Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo III/Libro IV/Capo V

Capo V – Filosofia e matematica

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Capo V.

Filosofia e Matematica.

I. Abbiam già scorsi in questo tomo più secoli che per la storia della filosofia e della matematica sono stati voti e sterili totalmente; e [p. 539 modifica]QUARTO 509 già da lungo tempo appena abbiam trovato in Italia a chi si potesse dare con qualche ragione l’illustre e onorevole nome di filosofo. Ma ora a queste scienze ancora comincia a rendersi almeno in parte l’antico lustro, e i loro nomi non sono più per gl’italiani stranieri e barbari, come in addietro. Ne’ tempi più antichi avea la filosofia fatto tra gl’Italiani quel sì felice progresso che nel primo tomo abbiamo osservato, parlando delle due antiche scuole che singolarmente vi fiorirono, la pittagorica e l’Eleatica. I Romani col divolgare i libri di Aristotele, e col recare nelle loro lingue le opinioni e i sistemi de’ più illustri filosofi, aveanle accresciuto nuovo ornamento. Or nel decadimento in cui ella era, gl’italiani parimenti furono i primi (a) (a) L’imparziale sincerità che mi è stata e mi sarà sempre di guida in queste ricerche, mi obbliga a confessare che prima che in Italia cominciarono a rifiorire gli studj tra gli Arabi, i quali già da alcuni secoli coltivavano con ardore la filosofia, alcune parti della matematica, e singolarmente l’astronomia, e inoltre la medicina ed altre scienze. Di fatto i primi esemplari che in questo e nel secol seguente si ebbero delle opere de’ greci filosofi e medici, furono per lo più le traduzioni che fatte ne aveano gli Arabi , e su esse comunemente furono lavorate le prime versioni latine, benchè taluna fin dal secolo XII se ne facesse su gli originali greci, come vedremo nel tomo quarto. Veggasi intorno a ciò l’opera altre volte lodata del ch. abate Andres (Dell’Origine, ec. d’ogni Letteratura , t. 1 , p. 158, ec.) , il quale a ragione si può chiamare P illustratore e il vindice dell’arabica letteratura. Egli si studia ancora di difender gli Arabi dalla taccia che da molti loro si appone , di avere introdotte le scolastiche sottigliezze. E se egli intende di provar solamente che cotali sottigliezze fossero usate assai prima, niuno, io credo, vorrà [p. 540 modifica]54o LIBRO che, per così (lire, la richiamassero a vita, e aprisser la via non solo a’ lor nazionali, ma alle altre nazioni ancora, a scoprir di nuovo quelle medesime verità che i loro antenati aveano parimente illustrate, e a penetrare ancora più oltre nel regno della natura. Questo è ciò che dobbiamo ora esaminare partitamente, ragionando di quelli che con più felice successo coltivaron tra noi questa sorta di studj, o che ne furon maestri ad altre nazioni. II. Abbiam già favellato nel secondo capo di questo libro medesimo di due celebri Italiani, da’ quali singolarmente dee riconoscerla Francia il felice stato a cui ella giunse di questi tempi ne’ sacri studj, cioè di Lanfranco e di S. Anselmo. Nè punto meno dovettero a questi grand’uomini i filosofici studj che fino a quel tempo eransi giaciuti in Francia dimenticati e negletti. Rechiamone il testimonio degli contrastarglielo. Non solo ne5 secoli poco piò antichi di quello di cui parliamo, ma fin da tempi di Seneca crasi quest’abuso introdotto; e parlando di quell’età io ho riferito un passo di questo scrittore (t. 2 , p. 249) j in cui egli per saggio de’ viziosi sofismi che regnavano nelle scuole, reca quello stesso ridicolo sillogismo: Mus syllaba est: syllaba aulcm easeuni non roditi mus ergo cascuni non rodit, che l’abate Andres ha trovato in una lettera di un certo abate Wiboldo scritta a’ tempi di Corrado III (l.cit.p. 166). Non è dunque l’invenzione di tali sciocchezze che si rimprovera agli Arabi, ma il dilatarsi che fecero per mezzo loro in Europa, e l’impadronirsi, per cosi dire, delle scuole. E questo dal medesimo abate Andres non ci si nega; anzi egli confessa che all’introdursi de’ libri arabici s’introdussero ancora e sempre più si diffusero le sottigliezze e le ridicole cavillazioni, (ivi, p. ib’]). [p. 541 modifica]QUARTO 54I «tessi Maurini autori della Storia letteraria di Francia, a cui ninno, io credo, darà la taccia di adulatori degl1 Italiani: Fino (a’ tempi (di Lanfranco e di S. Anselmo, dicono essi (t. 7, p. 131), non si videro tra’ nostri Francesi logici, o dialettici valorosi. La dialettica era secondo la prima sua istituzione l’arte di ragionar giustamente e sodamente, e di arrivare per le vie più sicure allo scoprimento del vero. A ciò non poteasi giugnere senza quelle giuste idee che dipendono dalla cognizione delle cose; ma in questo secolo appena pensavasi ad acquistarle. La dialettica non si faceva consistere che in parole e in leggi, di cui comunemente non sapevasi fare V applicazione... Per rimediare a questi essenziali difetti, S. Anselmo compose il suo trattato del Gramatico, che è un vero trattato di dialettica, in cui egli prende a farci conoscere i due generali oggetti di tutte le nostre idee, la sostanza e la qualità. Con ciò egli ottenne di purgar la filosofia del suo tempo, e di darle qualche grado di perfezione. Le opere filosofiche di Lanfranco, e quelle di Odone che fu poi vescovo di Cambrai, vi contribuirono pure non poco. Per opera di questi tre grandi filosofi si vide risorgere il metodo degli antichi. Così essi; ove però vuolsi avvertire che Odone vescovo di Cambrai fu posteriore di tempo a Lanfranco e a S. Anselmo (V. Hist littér. de la France, t. 9, p. 583, ec.), e che perciò a questi due Italiani deesi il vanto di aver richiamato in Francia il buon gusto, e di aver riaperta la strada allo scoprimento del vero. [p. 542 modifica]54^ LIBRO Ili. Oltre la dialettica, la metafisica ancora fu da essi, per così dire, richiamata in vita, e da S. Anselmo singolarmente fu illustrata per modo, che i più celebri tra’ moderni filosofi non hanno sdegnato di attingere a questo fonte. Mi si permetta di recar per disteso un altro bel passo dei sopraccitati Maurini su questo argomento. Troppo io mi compiaccio, quando posso produrre a onor dell’Italia testimonianze tratte di bocca da que’ medesimi che non ne sono troppo magnifici lodatori. Ciò che a favor della metafisica fece Anselmo (t. 9, p. 454, ec.) fu più ancora di Ciò eh’ei fece per la dialettica. Quandi egli cominciò a risplender nel mondo , appena conoscevasene il nome. Ma egli sì felicemente adoperossi a svilupparne i principj, che ottenne la gloria di ravvivarla. Giunse sì oltre colle sue cognizioni in essa, che le sue scoperte l’han hanfatto credere il miglior metafisico che dopo S. Agostino ci sia vissuto. Il suo Monologo e il suo Proslogio, da cui i begli spiriti del nostro e del passato secolo han tratti de’ lumi onde si son renduti famosi, formano un eccellente e quasi intero trattato di teologia naturale di Dio e delle tre Persone in Dio. Così Anselmo colla sua maniera di ragionare non solo insegnò ai filosofi a sollevarsi sopra la barbarie e le sottigliezze della scuola; ma insegnò lor parimente a contemplare in se stesso F Esser Supremo, e a far uso delle idee innate, e di quel lume naturale che Iddio creatore ha comunicato allo spirito umano, considerando le cose indipendentemente da’ sensi. Ella è in fatti osservazione di molti tra’ moderni scrittori, [p. 543 modifica]QUARTO 543 che la dimostrazione dell’esistenza di Dio tratta dall’idea stessa di un Esser Supremo, della quale credesi autore il Des Cartes, fu tanti secoli prima di lui trovata e posta in luce da S. Anselmo. Io non istancherò i lettori col recare qui i passi di questo grand’uomo, in cui propone e spiega questa dimostrazione 3 ma mi basterà l’appoggiare ciò che io dopo più altri ho asserito, all’autorità di uno de’ più sublimi metafisici di questi ultimi tempi, dico del gran Leibnizio, il quale a S. Anselmo espressamente attribuisce la gloria di questa invenzione. Sunt, dic’egli (vol. 5 Op. p. 570, ed. Genev. 1768), quae ab aliis pro novis inventis venditantur, licet petita a scholasticis, ut illa Cartesii demonstratio Divinae existentiae quae Anselmo cantuariensi inter scholasticae theologiae fundatores habendo debetur. Così accade talvolta che i moderni si faccian belli delle scoperte di antichi autori3 e che queste, che si sarebbon per avventura spregiate e derise quando si fosser credute invenzioni de’ secoli andati, appajan degne di lode quando si veggono apparir sotto il nome d’uomini a’ nostri giorni famosi. Un altro Italiano troviamo al principio del secolo XII professore, per quanto sembra, di filosofia, o almeno di dialettica, in Francia. Perciocchè Landolfo il giovane raccontando per qual maniera Giordano da Clivi fu richiamato dalla Francia a Milano, e fatto poscia arcivescovo di quella chiesa, dice (Hist. Mediol, c. 19): placuit.... revocare Jordanum de Clivi a provincia, quae dicitur Sancti Aegidii (cioè della città di S. Gilles), in qua ipse Jordanus [p. 544 modifica]544 LIBRO legebat lectionem auctorum non divinorum, sed paganorum. Le quali parole sembra appunto che (debban intendersi di scuola filosofica, come di fatto le ha intese il Puricelli (Monum, basil. Ambros. n. 314). IV. Nè solo in Francia, ma in Grecia ancora e alla stessa corte di Costantinopoli, ebbero gl Italiani occasione di dar pruova del loro ingegno e del loro sapere ne’ filosofici studj. Io parlo del celebre Giovanni soprannomato dalla sua patria l’Italiano, che nel secolo xi mise a rumore quella gran capitale, e a sè rivolse gli occhi di tutto il mondo. Anna Comnena, che almeno in parte potè esser testimonio delle cose che nella sua storia ci narra, ragiona di lui lungamente; e io recherò qui in comp odio ciò che ella più ampiamente descrive (Alexias. l. 5). Ella nol nomina che coll’appellazion d’Italiano; ma eli’ ei si chiamasse Giovanni, il raccogliamo da’ codici delle opere da lui scritte, che poscia rammenteremo. Narra ella dunque che Giovanni nato in Italia, ma in qual città ella nol dice, fu ancor fanciullo condotto da suo padre in Sicilia; e che l’unica scuola a cui egli intervenisse, fu il campo militare. Dacchè la Sicilia venne in potere di Giorgio Maniaco , il quale l’anno 1 o43 ribellatosi a Costantino Monomaco si fè proclamare imperadore, Giovanni col padre passò in Lombardia , e quindi , qualunque ragion se ne avesse, recossi a Costantinopoli. Ivi prese egli a coltivare i filosofici studj sotto la disciplina di Michele Psello, uno de’ più dotti uomini di quella età. Ma Giovanni era uomo di tardo ingegno e d’indole [p. 545 modifica]QUARTO 5 45 aspra e<l altera, per cui credendosi di superar tutti in sapere, contro il suo maestro medesimo volgevasi arditamente, e gli facea villanie. Questo è il carattere che Anna fa di questo iìlosofo; nel che però a me sembra che si possa non senza ragion sospettare che l’invidia greca avesse non poca parte. E certo o convien dire che Giovanni non fosse di sì tardo ingegno, come Anna afferma , o che ben rozzi fossero allora i Greci, i quali, come ella stessa soggiugne , eran ripieni d’ammirazione per l’ingegno e pel saper di Giovanni, che usando principalmente della dialettica disputava sovente in pubblico contro lo stesso Psello, e ciò con tal plauso, che benchè il primo vanto si desse dai Greci al Greco, era nondimeno Giovanni avuto in altissima stima, e dall’imperadors Michel Duca e da tutta f augusta famiglia sommamente onorato. Frattanto sorta essendo nel cuor de’ Greci qualche speranza di ricuperare il dominio dell’Italia, Giovanni fu mandato a Durazzo nell’Albania, perchè più d’appresso potesse secondare que’ movimenti che perciò si facevano. Ma Giovanni si condusse per modo , che fu accusato di fellonia all1 imperador Michele; da cui perciò fu spedito chi il cacciasse fuor di Durazzo. Giovanni, avutone avviso, fuggissene a Roma; ed ivi sì destramente si adoperò , che, ottenuto da Michele il perdono, tornò a Costantinopoli, ove gli fu assegnato a sua stanza il monastero detto del Fonte. Avvenne intanto che Niceforo Botoniate avendo l’anno 1078 usurpato l’impero tolto a Michele Duca e a Costantino di lui figliuolo, Michele Tnunoscni, Vol. III. 35 [p. 546 modifica]546 LIBRO Psello fu involto nella loro rovina, e mandato in esilio, e Giovanni fu a lui surrogato nella principal cattedra di filosofia, e nell’onorevole nome di sommo tra tutti i filosofi. \. Prese egli a spiegare allora i libri di Aristotele e di Platone; e benchè nella gramatica e nella eloquenza non fosse troppo versato, le sue dissertazioni ciò non ostante sembravano ingegnose e piene di ogni maniera d’erudizione. Ma ei trionfava singolarmente nel disputare; perciocchè con sì sottili e con sì forti argomenti incalzava e stringeva il suo avversario, che quegli allacciato da ogni parte non poteva in alcun modo schermirsi; e tanto più che il troppo ardente filosofo alla forza delle ragioni aggiugneva quella ancor della mano; e poichè avea costretto a tacere il suo avversario, gli si avventava alla barba, e malmenandola e facendone strazio , troppo crudelmente trionfava del vinto nimico: benchè poscia cambiando tosto il furore in pietà, pregavalo colle lagrime agli occhi a perdonargli la ricevuta ingiuria. Questa sì strana maniera di disputare fu in gran parte cagione eli’ ci non formasse alcun famoso discepolo, e che anzi egli risvegliasse contro di se medesimo l’indegnazione di tutti per modo, che salito all’impero l’anno 1081 Alessio Comneno, Giovanni fu a lui accusato non sol de’ tumulti che colle sue troppo calde contese sollevava nella città, ma anche di erronee e perniciose sentenze ch’ei sosteneva. L’imperadore avendo inutilmente tentato di farlo ravvedere de’ suoi errori in una assemblea di ecclesiastici. commise al patriarca Eustrazio, che privatamente con lui disputando [p. 547 modifica]QUARTO 547 cercasse di convincerlo, e di condurlo a sentimenti migliori. Ma il sottile e scaltro Italiano seppe per tal modo ravvolgere e avviluppare il buon patriarca, che questi dieglisi. vinto, e prese anche egli a sostenere le opinioni medesime di Giovanni. Di che il popolo levossi in tal furore contro Giovanni, che se questi non si fosse nascosto, sarebbe stato dalle alte sue stanze precipitato. Finalmente l’imperadore il costrinse a ritrattare pubblicamente i suoi errori, ch’egli fece ridurre a undici capi. Quali essi fossero , Anna nol dice, ma solo aggiugne che avendo egli di nuovo ardito di spargerli, ed essendo perciò stato scomunicato, tornò per ultimo in senno, e ritrattò le antiche sentenze , negando, die’ ella , il passaggio dell’anime dalt un corpo alt altro, cessando di disprezzare e di condennare il culto delle sacre immagini, e correggendo a norma della dottrina cattolica ciò che intorno alle idee aveva insegnato , e finalmente dando tutti gl’indizj di condennare tutto ciò che contro la Fede avea sostenuto, e mostrandosi ben diverso da quello che avea eccitate sì gran turbolenze. VI. Questo è in breve ciò che Anna racconta di questo filosofo, uomo strano per certo, e a cui dobbiam bramare che niuno mai si assomigli de’ nostri filosofi, ma uomo insieme di molto e acuto ingegno, e avuto, non sol! mentre viveva, ma ancor ne’ secoli susseguenti, in altissima stima. Il che chiaramente si scuopre da’ molti codici che di diverse sue opere ci son rimasti, e che ancor si conservano in molte biblioteche. Tra esse vi sono molte quistioni a [p. 548 modifica]548’’’ LIBRO lui proposte a spiegare, e a cui egli soddisfece scrivendo. Il P. Montfaucon ne cita un codice della biblioteca del Cardinal Mazzarini con questo titolo: Joannis sapientissimi, philosophorum antesignani et nuigistri itali, Quaestiones diversae diversis proponentibus (Bibl. MSS. t. 2, p. 1323, cod. 154). Il quale sembra quel medesimo codice passato poscia nella biblioteca del re di Francia, nel cui Catalogo vedesi registrato (Cat. Codd. MSS. Bibl. reg. t. 2, cod. 2002). Un altro ve ne ha nella imperial biblioteca di Vienna (Lambec. l. 7, p. 1 48). Più altre opere ancora dello stesso Giovanni, scritte singolarmente a interpretazione di alcuni libri di Aristotele , tuttor si conservano nella soprannomata biblioteca del re di Francia (ib. p. 409 cod. 1843), e nella imperiale di Vienna (ib.), in quella di S. Marco in Venezia (Greca D. Marci Bibl. p. 130, cod. 265), e nella Medicea (Cat. Codd. graec. medic, vol. 3, p. 17). Il Lambecio è stato il primo a trattare di questo illustre, ma finallora sconosciuto, filosofo; e dopo lui ne han parlato pure l’Oudin De Script, eccl, vol. 2, p. 760), e il più volte lodato monsignor Gradenigo (Della Letterat. greco-ital. c. 6), il quale ha osservato un errore del ch. Muratori che a Giovanni avea attribuito l’elogio da Anna fatto a Michele Psello; e ha recata insieme una lettera dello stesso autore, in cui con quella modestia che propria è de’ grand’uomini, riconosce e ritratta il suo errore. Lo stesso monsignor Gradenigo sembra maravigliarsi che il Fabricio nella sua Biblioteca latina de’ bassi secoli, e il ch. monsig. Mansi nelle Aggiunte ad essa fatte, [p. 549 modifica]quauto 54g non abbiano di Giovanni fatta menzione alcuna. Ma a me sembra che questi due autori potrebbon rispondere che non vi avea ragione per cui dovesser parlarne; perciocchè essi scrivevan di quelli che hanno scritto latinamente, e tutte le opere di Giovanni, che si conservano nelle biblioteche, sono scritte in greco. VII. Che più? Anche alle Spagne si fè conoscere il valore degl’Italiani nel coltivamento de’ filosofici studj per opera del celebre Gherardo cremonese. E so ben io che non sol gli Spagnuoli pretendono di annoverarlo tra’ loro scrittori, ma che alcuni ancora tra gl’italiani troppo docilmente si arrendono alle ragioni che essi ne adducono. Io però mi lusingo di poter mostrare con qualche evidenza che Gherardo fu veramente cremonese di patria. Sponiam dapprima lo stato della questione, e poscia esaminiam le ragioni che dall’una e dall’altra parte si posson recare. Conservansi in molte biblioteche codici mss. di libri filosofici e medici tradotti dall’arabo da Gherardo. Or da questi codici raccogliesi chiaramente che Gherardo visse assai lungo tempo in Toledo, il che volentieri da noi si concede. Ma in oltre, dove in alcuni di questi codici ei dicesi cremonese, in altri dicesi carmonese, cioè di Carmona città della Spagna; ed ecco l’origine della contesa fra gl’italiani e gli Spagnuoli. Questi non aveano mai pensato a riporre Gherardo nel novero de’ loro scrittori. Niccolò Antonio fu il primo che prendesse a rivendicare alla Spagna un onore ch’egli credette rapitole ingiustamente dagl’italiani (Bibl. hisp. vet. t. a, p. a63). E a confermare la sua Tiraboschi , Voi. III. 35 * vii. Notizie di Gherardo cremonese: questione intorno alla sua pallia. [p. 550 modifica]I Vili. Codici cd autori rlif danno Cremona per patria a tìberardo. vibro opinione di tre argomenti si valse egli principalmente; de’ codici e «.lolle edizioni nelle quali ei dicesi carmonese, non cremonese; degli autori che il dicono natìo di Carmona; e del lungo soggiorno da lui fatto in I oledo. Jl dottor Francesco Arisi al contrario sostenne ch’ei fosse di patria cremonese (Cremona liter. t. 1 , p. a(56), appoggiato a non pochi codici che con tal nome il chiamano; benchè nel fissarne l’età andasse troppo lungi dal vero, credendol vissuto nel secolo xv. Gli autori del Giornale de’ Letterati d’Italia parlando dell’opera dell’Arisi confutarono questo suo sentimento (t. 10, p. 286), e ripeterono gli argomenti dall’Antonio addotti a provare ch’egli era spagnuolo; e perchè l’Arisi pubblicò una sua lettera in data de’ i;*> febbraio del 1713, a difesa di questa e di altre sue opinioni combattute da’ giornalisti, questi tornarono all’assalto, e ribatteron di nuovo le ragioni da lui arrecate (t. 15, p. 207). Io rispetto il parere di questi dotti scrittori. Ma penso ciò non ostante di poter francamente affermare che l’opinione dell’Arisi e de’ Cremonesi è assai meglio fondata che non la loro e quella degli scrittori spagnuoli. Entriamo brevemente all’esame di questo punto. Vili. E in primo luogo è certo, come confessano anche gli avversarj, che in molti codici e in molte edizioni Gherardo dicesi cremonese. Io non ne farò qui l’enumerazione che può vedersi presso l’Arisi. Solo due altre edizioni ne aggiugnerò additatemi dall’eruditissimo dottor Giovanni Calvi professor primario di medicina nell’Università di Pisa, una del [p. 551 modifica]QUARTO 551 fatta in Venezia, l’altra in Pavia nel 1510, nelle quali Gherardo è chiamato cremonese. Ma, come dicono i giornalisti, in altre edizioni e in altri codici leggesi chermonese, o carmonese. Questo potrebbe render dubbiosa l’autorità degli altri codici, se non vedessimo che presso gli scrittori de’ bassi secoli chermonese scrivesi talvolta in vece di cremonese, come presso Giovanni Villani (Croniche l. 6, c. 73). Ma concedasi ancora che que’ che dicono Gherardo chermonese, intendesser Carmona città di Spagna. Chi sono essi finalmente? Non v’ha alcuno che sia più antico del secolo xvi. E l’autorità di tali scrittori debb’ella essere di sì gran peso trattandosi di un autore del secolo XII? Confessano anche i giornalisti che questo non è argomento di molta forza. Egli è vero che anche gli argomenti che dall’Arisi si adducono, non sono di gran valore. Ma un altro ne abbiamo, a cui non veggo qual risposta si possa fare dagli avversarj. Io non parlo di un passo di Guido Bonalli (/litro* noni. par. 2, c. 6) famoso astrologo del XIII secolo, in cui egli fa menzion di Gherardo; perciocchè esso non appartiene a quello di cui ora parliamo, ma ad un altro Gherardo da Sabbioneta, che fu contemporaneo di Guido, come a suo luogo vedremo. Un altro scrittore vissuto poco oltre ad un secolo dopo il primo Gherardo ci assicura ch’ei fu cremonese, e quasi ei prevedesse che si sarebbe forse sospettato di equivoco, vi aggiugne ancora lombardo. Egli è questi Francesco Pipino domenicano, il quale, come provasi dal Muratori (Script. Rer. ital. vol. 7, p. 662), fiorì al principio del XV secolo. Or egli [p. 552 modifica]55a unno nella sua Cronaca pubblicata dal medesimo Muratori (ib. vol. 9, p. 587") parla e fa grandi elogi del nostro Gherardo, ne esprime la patria e l’età, ne accenna gli studj e i libri scritti, e ne fissa la morte, Rechiam per disteso un tal passo, giacchè questi è il solo tra gli antichi scrittori che ci abbia data di lui esatta notizia. Gerardus lombardus (Antiq. itat. A3, p. 937), natione cremonensis, magnus linguae translator arabicae imperante Friderico, anno scilicet Dòmini mclxxx ni qui fuit imperii ejusdem Friderici XXXIV, vita defungitur, septuaginta tres annos natus habens. Hic tam in dialectica quam geometria, et tam in philosophia quam in physica, et nonnullis aliis scientiis multa transtulit Qui licet famae gloriam spreverit, favorabiles laudes et novas saeculi pompas fugerit, nomenque suum nubes et inania captando noluerit dilatari, fructus tamen operum ejus per secula redolens probitatem ipsius enunciat atque declarat. Is etiam, quum bonis floreret temporalibus, bonorum tamen affluentia vel absentia ejus animum nec esc tuli t, nec depressit; sed viriliter duplicem occursum fortunae patiens, semper in eodem statu constantiae permanebat. Carnis desideriis inimicando solis spiritualibus adhaerebat. Cunctis etiam praesentibus atque futuris prodesse laborabat, non immemor ipsius Ptolemaei: cum fini appropinquas, bonum cum augmento operare. Et quum ab ipsis infantiae cunabulis in gremiis philosophiae educatus esset, et ad cujuslibet artis notitiam secundum Latinorum Studium pervenisset, amore tamen Almagesti, quem apud Latino s minime reperiit, Toletam perrexit, ubi [p. 553 modifica]QUARTO 553 libros cujuslibet facultatis in arabico cernens, et Latinorum penuriae de ipsis, quam noverat, miserans, amore transferendi, linguam edidicit arabicam; et sic de utraque, de scientia videlicet et idiomate, confisus, de quamplurium facultatum libris quoscumque voluit elegantiores latinitati, tamquam dilectae haeredi, planius atque intelligibilius, quo ei pollere fuit, usque ad finem vitae transmittere non cessavit. Inter cetera, quae transtulit, habentur in arte tam physicae quam aliarum facultatum libri septuaginta sex, inter quos Avicennae et Almagesti Ptolomaei translatio solemnis habetur. Sepultus est Cremonae in monasterio sanctae Luciae, ubi suorum librorum bibliothecam reliquit, ejus praeclari ingenii specimen sempiternum. Questo passo è sembrato sì convincente e sì autorevole al Muratori, che ha creduto non potersi più muovere dubbio alcuno sulla patria di Gherardo (l. 1, c. 16). Noi abbiamo dunque un autore antico che, senza lasciar luogo alcuno a sospettare di equivoco, dice cremonese Gherardo. Possono gli avversarj per avventura produrre autorità somiglianti? IX. Essi credono di poterlo; e i giornalisti producono , come argomento invincibile a difesa della loro opinione, la seguente iscrizione in lode di Gherardo tratta da un codice della libreria Vaticana, che, com’essi dicono, dalla qualità del carattere si giudica scritto sicuramente innanzi al 1400. Gerardus nostri fons, lux, et regula Cleri, Actor consilii, spes et solamen egeni, Voto carnali fuit hostis spirituali, [p. 554 modifica]554 LIBRO Applniuletis liotninis spleni lor fuit inlerioris. Fncta viri vitaui studio fiorente perbcnnant. A ivenlein fumimi litui, ipios transtulit, ornnnt. Iluiie ’ine consilio genuisse Cremona superbit, Tolecti vixit, Tolectum reddidit astris. Ma io chieggo in primo luogo a’ dottissimi giornalisti, a chi si debba più fede, a un’iscrizione di cui non si sa l’autore, e di cui forse anche l’età non è così antica, com’essi pensano; o a uno scrittore vissuto al principio del XIV secolo? In qualunque quistione in cui essi non avesser già preso partito, io son certo che anteporrebbono di gran lunga l’autorità di un antico scrittore a quella della più recente iscrizione. Ma noi non abbisogniamo di tanto. Qual è il senso di quelle parole: hunc sine consilio genuisse Cremona superbit? Essi così le traducono: senza alcuna ragione Cremona si arroga la gloria di averlo dato alla luce. Nè a tal traduzione io mi oppongo, ma due sensi possono avere queste parole; cioè in primo luogo che Cremona senza ragione si arroga tal gloria. perchè non in Cremona ei nacque, ma sì in Ispagna; in secondo luogo che Cremona senza ragione si arroga tal gloria, perchè quantunque Gherardo ivi nascesse ¿ del suo saper nondimeno, e quindi della sua gloria, ei fu debitore non a Cremona, ma a Toledo, ove visse sì lungamente. Or come provano i giornalisti , che nel primo e non nel secondo senso si debbano intendere tai parole? Io anzi affermo che non si debbono nè si possono intendere che nel secondo. In fatti riflettasi. Che è ciò che si soggiugne nell’iscrizione per mostrar che [p. 555 modifica]qvahto « 555 Cremona non ha ragione a vantarsi di sì grand’uomo? Tolecti vixit. Ei visse in Toledo. Olio domando. Se Gherardo fosse nato in Carmona. per qual ragione) l’autore dell’iscrizione non dircelo chiaramente? Perchè non iscrivere: Carmonae est genitus? Perchè alla sua nascita in Cremona contrapporre non già la nascita in Carmona, ma la vita menata in Toledo? Non è egli evidente che l’autore stesso della iscrizione era persuaso che Gherardo era veramente cremonese di patria, e che negli allegati versi egli volle sol dire che Cremona non avea ad insuperbirsi per averlo dato alla luce; perciocchè, benchè veramente fosse così, maggior ragione però d’insuperbirsi arca Toledo, ove egli era sempre vissuto? Nell’iscrizione si aggiugne che ivi ancora era morto; nel che l’autor di essa si oppone a Francesco Pipino che il dice tornato a Cremona , ed ivi morto; e in questo ancora a me pare che l’autorità di questo scrittore debba antiporsi a quella dell’iscrizione. Ma ancorchè pur forse vero che Gherardo morisse in Toledo, ciò non gioverebbe a combattere l’opinione intorno alla sua patria. Abbiam dunque un antico Scrittore che il dice cremonese e lombardo, abbiamo più antichi codici ne’ quali ancora egli appellasi cremonese: non vi ha al contrario scrittore antico che dicalo carmonese; ne’ codici ne’ quali gli si dà tal patria, intendesi facilmente come possa essere ciò avvenuto; l’allegata iscrizion non pruova punto a favore di tal opinione. Dunque egli è, a parer mio, evidente che cremonese e non carmonese fu il nostro Gherardo; e perciò Cremona si può arrogare la gloria, [p. 556 modifica]556 LIBRO se non degli studi c del saper di Gherardo, eh’ei dovette verisimilinente in gran parte a Toledo, almen della sua nascita, il che pure non è picciolo pregio (*). X. I primi studj nondimeno furon da Gherardo fatti in Italia, come abbiam udito affermarsi da Francesco Pipino; ma avendo egli osservato che assai rari erano in queste provincie i libri degli antichi filosofi e matematici, e sapendo che presso gli Arabi delle Spagne ve n’avea gran copia, recossi a Toledo, e appresa la lingua arabica si accinse al faticoso esercizio di recare da quella lingua nella latina quanti potè di tai libri appartenenti o alla filosofia, o alla medicina. Lo stesso storico dice che 76 furono i libri di queste materie da Gherardo (*) Ad avvalorar le ragioni colle quali io ho provato che Gherardo fu cremonese , c non carnionesc, come ha preteso di provare il sig. ab. Lampillas (Sag. della Letter. spagli. I. 1, p. 1^7) si aggiungono i codici delle versioni da esso fatte, che si conservano nella Laurenziana in Firenze, e che sono stati di fresco prodotti nel suo diligente cd esatto Catalogo dal eh. sig. canonico Bandini (Cai. Godei, mss. latin, voi. 3, p. 471 e,,;.) ove egli sempre è detto cremonese; ma più ancora clic 1 codici, giova a provailo una nota al fine d’uno di essi aggiunta, che è la seguente: F.xplicil Liber Divisiotuim translaius a Magistro G. Cromonemi de Arabico in Latinum in Civitate Toletana, postea oblatus Cremonam a Magistro P. jam dicti Magìslri G. nepote in Ecclesia S. Lucine le Cremona , patet multls eurn petentibus (ib. p. 48). Questo documento a me par che tronchi del tutto questa contesa, e che faccia conoscere che l’abate Lampillas potea risparmiarsi la pena d’impiegar quindici pagine per provare con inutili sottigliezze che Gherardo fu spagnuolo. [p. 557 modifica]tradotti in latino, e là singolarmente menzione delle opere di Avicenna e dell’Almagesto di Tolomeo, il quale dal greco dovea essere stato recato in arabo. Molte di cotai traduzioni, alcune delle quali sono state date alla luce, si annoverano dall’Antonio e dall’Arisi da noi poc’anzi citati, e dal Fabricio (Bibl. lat. med. et inf. aet. t. 3 , p. 39), ma più diligentemente di tutti dal Marchand (Dit. hist art. Gerard, de Sabionetta), il quale, benchè col voler recare i sentimenti di tutti i moderni intorno a Gherardo abbia piuttosto confuse che rischiarate le cose, in ciò nondimeno che appartiene alle opere, ne ha parlato con molta esattezza. Molte pure se ne veggon citate ne’ manoscritti della.biblioteca del re di Francia (Cat. MSS. Latin. Bibl. reg. vol. 4)• Abbiamo innoltre alcune opere astronomiche e alcune mediche sotto il nome di Gherardo cremonese; ma le astronomiche più probabilmente debbonsi attribuire al secondo Gherardo, di cui favelleremo nel tomo seguente; perciocchè in fatti veggiamo che nell’elogio poc’anzi riferito del primo, si parla bensì delle versioni da lui fatte dei libri arabici, ma di opere da lui composte non si fa cenno, e sembra che non si sarebbe taciuta almen la Teorica dei Pianeti, che fu per molto tempo sì celebre. Le sole versioni però a cui egli si accinse, ci mostrano che Gherardo fu uno de’ più dotti e de’ più laboriosi uomini del suo tempo. Alcuni pongono nell’ xi secolo un altro astronomo, cioè Campano novarese; ma noi ci riserberemo a parlarne nel secolo XIII, al qual tempo solo egli fiorì, come allora dimostreremo. [p. 558 modifica]558 LIBRO XI. In tal maniera gl’Italiani quasi ad ogni - parte del mondo davano in questi tempi lumi; uose pruove del loro sapere, e giovavano a dissipare le tenebre che l’aveano già da tanti secoli ingombrato. Dobbiam però confessare che i loro studj in questa parte furon più giovevoli alle straniere nazioni che alla comune lor patria; di che voglionsi incolpare i tumulti e gli sconvolgimenti a cui l’Italia era allora soggetta , come nel primo capo di questo libro abbiam osservato; i quali agli uomini amanti delle lettere e dell’arti suggerivano il pensiero di andarsene a ricercare altrove più tranquillo e più opportuno soggiorno. Nondimeno in Italia ancora non fu la filosofia e la matematica interamente dimenticata. Certo in Bologna, prima ancora che lo studio delle leggi vi s’introducesse , era già introdotto quello della filosofia e della matematica, come mostrerem chiaramente , ove trattando della giurisprudenza svolgeremo ciò che appartiene all’origine di quella famosa Università. In Parma ancora doveano cotali studj essere in qualche pregio; perciocché S. Pier Damiano racconta che un certo Ugone cherico di quella chiesa, congiungendo l’ambizione allo studio, erasi provveduto di un astrolabio di fino argento (l. 6, ep. 17), dal che veggiamo che l’astronomia ancora coltivavasi allora, almeno da alcuni. Ma sopra tutti in tali studj si rendettero illustri alcuni monaci casinesi. Quell’Alfano arcivescovo di Salerno primo di questo nome, e già monaco di quel monastero, di cui abbiamo altrove parlato, tra le molte opere da lui composte , e rammentate [p. 559 modifica]QUARTO 55y da Pietro Diacono {De V\iris ili. Casin. e. uj) e dal canonico Mari, alcune ancora aveane scritte eppartenenti a filosofia, e un libro singolarmente intorno alla unione dell’anima col corpo. Il celebre Costantino africano, di cui più a lungo’ parleremo nel capo seguente, oltre i molti libri di medicina, alcuni filosofici ancora aveane composti, de’ quali parla lo stesso Pietro Diacono (ib. c. 23). Molte opere ancora egli accenna (ib. c. 16) di Pandolfo di Capova, le quali versano singolarmente sull’astronomia adattata agli usi ecclesiastici per la celebrazion della Pasqua, per la divisione delle stagioni, e per la cronologia della vita e della morte del Divin Redentore. Alcune di esse, come attesta il canonico Mari (in not. ad. h. l.), conservavansi ancora nello scorso secolo manoscritte nella biblioteca di Monte Casino. Un altro coltivatore dell1 astronomia al principio dell1 xi secolo sembra che debba qui annoverarsi , cioè Strozzo Strozzi. Lorenzo di Filippo Strozzi nelle Vite degli Uomini illustri della sua famiglia riportate dal ch. sig. abate Ximenes (Introduz. al Gnomone fiorent. p. 17, ec.) racconta ebe disfacendosi il pavimento di S. Giovanni in Firenze l1 anno 1351 fu trovato dalla banda di levante un sepolcro di Strozzo Strozzi grande astrologo e condottiero dell1 esercito fiorentino , morto 1’anno 1 o 12. Or osserva il suddetto abate Ximenes che, il luogo indicato di questo sepolcro corrisponde appunto al luogo ove tuttora vedesi il segno solstiziale estivo di S. Giovanni vicino alla porta orientale che guarda la facciata della metropolitana, il qual segno [p. 560 modifica]56o LIBRO è descritto da Giovanni Villani che parla per antiche ricordanze (Croniche, t. 1. c. 9). Quindi riflettendo all’antichità di esso, che poteva ben essere anteriore al Villani di tre secoli, all’esser lodato lo Strozzi come valente astrologo, e all essere stato sepolto presso il segno medesimo , ei ne raccoglie con congettura a mio parere molto probabile, che fosse lo Strozzi l’autore dell’indicato segno, la cui descrizione si può vedere presso il medesimo scrittore ». E ciò basti aver detto di cotali autori, de’ quali non avendo noi tra le mani opera alcuna, non possiamo accertare qual fosse il lor valore ne’ filosofici e ne’ matematici studi. XII. Più diligente e più esatta ricerca da noi richiede il celebre Guido d’Arezzo pe’ vantaggi ch’egli recò, e per la perfezione che aggiunse a una delle parti della matematica, cioè alla musica. Di lui dopo più altri scrittori hanno con singolar diligenza trattato i dottissimi scrittori degli Annali camaldolesi, cioè i PP. Mittarelli e Costadoni (Ann. camald. t. 2, p. 42, ec.), i quali però saggiamente riflettono essere assai oscure ed incerte le notizie di ciò che a lui appartiene; perciocchè, se se ne traggan due lettere da lui scritte, una a Michele monaco nel monastero della Pomposa, l’altra a Teodaldo vescovo d’Arezzo, le quali.prima dal Baronio (Ann. eccl. ad an. 1022), poscia dal Mabillon (Ann. Bened. t. ad an. 1026), e finalmente da’ suddetti Annalisti (App. ad t. 2, p. 4, ec.) sono state date alla luce, e nelle quali ei ragiona di se medesimo e delle sue vicende, appena troviamo di lui presso gli [p. 561 modifica]QUARTO 56l antichi scrittori notizia alcuna (a). Cli’ ei fosse natio di Arezzo, è cosa certa pel testimonio di Sigeberto (in Chron. ad an. 1028), e di quanti han fatta di lui menzione, Ch’ei fosse monaco, è parimente cosa certissima, e da lui stesso indicata nelle mentovate sue lettere. Ma non è certo ugualmente in qual monastero ei vivesse. La comune opinione il fa monaco della Pomposa; ma agli annalisti camaldolesi è sembrato che ciò non provisi abbastanza; ed essi credono che per qualche tempo ei vivesse nel lor monastero di Santa Croce di Fonte Avellana , e forse ancora nel loro eremo presso Arezzo. Le ragioni che a pruova del lor sentimento da essi si adducono, sono singolarmente il nome che Guido nella lettera al monaco Michele dà a se sLesso, chiamandosi uomo alpestre, il che, dicono essi, ben si conviene al monastero di Fonte Avellana posto sull’Alpi, non a quello della Pomposa; l’immagine del medesimo Guido, che vedeasi fin dal principio dello scorso secolo, e vedesi anche al presente nel refettorio del monastero di Fonte Avellana; e finalmente il trovarsi in una carta nominato un (17) Di Guido d’Arezzo, e del nuovo metodo d’insegnare la musica da lui introdotto, ha poscia lungamente ed esattamente parlato il P. Lettor D. Placido Federici monaco casinese nel tomo primo della sua Storia del monastero della Pomposa, la quale ci spiace di vedere interrotta per l’immatura morte del dotto autore. Ed egli ancora ha stesamente confutate le ragioni dagli Annalisti camaldolesi recate a provare che Guido fosse monaco nel monastero dell’Avellana (Rer. Pompos. Ili st. I. 1 , p. 296, 317). TlRUlOSCH!, Voi III. 36 [p. 562 modifica]56a libro Guido eremita camaldolese presso Arezzo l’anno 1033. Ma, a dir vero, a me pare che troppo più convincenti sian le ragioni che pruovano pel monastero della Pomposa, che non le arrecate dagli eruditissimi annalisti in difesa della lor opinione. Esaminiamole brevemente, e supponiam prima ciò che gli annalisti stessi confessano, che il monaco Michele, a cui è scritta una delle lettere di Guido, era monaco della Pomposa. Ciò presupposto, a me sembra evidente che anche Guido appartenesse al monastero medesimo. Egli così comincia la lettera: Beatissimo atque dulcissimo frati M. G. (Michaeli Guido) per anfractus multos dejectus et anctus. Il titolo di fratello non è spregievole congettura a pensare che amendue fossero stati nello stesso monastero allevati. Ma ciò non basta. Dalla lettera medesima raccogliesi chiaramente, s’io non m’inganno, che Michele erasi adoperato insiem con Guido nell1 istruire i giovani nella musica, e che la novità del metodo da essi introdotto avea contro amendue eccitati molti invidiosi e nemici , e che per opera loro Guido era stato costretto a partirsi dal monastero, e Michele vi era bensì tuttora, ma travagliato ed afflitto, Aut dura sunt tempora, continua Guido, aut divinae dispositionis obscura discrimina, dum et veritatem fallacia et charitatem persaepe conculcet invidia, quae nostri Ordinis vix deserit sanctitatem, ec. Quelle parole nostri Ordinis non sembran esse indicar chiaramente che professavano amendue un comune istituto? Inde est, siegue a dire, quod me vides prolixis finibus exulatum, ac te [p. 563 modifica]QUARTO 563 ipsurn, ne vel respirare quidem possis, invidoru/ii Uiqueis suJJocalu.ni. Ecco per qual maniera erano amendue oggetto d’invidia e di persecuzione. Ma per qual Ragione erano essi perseguitati? Perchè egli a Michele, e poscia amendue insieme ad altri, un nuovo e assai più facile metodo aveano insegnato per apprendere il canto: Unde ego, inspirante Domino charitatem, non solum tibix sed et aliis quibuscumque potui summa cum devotione ac sollicitudine a Deo mihi indignissimo datam contuli gratiam, ut quia ego et omnes ante me summa cum difficultate ecclesiasticos cantus didicimus, ipsos posteri summa cum facilitate discentes, mi tu et ti di et reliquis adjutoribus meis aeternam apportent salutem, ec. Si può egli ancor dubitare che Michele non fosse il primo discepolo nell’apprendere, e poscia il primo compagno di Guido nell’insegnare il nuovo metodo del canto, e che perciò Guido ancor non vivesse nel monastero medesimo in cui vivea Michele, cioè in quello della Pomposa? Quindi lo esorta a sperare che cessi presto la fiera burrasca contro di essi eccitata, e gli racconta che il pontefice Giovanni che allor sedeva sulla cattedra di S. Pietro, cioè Giovanni XIX detto da altri XX, che fu papa dall’anno ioa4 fino al 1033 (perciocchè di Giovanni ragiona Guido in questa lettera e non di Benedetto VIII, come ha mostrato il Mabillon confutando l’opinione del Cardinal Baronio), avendo udito del maraviglioso profitto e della singolare facilità con cui i fanciulli usando del metodo di Guido apprendevano il canto, tre messi aveagli inviati, [p. 564 modifica]564 LIBRO perchè l’invitassero ad andarsene a Roma; ch’egli perciò recatosi innanzi al pontefice, questi avea voluto farne in se stesso la pruova, e con sua gran maraviglia avea subitamente appreso a cantare un versetto; che essendo egli frattanto caduto infermo, perchè il caldo estivo di Roma a lui uomo alpestre era troppo nocivo, avea ottenuto dal papa di potersene andare, ma a patto di farvi ritorno al venire del verno a fini d’istruire quel clero nel canto. Questo è in breve ciò ch’egli lungamente racconta. Ma ciò che segue, dee qui essere riferito distesamente. Post paucos dehinc dies patrem v est rum atqcf. meum domnum Guidonem PP. (Pomposianum) abatem ut patrem animae videre cupiens visitavi, qui et ipse vir perspicacia in genii nostrum antiphonarium ut vidit, extemplo probavit, nostrisque aemulis se quondam consensisse , poenituit; et ut Pomposiam veni t, veniam postulavit, suadens mihi monaco esse monasteria episcopatibus praeferenda, maxime Pomposiae., ec. Or qui noi veggiamo che Guido d’Arezzo chiama Guido abate della Pomposa padre di Michele ugualmente che suo; che gli dà il titolo di padre della sua anima; che l’abate Guido confessò di essersi lasciato prevenire da’ nimici di Guido d‘Arezzo, e che mvitollo perciò a venirsene al monastero medesimo. E tutte queste espressioni non ci sono esse un evidente argomento a conchiuderne che in quel monastero avea prima vissuto Guido , e che poscia per le persecuzioni contro lui eccitate e per la sinistra prevenzione del medesimo abate, erane uscito? Ma, dicono i dotti [p. 565 modifica]QtJABTO 565 annalisti camaldolesi, se Guido fosse stato monaco della Pomposa, l’abate non l’avrebbe già invitato e pregato a recarvisi, ma usando del suo diritto lo avrebbe con autorità richiamato. E se egli noi fosse stato, ripiglio io, come avrebbe potuto Guido d’Arezzo istruire innanzi a tutti Michele e gli altri monaci della Pomposa nel canto? come avrebbe potuto chiamar Michele suo fratello, suo l’Ordine in cui vivea Michele, e suo padre l’abate Guido? e come avrebbe potuto questi lasciarsi sedurre da’ nimici di lui, e con essi unirsi a travagliarlo? Per altra parte, benchè l’abate Guido potesse usare del suo diritto , trattandosi però di un uomo che da più vescovi e dal papa medesimo era invitato a starsi con loro, egli avrà amato meglio di dolcemente allettarlo a far ritorno all’antico suo monastero, Egli in fatti determinossi a ciò fare, come siegue a scrivere al monaco Michele, a cui soggiugne: Tanti itaque patris orationibus flexus, et praeceptis obediens, prius, auxiliante Domino, volo hoc opere tantum et tale monasterium illustrare, meque monachum monachis praestare; cum praesertim simoniaca haeresi modo prope cunctis damnatis episcopis-timeam in aliquo communicari. Sed quia ad praesens venire non possum, interim tibi de inveniendo cantu optimum dirigo argumentum, nuper nobis a Domino do.tum, et. utilissimum comprobatum. Ed è verisimile che poscia vi si recasse. Ei finalmente conchiude la lettera pregando Michele a salutare in suo nome Martinum priorem sacrae congregationis, nostri inique maximum adjutorem... fratrem quoque [p. 566 modifica]566 LIBRO Petrum... quia nostro lacte nutritus , ec.; le quali parole ancora sono, come ognun vede, un altro forte argomento a conchiudere che Guido era già stato monaco nella Pomposa. XIII. Da tutto ciò a me par che raccolgasi con qualche evidenza che Guido era stato in addietro monaco nel monastero dalla Pomposa; che il nuovo metodo da lui ivi trovato, e cominciato ad usare nell’insegnare il canto, avea destata contro di lui l’invidia di molti; che lo stesso suo abate Guido lasciatosi trascinar dal torrente avea preso a dargli molestia; ch’egli perciò uscito dal monastero avea preso ad insegnare il canto al clero di alcune chiese, e che singolarmente era stato perciò chiamato da Teodaldo vescovo d’Arezzo, il quale tenne quella sede dall’an 1023 fino al 1037, e a cui è indirizzata la seconda lettera di Guido, colla quale gli offre il suo Micrologo, di cui or ora ragioneremo; che fu poscia chiamato a Roma dal pontefice Giovanni XIX, e che ivi abbattutosi nell’antico suo abate, fu da lui invitato a tornarsene al suo monastero, il che egli avea risoluto di fare, e come in fatti è probabile che facesse. Tutta questa serie di fatti’ si offre, per quanto a me pare , da se medesima a chiunque attentamente considera la lettera sopraccennata. Le ragioni poi, che dagli eruditissimi annalisti si recano a pruova del lor sentimento, a me non sembra che abbiamo quella forza ch’essi vi riconoscono. Guido si chiama uomo alpestre; ma ciò non pruova ch’ei vivesse in un monastero posto fra l’Alpi. Egli era nato in Arezzo che ne è alle falde; e ciò [p. 567 modifica]QUARTO ’ 567 polca bastare perchè ei si chiamasse alpestre, e perchè essendo nato in tal clima provasse dannosi gli estivi ardori romani. L’immagine che di lui vedesi nel refettorio di Fonte Avellana, converrebbe che fosse non poco antica, perchè se ne potesse trarre argomento a provarlo vissuto in quel monastero; ma ciò nè si pruova, nè si asserisce dagli annalisti camaldolesi. Finalmente il trovarsi un Guido nell’eremo camaldolese presso Arezzo a questi tempi medesimi, non dee sembrare agli annalisti medesimi argomento di gran valore, poichè essi stessi riflettono che molti monaci a questi tempi vivevano di tal nome. L’autorità nondimeno di così dotti scrittori è presso me troppo grande, perchè io mi ardisca di tacciare apertamente di falsa l’opinion loro. Io propongo i dubbj che intorno a ciò mi si offrono, e le ragioni per cui l’opposto parere mi pare assai più probabile; ma sarò sempre pronto a cambiar sentimento, quando mi si faccia conoscere di avere errato. XIV. Dopo aver così rischiarato, quanto è stato possile, ciò che appartiene alla vita del nostro Guido, rimane a vedere ciò ch’egli a pro della musica abbia operato, e quai libri abbia scritto su tale argomento. Questi non sono mai stati dati alla luce, come tra poco diremo, e perciò a conoscere ciò eli’ egli ha aggiunto di perfezione a quest’arte, convien osservare ciò che ne dice egli stesso nelle lettere sopraccennate, e ciò che ne dicono gli scrittori a lui più vicini, e ciò che ne raccontano quelli che hanno potuto leggere l’opera stessa di Guido. Egli non ci spiega abbastanza quali [p. 568 modifica]568 LIBRO fosser le regole da lui trovate per apprender la musica. Solo ei dice nella lettera a Michele monaco della Pomposa , che mentre in addietro appena bastava lo studio di dieci anni per imparare imperfettamente il canto, egli in un anno solo, o in due al più insegnavalo: Nam sì illi pro suis apud Dominum devotissime intercedunt magistris, qui hactenus ab eis vix decennio cantandi imperfectam scieniiam causi qui potuerunt, quid putas nobis pro nostris adjutoribus fiet qui annali spatio, aut, si multum , biennio perfectum cantorem e/Jicimus? Rammenta ivi ancora un antifonario eli egli avea scritto, e a cui avea aggiunte le regole per ben cantare; e finalmente accenna una nuova maniera più recentemente da sè scoperta per trovare un canto non conosciuto: interim tibi de inveniendo ignoto cantu optimum dirigo argumentum, nuper nobis a Domino datum et utilissimum comprobatum. Somiglianti generali espressioni egli usa nell1 altra lettera a Teodaldo vescovo d’Arezzo, a cui indirizza il suo Micrologo, in cui egli dice che avea seguita una via diversa da quella che i filosofi avean finallora tenuta: Itaque... offero sollertissimae paternitati tuae musicae artis regulas quanto lucidius et brevius potui explicatas philosophorum neque eadem via ad plenum, neque eorum insistendo vestigiis. Così egli ci lascia incerti qual fosse veramente il metodo da lui trovato per apprendere con assai maggiore facilità il canto. Più chiaramente favellane Sigeberto, scrittore vissuto nel medesimo secolo di Guido, il quale dice (in Chron. ad an. 1028; et de Script. [p. 569 modifica]QUARTO 56») eccl. c. 1*44) C1|C per-mezzo delle regole da lui trovate più facilmente s’apprende la musica, che colla voce di alcun maestro, o coll’uso di qualche sia stromento: dummodo sex litteris vel syllabis modulatim appositis ad sex voces, quas solas regulariter musica recipit; hisque vocibus per flexuras digitorum laevae manus disti rie tis, per integrum diapason se se oculis et auribus ingerunt intentae et remissae elevationes vel depositiones earundum vocum. Le quali parole furon poscia copiate e ripetute da Vincenzo Bellovacese (Speculum historiale. l. 25, c. 14)- Di Guido fa menzione ancor Donizone scrittore di questo medesimo tempo, ove parlando del vescovo Teodaldo così dice: Musica seu cantus istum laudare Tedaldum Non cessant semper; renovantur eo faciente: Micrologum iiluuin siili dietat Guido perii us , IMusicus et monachus, nec non hej-cmita bcandus. Vii. Malfalli, c. 5. Ma tutte queste parole non bastano a darci una chiara idea di ciò che Guido facesse a perfezionare la musica. Convien dunque ricorrere all’opera stessa di Guido, che egli intitolò Micrologo, e che divise in due libri, uno de’ quali egli scrisse in prosa, l’altro in assai liberi versi jambi. Essa, come già ho detto, non è mai stata data alla luce, e solo se ne conservano pochi codici mss. in alcune biblioteche (V. Ondi a de Script, eccl. t. 2, p. 600: Mazzuch. Script. ital. t. 1, par. 2, p. 1007). Niuno di questi ho io veduto, nè posso perciò favellarne che cogli altrui sentimenti; e questi ancora, se io volessi qui riportarli distesamente, occuperebbono non [p. 570 modifica]5^0 LIBRO piccola parte di questo libro. Chi volesse, dice l’ab. Quadrio (Stor, della Poes. t. 2, p. 704), gli accidenti tutti narrare che furono nella musica da Guido e dagli altri poi osservati, avrebbe da comporre perciò unicamente un intero volume. IN è io credo che i miei lettol i vedrebbono qui con piacere una lunga dissertazione piena per ogni parte di quelle parolette gentili, diapason, disdiapason, disdiapasondiatasseron, e somiglianti. A me dunque basti il riflettere che Guido non solo fu l’inventore delle note musicali che anche al presente sono in uso, delle quali egli prese l’appellazione, come è noto, dal principio dell’inno Ulqueant laocis, ec.’, ma un nuovo sistema di musica formò ancora, e nuove divisioni introdusse, e l1 uso delle linee parallele distinte e contrassegnate da punti; i quai nuovi ritrovamenti furono con sommo plauso allor ricevuti, e seguiti per lungo tempo (35). Di (17) 11 sig. abate Arteaga scema alquanto di quelle lodi che da molti scrittori si danno a Guido (Rivoluz. del Teat. music, ital. t. 1 , p. 106, ec. ed. ven.). Egli afferma che i suoi meriti principali sono d’aver migliorata V arte del cantare, ampliata la stromentale, gittati i fondamenti del contrappunto, e agevolata la via a imparar presto la musica troppo per l’addietro spinosa e difficile. Ma nega ch’ei fosse il primo a inventar le righe, e a collocarvi sopra i punti, affinchè colla diversa posizione di questi s’indicassero gli alzamenti e gli abbassamenti di Ila voce; che aggiugnendo al diagramma , ovvero scala musicale degli antichi , che costava di quindici corde , la senaria maggiore , abbia accresciuta di cinque corde di più la scala musicale; ch’ei fosse il primo a ritrovare la gamma , ovvero quella tavola, o scala, sulla quale s’impara a dare il lor nome, e a intuonar con giustezza i gradi [p. 571 modifica]QUARTO 57! questo, sistema di Guido parlano più ampiamente il Quadrio sopraccitato (p. 703, ec.), Sebastiano de Brossard (Dict. de Mus. p. 159, ec), il conte. Mazzucchelli (l. cit.), e più autori altri da lui allegati. Ma noi abbiamo a sperare che più esattamente di tutti illustrerà ciò che appartiene al sistema di Guido, il ch. P. maestro Martini minor conventuale, quando egli nell’eruditissima sua Storia della Musica, di cui già abbiam avuti tre tomi, sia giunto a’ tempi di cui parliamo, e il poco che già egli ne ha detto incidentemente nel primo tomo (p. 7, 177, 178, 179, 184, 235, 326), ci fa desiderare con impazienza di vedere da sì valoroso scrittore esposto tutto questo sistema (36). Un’opera dello stesso Guido intitolata de Mensura Monochordi accennasi dal P. Bernardo Pez (Anecd. t. 3, pars 3, p. G18) 5 e forse ella è cosa diversa dal suo Micrologo; ma forse ancora non è che una parte svelta dal rimanente. Di altre opere per errore attribuite a Guido veggasi il soprallodato co. Mazzucchelli. Il Quadrio afferma inoltre che Guido dell’oliava per le sci note di musica; e eli’ ri precedesse a tulli nell’uso degli strumenti musicali chiamati p oli pel tri, epiali sono il clavicembalo, la spinetta, il clavicordio e più altri di questo genere. A ine sembra rlie le ragioni da lui addotte per negar queste glorie a Guido abbiano molta forza; ma sembrami ancora cbe quelle cb’ei gli concede, possan bastare a farci rimirar Guido come uomo sommamente benemerito della musica. (a) La morte di questo valoroso scrittore, accaduta nel 17S.4 , ci ha tolta la speranza di vedere da lui illustrato questo passo di storia musicale. Ala possiam lusingarci die il dotto P. Stanislao Mattei di lui successore e continuatore soddist’erà al commi desiderio. [p. 572 modifica]1IB110 fu l’inventore del gravicembalo, del chiavicordo e della spinetta (l. cit p. 739); ma egli, secondo il suo ordinario costume, non cita scrittore alcuno da cui ciò si affermi, nè io so che tra gli antichi vi abbia, chi dia a Guido tal lode (a). (a) Il sig. abate Arteaga, dopo avere osservato che la musica sacra ebbe la sua origine ed accrescimento in Italia , afferma che non così avvenne della profana (Rivoluz. del Teat, music, ital. t. 1, p. 143, ed. I cn.), perciocché le guerre , dalle quali per tanto tempo devastate furono queste provincie, furon cagione che occupati gl1 Italiani nel provvedere agli sconcerti cagionati dalla guerra, dalla politica e dalla natura, non pensavano a coltivare le arti più gentili e molto meno la musica. A me pare che in questo passo 1’aliate Arteaga non sia stato nè troppo felice ragionatore nè storico troppo esatto. La musica sacra e la profana sono appoggiate agli stessi principj , e hanno le medesime leggi fondamentali. Dunque, se la musica sacra debba la sua origine ed accrescimento all’Italia, ad essa ne è debitrice ancor la profana. Ma gl’Italiani, dice 1’abate Arteaga, non la poterono coltivare per 1!infelice condizione de’ tempi. E come ciò? A questi tempi noi abbiamo scoperti pittori, scultori, architetti italiani in gran numero: abbiamo osservato che le più magnifiche torri d’Italia, che tuttora sussistono, furono opere del XII secolo, e che in più tranquilli tempi non potevano aspettarsi le più grandiose. Se dunque tutte le belle arti si coltivarono allora in Italia , perchè la sola musica profana rimase abbandonata e negletta? Crede però il sig. abate Arteaga di aver trovato un autentico documento a comprovare la sua asserzione , che i Provenzali furono i primi ad applicare alla poesia profana la musica , e che in ciò precedettero agl" Italiani. NelV Ambrosiana di Milano, dic’egli (p. 150) , si conserva un antichissimo codice, del quale ho avuta alle mani e riletta una esattissima copia. Esso ha per titolo: Trattato del canto misurato. L’autore è un certo Francone monaco Benedettino, normanno di nazione,