ove morì circa l’anno *i2i3. Così questi scrittori; nel racconto de’ quali molte cose sono che non reggono a una giusta critica. I tre prìncipi elio si fanno morire quasi ad un tempo , morirono in molla distanza 1’uno dall’altro; Riccardo I, re d’Inghilterra, 1’anno 1 199, Raimondo V, conte di Tolosa, l’anno 119!, Barrai visconte di Marsiglia nell’anno 1193 (Hist. génér. de Languedoc, t 3 , p. 94, 10G). In un codice della reai biblioteca di Parici O (ib. p. l42) si dice che Folchetto era assai (a) Nella prima edizione ho negato che Adelaide da Roecamai lina fosse moglie di Barral visconte di Marsiglia. Ma il P. Papon nella sua erudita ed esatta Storia di Provenza ha osservato e provato (t. 2, p. 258) che ella fu veramente moglie di Barral, il quale poi ripudiatala verso il fin de’ suoi giorni , prese in seconde nozze Maria figlia di Guglielmo conte di Montpellier. Il sopraccitato P. Papon nel secondo e nel terzo tomo della suddetta sua Storia molte notizie ha inserite de’ poeti provenzali natii di quelle provincie, tratte più dalle Memorie MSS. di M. di Sainte-Palaye da lui comunicategli, che dal compendio fattone da M. Millot. Parla egli adunque ancor di Folchetto; ma ne dice a un dipres&p le cose stesse che ne narra il suddetto M Millot. [p. 531 modifica]QUARTO 53! amato da Alfonso IX, re di Castiglia; e che quando ei fu disfatto a Calatrava da’ Saracini, Folcii etto adoperossi per trovargli soccorso; che poscia Adelaide cacciollo lungi da sè; e che egli allor ritirossi presso Eudossia Comnena moglie di Guglielmo di Montpellier; e che dopo la morte de’ suddetti signori ei si fè monaco nella mentovata badia, donde poi fu tratto per esser fatto vescovo di Tolosa. Benchè anche in questo codice si contengan più cose che a me sembrano favolose, nondimeno non vi si scorgono tanti errori, quanti nella Vita scritta dal Nostradamus. Perciocchè questi, oltre le altre cose, dice, come abbiamo osservato , che Folco fu prima vescovo di Marsiglia , e poi di Tolosa. Or tra’ vescovi di quella città noi troviamo bensì un Folco; ma egli era vescovo fin dal 1174 (Gallia sacra t. 1, p. 648, ed. Paris. 1715), e perciò se è vero che Folco abbracciasse la vita monastica sol dopo la morte de’ personaggi suddetti, ei non poteva esser vescovo fin da quest’anno. Aggiungasi che per testimonio di Guglielmo di Puy Laurent scrittore contemporaneo il Folco vescovo di Tolosa era stato prima non vescovo di Marsiglia, ma abate di Torondetto, e fu eletto vescovo 1’anno 1 ao5 (ih.); al che mi stupisco che non abbiano posta mente gli autori della Storia letteraria di Francia, che hanno ciecamente seguito il racconto del Nostradamus (t. 9, p. 177) (a). (a) La distinzione del Folco vescovo di Marsilia dal 1170 fino al 1185 dal poeta provenzale poi abate di Torondetto, e per ultimo vescovo di Tolosa nel 1205, è stata chiaramente provata dal suddetto P. Papon (t. 1, p. 347). [p. 532 modifica]53a libro Più semplice , e perciò meno inverisimile, si è il racconto che si legge in un codice della Vaticana citato dal Crescimbeni (Comm. della volg. Poes. t. 2, par. 1, p. 38), che alcune rime ancora ne ha pubblicato (ib. p. 237), ove senza tante amorose peripezie si legge solo che amò la moglie di Barral, e che fu avuto in pregio da’ personaggi mentovati poc’anzi; che, morti essi, si fece monaco insiem colla moglie e con due figliuoli, e poscia fu fatto abate, e quindi vescovo di Tolosa. Ma perchè il saggio che abbiam qui ciato dell1 esattezza con cui sono scritte le V ite de’ Poeti provenzali, ci avvisa a non affidarci troppo a’ racconti del Nostradamus , e degli altri scrittori di cotai Vite , perciò io non ardisco di diffinir su ciò cosa alcuna. Due sole circostanze della vita di Folchetto si affermano ancor dal Petrarca, cioè ch’egli fosse genovese, benchè pel soggiorno in Marsiglia da questa seconda città prendesse il nome; e ch’egli, abbandonato il mondo, si ritirasse in un chiostro: Folchetto che a Marsiglia il nome ha dato, F.d a Genova tolto, ed a l’estremo Cangiò per miglior patria abito e stato. Trionfo d* Amore, c, 4Della patria di Folco abbiamo ancora una più antica testimonianza in Dante che lo introduce a favellare in tal modo: Di quella valle fu’ io littorano. Tra Ebro e Macra, che per cammin corto Lo genovese parte dal toscano. Parad. c. g. [p. 533 modifica]QUARTO 533 VII. Nulla men difficile a sciogliere è l’ultima quistione che qui ci si offre a trattare, cioè quando precisamente avesse tra noi origine la poesia italiana, e chi fosse il primo ad usarne. Ciò che è certo, si è che poesie italiane di regolar metro a questi tempi ancor non si videro. Solo due abbozzi, per così dire, se ne producon dopo altri dal Quadrio, uno dell’anno i i35, l’altro del 1184j ^ secondo, benchè sia di un anno posteriore all’epoca di cui trattiamo, perla vicinanza nondimeno del tempo e per la somiglianza dell’argomento ci cade in acconcio l’esaminare a questo luogo. Il primo saggio di poesia è un’iscrizione della chiesa cattedrale di Ferrara posta sopra l’arco dell’altar maggiore, che ha così: In mille cento trentacinque nato Fo questo tempio a Zorzi consecrato: Fo Nicolao Scolptore E Glielmo fo l’autore. Quadrio, t. r, ]>. 4"?, Dalla qual iscrizione raccoglie il celebre Baruffaldi nel discorso premesso alle Rime de’ Poeti ferraresi, che in Ferrara prima che altrove si cominciasse a verseggiare in lingua italiana. E certo se questa iscrizione fu veramente fatta a quel tempo, ella è il più antico , e perciò il più pregevole monumento di volgar poesia. Ma chi ce ne assicura? Non potè egli forse accadere che a un tempio fabbricato l’anno 1135 si aggiugnesse dopo molti anni questa iscrizione? E parmi che vi sia qualche ragione che ce ne muova sospetto. Egli è certissimo, per comune consenso, che a que’ tempi non erasi ancor cominciato a scrivere italianamente; sicché »1 [p. 534 modifica]534 LIBRO più se ne trova con grande stento qualche rarissimo saggio qua e là sparso. Or è egli possibile che, trattandosi di un pubblico monumento, si volesse usare di questa lingua? Anche al presente nelle iscrizioni di questo genere più frequentemente assai si adopera il latino che non l’italiano. Crederem noi dunque che mentre appena nasceva la nostra lingua, ella fosse usata in una tal occasione? Io confesso che non so indurmi a crederlo, finchè non se ne adducano più certe pruove (*). Vili. 11 secondo saggio di volgar poesia da noi accennato si riferisce da Vincenzo Borghini (Discorsi, par. 2, p. 26), e dopo altri dal Quadrio (t 2 , p. 150), e dicesi tratto da una lapida che a’ tempi ancor del Borghini conservavasi in Firenze nella nobil casa Ubaldini. Questo autore l’ha fatta scolpire in rame colla forma (*) Il eh. P. Ireneo Affò nell’erudita dissertazione premessa al Dizionario poetico, da lui stampato in Parma nei 1777, esamina minutamente questi due antichissimi monumenti della volgar poesia, e ce ne dà una esattissima descrizione. Egli pure rigetta come supposta la lapida della nobil famiglia Ubaldini; ma crede sicura ed autentica l’iscrizione ferrarese; e si fonda singolarmente sulla figura de’ caratteri in essa usati. A me par certo di aver veduta qualche iscrizione del secolo xiv, e anche del xv formata con caratteri somiglianti ,• ma ancorchè ciò non fosse, perchè questo argomento avesse tutta la sua forza, converrebbe aver sotto l’occhio il sasso medesimo, e la iscrizione, qual fu in essa scolpita. Ma esso più non esiste, e della iscrizione non abbiamo che copie, ed esse ancora fatte da tali persone, delle quali non possiamo abbastanza fidarci. Il che congiunto all’autorità del Guarini che afferma quella iscrizione non essere stata scolpita che nel 1340, confesso che mi tien tuttora dubbioso sull’antichità di un tal monumento. [p. 535 modifica]QUARTO 535 medesima de1 caratteri che in essa si veggono. Ivi ella non è scritta a foggia di versi, ma tutta di seguito come prosa. Io la recherò qui, qual è stata pubblicata dal Quadrio, divisa, come sembra richiedere quel qualunque metro , in cui è scritta. De favore isto Gratias refero Christo. Factus in Festo Serenae Sanctae Mariae Magdalenae, Ipsa pecidiai iter adori Ad Di •lini prò me peccatori. Con lo meo cantare Dallo vero narrare Nullo ne diparto. Anno milesimo Christi Salute centesimo Octuagesimo quarto. Cacciato da Veltri A furore per quindi eltri Mugellani cespi un Cervo Per li corni ollo fermato. Ubaldino Genio anticato Allo Sacro Imperio Servo Uco piede ad avacciarmi Et con le mani aggrapparmi A Ili corni suoi d’un tratto. Lo magno Sir Fedrico Che scorgeo lo ’ntralcico Acorso lo svenò di fatto. Però mi feo don della Cornata, fronte bella. Et per le ramora degna. Et vuole che la sia De la Prosapia mia Gradiuta insegna. Lo meo Padre è Ugicio, E Guarento Avo mio Già d’Ugicio, già d’Azo , Dello già Ubaldino, Dello già Gotichino. Dello già Luconazo. [p. 536 modifica]53(3 LIBRO Di questa lapida dice il Borghini che si fa ancora memoria in un contratto del 1414 > come di cosa dagli uomini di quella famiglia avuta in gran pregio. Ma dovremmo noi forse sospettare qui ancora di qualche inganno? Il Fontanini ne mosse dubbio (Dell’Eloq. p. 118) fondato sulla forma medesima de’ caratteri, i quali, a dir vero, anche a me sembrano di tempo assai posteriore. A questa difficoltà altro non risponde il Quadrio, se non che frivole affatto sono le ragioni da dubitarne; risposta tanto facile a darsi , quanto difficile a sostenersi. Ma un’altra difficoltà io vi trovo maggiore assai, benchè solo accennata come cosa dubbiosa dal Fontanini. Ne’ versi poc’anzi recati si asserisce che Federigo I l’anno 1184, a’ 22 di luglio, nel qual giorno cade la festa di S. Maria Maddalena, era in Toscana, e andò a caccia in Mugello. Or egli è certo che l’anno 1184 nel mese di luglio Federigo non fu in Toscana. Egli, celebrata in quell’anno la Pentecoste in Magonza, scese in Italia, ed essendogli andato incontro il pontefice Lucio III, amendue a’ 31 di luglio s’incontrarono in Verona, dove trattenutisi per alcun tempo, Federigo continuò poscia il suo viaggio a Milano, ove entrò a’ 19 di settembre. Tutto ciò può vedersi chiaramente provato da’ moderni esatti scrittori , come dal P. Pagi (Crit, ad Ann. Baron. ad an. 1185), dal Muratori (Ann. et Ital. ad an. 1184), e dal conte. Giulini (Mem, di Mil. t. 7, p. 11). Come dunque potè Federigo essere in Toscana a’ 22 di luglio, mentre non era ancor giunto in Italia? Egli è vero che Giovanni Villani a [p. 537 modifica]QUARTO 307 quest’anno medesimo pone la venuta in Toscana di Federigo (Chron. L 5, c. 12). Ma egli è certo ancora ch’ella dee differirsi all’anno seguente, come il Muratori dimostra e dalle cose già dette, e dalle Cronache antiche di Siena (ad an. 1 185). Nè qui vi ha luogo alla diversa maniera di diverse città italiane nel numerare gli anni; perciocchè o vogliam seguire’ il costume de’ Fiorentini, o il comune d’Italia, nel mese di luglio era per tutti l’anno medesimo. Se poi vogliamo attenerci all’anno pisano, quello che pel comune d’Italia , anzi d’Europa, era l’anno 1185, pei Pisani era 1186, cominciato da’ 25 di marzo, e questo perciò avrebbe dovuto segnarsi, e non il x 184* O1’ questo errore nell’anno che troviam nella lapida, e che non può attribuirsi nè a negligenza di alcun copista , nè a verun’altra fortuita circostanza, non basta egli a destarci qualche sospetto? Il Borghini dice che non si può sospettar d’impostura, poichè la casa Ubaldini non ne abbisogna per provare l’antica sua nobiltà. E io son ben lungi dal sospettare impostura in alcuno de’ personaggi di questa illustre famiglia. Ma talvolta non mancano adulatori che si lusingano di ottener grazia e premio col fingere cotai monumenti. La sperienza di ogni età cel mostra apertamente. Non potrebbesi egli dunque temere che talun di costoro nel secolo xiv volendo recare una gloriosa origine dello stemma degli Ubaldini, e leggendo in Giovanni Villani che l’anno 1184 Federigo fu in Toscana, ne prendesse occasione a scolpire la soprarecata iscrizione, e a fingerla scolpita a que’ tempi; [p. 538 modifica]e che ella fosse credula tale, e perciò ne fosse fatta menzione, come ilBorghini afferma, nella carta dell’anno iqi f? Veggano gli eruditi se queste ragioni sieno bastanti a render dubbiosa la riferita iscrizione, Io certo non so arrendermi aa’affermarla sicuramente legittima. IX. Il Giambullari ragiona (Orig. della lingua fiorent. p. 134) di un cotal Lucio Drusi piquest’epoca sano ch’ei crede vissuto circa l’anno 1170, ee’essere stato il primo tra’ Siciliani che verseggiasse in lingua italiana. Ma io mi lusingo di poter mostrare a suo luogo che non è abbastanza provato che a questi tempi ei vivesse; e quindi da tutto ciò a me pare di poter inferire che non abbiamo alcun monumento per cui possiam persuaderci che in quest’epoca, di cui scriviamo, fosse coltivata la poesia italiana. Quel Ciullo d’Alcamo che vuolsi il più antico fra tutti quelli di cui ci sian rimaste rime, anche seguendo il parer di quelli che gli danno l’antichità maggiore che si possa concedergli, non fiorì che su gli ultimi anni del secolo XII, e non appartiene perciò a questo luogo. Ci basti dunque il fin qui detto dell’origine della volgar poesia, e riserbiamo aa’altra tempo il vederne più certi e pregevoli monumenti.