Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/V. I misteri e le visioni
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V
I MISTERI E LE VISIONI
[Le due fonti della letteratura del Dugento: la cavalleria e le sacre scritture. I due tipi: il cavaliere, e il santo o cavaliere di Cristo — Maggiore efficacia della idea religiosa — La messa, e le «devozioni» o «misteri» — «Devozioni» del giovedí e del venerdí santo — Altre rappresentazioni sacre: nuclei antichi e rielaborazioni posteriori — Il fine collocato nell’altra vita o la salvazione dell’anima — Rappresentazione del Monaco che andò al servizio di Dio — La Commedia dell’anima — Contenuto di essa, il codice di quel secolo: Umano, Spoglia e Rinnova: inferno, purgatorio e paradiso — Difetto d’individuazione e di formazione: astrattezza e materialitá — Impacci posti all’arte dalla liturgia: allegorie e visioni — La visione della realtá dopo la morte — Aspirazione lirica e non rappresentazione: Beatrice — L’ereditá letteraria del Dugento.]
Al punto a cui siamo giunti, ci si porge chiara l’immagine del secolo decimoterzo. Due sono le fonti di quella letteratura primitiva: la cavalleria e le sacre scritture. L’eroe della cavalleria, il cavaliere, è l’uomo che si sforza di realizzare in terra la veritá e la giustizia, di cui è immagine la donna, suo culto e amore. La sua vita è attiva, piena di avventure e di fatti maravigliosi. Senti la sua presenza nella piú antica lirica, nelle novelle, ne’ romanzi e nelle cronache. Ma la cavalleria, venutaci di fuori con gli stranieri che occupavano il nostro suolo, non prese radice, non si sviluppò, non produsse alcuna opera originale: rimase stazionaria. Perdette il suo carattere serio e quasi religioso e restò un puro gioco d’immaginazione, che si mescola come colorito e accessorio in tutte le storie, sacre e profane. Di ben altra efficacia era l’idea religiosa, penetrata ne’ sentimenti e ne’ costumi e nelle istituzioni, compagna dell’uomo in tutti gli stati della vita. L’eroe cristiano è chiamato pure «cavaliere», il «cavaliere di Cristo»; ma è un eroe contemplativo, il cui tipo è il frate, il romito, il santo. Come il cavaliere errante, anche lui rinunzia ed ha a vile i beni terrestri; ma la vita dell’uno è militante, quella dell’altro è contemplante: ci è in fondo la stessa idea, di cui l’uno è il soldato, l’altro è il sacerdote. Certo, questi due tipi entrano spesso l’uno nell’altro, e il frate diviene il templario o il cavaliere di Malta, soldato della fede, e il cavaliere errante finisce romito e penitente. Ma il cavaliere, gittandosi nelle piú strane avventure, dimentica e fa dimenticare il cielo, attirata l’attenzione dal maraviglioso delle opere, sí che destano uguale curiositá e interesse le geste de’ cristiani e de’ saracini, e la rappresentazione rimane terrena. L’altro al contrario, passando la vita ne’ digiuni, nella povertá, nella castitá e nell’orazione, ci tien sempre viva innanzi l’immagine dell’altro mondo: e perciò questa vita contemplativa è schiettamente religiosa; anzi è ivi la perfezione, ivi il piú alto ideale. La passione dell’anima è l’esser legata al corpo, alla carne, e la sua beatitudine o santificazione è sciogliersi da quella e star con Cristo: al che è via la contemplazione e la preghiera. Nelle tre allegorie sull’anima pubblicate dal Palermo è detto: «Ogni bene e virtú, qualunque vogli, è buono in se medesimo, ma la preghiera solamente trae a sé tutte le altre virtú». In queste allegorie compariscono tre esseri, che sono i tre gradi della santificazione: «Umano», «Spoglia» e «Rinnova». Dapprima l’anima, impacciata dal terrestre, dall’Umano, non può scorgere il vero che sotto figura, nel sensibile. Il secondo essere, Spoglia, è la virtú che monda e purga l’anima dagli affetti terrestri; insino a che viene Rinnova, luce mentale, che «rinnova l’anima in tutto e mostra la veritá senz’ombra e senza figura». Questi tre gradi di santificazione comprendono tutta la vita del cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e nella carne, non vede che un barlume del vero, e non giunge all’ultima luce mentale, all’ultimo grado, se non purificandosi e mondandosi della parte terrestre. Anch’egli ha le sue battaglie, ma col demonio e con la carne, ch’egli macera e mortifica d’ogni maniera, e le sue armi sono la contemplazione e la preghiera. Il maraviglioso di questa vita non è solo ne’ miracoli, ma in quella forza di volontá che trae l’uomo a vincere tutti gli affetti e le inclinazioni naturali, com’è in santo Alessio, il tipo piú commovente di questi cavalieri di Cristo. La creazione del mondo, il peccato originale, le profezie, la venuta di Cristo, la sua passione, morte e trasfigurazione, l’anticristo e il giudizio universale sono l’epopea, il fondo storico a cui si annodano tante vite di santi. E questa storia dell’umanitá era tutt’i giorni innanzi al popolo, nella predica, nella confessione, nella messa, nelle feste. La messa non è altro che una rappresentazione simbolica di questa storia, un vero dramma senza che ce ne sia l’intenzione, rappresentato dal prete e da’ fedeli. Ogni atto che fa il prete è pieno di significato, è rappresentazione mimica. La prima parte della messa è epica o narrativa; è il Verbum Dei, l’esposizione che comprende le profezie e il Vangelo e finisce con la predica. La seconda parte è drammatica, è l’azione, il sacrificium, l’adempimento delle profezie. La terza parte è lirica, come nelle risposte de’ fedeli (il coro) al prete o quando due cori si alternano nel canto, e negl’inni e nelle preghiere: ciò che ha luogo principalmente nella messa cantata. Aggiungi le immagini de’ santi e i fatti dell’antico e del nuovo Testamento in quelle cappelle, in quelle finestre variopinte, in quelle cupole; e quelle grandi ombre, e quelle moli restringentisi sempre piú e terminate da croci slanciate verso il cielo; ed avrai l’immagine e l’effetto musicale di questo stacco dalla terra, di questo volo dell’anima a Dio. Dopo l’evangelo, il predicatore talora, per fare piú effetto sull’immaginazione, esponeva la sua storia sotto forma di rappresentazione, come si fa in parte anche oggi ne’ quaresimali. I monaci e i preti rappresentavano il fatto, e il predicatore aggiungeva le sue spiegazioni e considerazioni. Era una rappresentazione liturgica, cioè legata al culto, parte del culto, detta «divozione» o «mistero». Di tal natura sono due «divozioni», che si rappresentavano il giovedí e il venerdi santo, e sono piuttosto due atti di una sola rappresentazione che due rappresentazioni distinte. La prima comincia col banchetto che Cristo ebbe in casa di Lazzaro sei giorni avanti pasqua, e che qui è il giovedí santo. Cristo viene da Gerusalemme; Maria con Maddalena e Marta gli va incontro. Maria prega il figlio di non tornare a Gerusalemme, perché vogliono la sua morte. Cristo risponde dover ubbidire al Padre: pur si conforti, ché niente fará che non lo dica a lei. Alla fine del banchetto Cristo scopre a Maddalena che dee ire a Gerusalemme, dove patirá il supplizio della croce e le raccomanda la madre. Cristo esce. Sopraggiunge Maria, che ha visto il figlio turbato, e la prega a svelarle quello che il figlio le ha detto. Maddalena tace. E la madre va a Cristo tutta in lagrime, e dice:
Dimilo, figlio, dimilo a mi, |
Cristo dice che pel riscatto del mondo dee ire a morte, e Maria sviene. Tornata in sé e lamentandosi, raccomanda il figlio a Giuda, che risponde in modo equivoco: — So quello che ho a fare. — Poi si volge a Pietro, che promette difendere il figlio contro tutto il mondo. Giunti a una porta della cittá, Maria non vuol separarsi dal figlio; ma quando non lo vede piú e sa che per un’altra porta è entrato in Gerusalemme, fa pietosi lamenti innanzi al popolo:
O figlio mio tanto amoroso, |
Segue il racconto secondo la Bibbia. Le parole di Cristo, tolte al Vangelo, sono dette in latino. E la «divozione» finisce con la prigionia di Cristo.
La «divozione» del venerdí santo racconta la passione e la morte di Cristo. Il predicatore interrompe la rappresentazione con le sue spiegazioni, e fa cenno quando si ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte. Mentre Cristo prega pe’ suoi nemici, ella dice alla croce:
Inclina li toi rami, o croce alta, |
Cristo la raccomanda a Giovanni, che, inginocchiandosi e baciandole i piedi, cerca racconsolarla. Ma essa abbraccia la croce e si lamenta:
O figlio mio, figlio amoroso, |
Quando Cristo muore, Maddalena gli sta a’ piedi, al capo Giovanni, Maria nel mezzo. E bacia il corpo di Cristo, gli occhi, le guance, la bocca, i fianchi, le mani «con le quali benediva il mondo», i piedi su’ quali «Maddalena sparse tante lacrime».
Queste rappresentazioni erano antichissime, e si scrivevano in latino, come il Ludus paschalis, rappresentazione di pasqua, dove è messo in azione l’anticristo. Le due «divozioni» avanti discorse non sono probabilmente che versioni o imitazioni di opere piú antiche, rimase nella tradizione. Tale era pure la rappresentazione del Nostro Signore Gesú Cristo, che ebbe luogo a Padova nel 1243, e il Ludus Christi, una trilogia rappresentata dal clero in Cividale negli ultimi due giorni di maggio il 1298. Nella Pentecoste e ne’ tre seguenti giorni il capitolo di questa cittá, in presenza del vescovo e del patriarca di Aquilea, diede questa serie di rappresentazioni: la creazione di Adamo ed Eva, la profezia o l’annunzio, la nascita, morte e risurrezione di Cristo, la discesa dello Spirito santo, l’anticristo, e la venuta di Cristo nel giudizio universale. Era tutta l’epopea biblica, fatta evidente e sensibile dalla musica, dal canto, dalle scene, dalla mimica e dalla parola. Tale era pure la Passione, rappresentata a Roma nel Coliseo il venerdí santo, dalla Compagnia del gonfalone, nel 1264.
Queste rappresentazioni, di cui i preti erano attori e attrici, aveano tutto il carattere di solennitá o feste o cerimonie religiose. Il diavolo vi ha pure la sua parte di tentatore, ma parla in modo serio e semplice, secondo la sua natura, e non ha niente di grottesco e di ridicolo. Chiuse nel recinto delle chiese, de’ conventi e delle curie vescovili, rimangono tradizionali e immobili, senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon in parte nelle feste del contado.
La moralitá di queste rappresentazioni era che il fine dell’uomo è nell’altra vita o, come si diceva, è la salvazione dell’anima; che per conseguire questo fine si ha a imitare Cristo, soffrire in questo mondo per godere nell’altro. Perciò l’ideale, l’eroico o, come si diceva, la «perfezione della vita» era il dispregio de’ beni di questo mondo, la resistenza a tutte le inclinazioni naturali e il vivere in ispirito nell’altro mondo con la contemplazione e la preghiera. Questa è la vita de’ santi, della quale si dava anche rappresentazione a’ fedeli. E tra le piú antiche è una ancora inedita, che ha per titolo: D’uno monaco che andò a servizio di Dio, probabilmente recitata a monaci da monaci in un convento. L’eroe è questo monaco, un giovinetto che resiste alle lacrime della madre, alle querele del padre, alle tentazioni del compare, e si rende frate nel deserto, dove è accolto come figlio da un romito. Ma ivi prove piú dure l’attendono. Mentre egli va a raccogliere per il pasto radici, frutta, castagne e noci, il romito prega e, mosso da curiositá, chiede a Dio qual luogo spetti al suo novizio in paradiso; e un angiolo risponde che sará dannato. Non perciò della notizia si turba il giovinetto, anzi risponde tranquillo che continuerá ad amare e servire Dio. Invano il demonio lo tenta, dicendogli che «ha guastato l’amor naturale» e che il meglio sará tornare in casa del padre, ché forse Dio gli avrá misericordia. Il giovinetto con gli scongiuri fuga il demonio, e rimane fermo nella sua risoluzione. Allora l’angiolo annunzia al romito che egli è salvo. E il monaco e il romito intuonano il Te Deum o una lauda. Nell’epilogo o commiato sono esortati gli spettatori a castigare la carne e a pensare alla vita eterna. Anima della rappresentazione è l’invitta fede del giovane monaco, che la preghiera e la contemplazione è la piú sicura guardia contro il peccato e la tentazione della carne, e che si giunge alla santificazione col rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in Dio. Questo concetto è espresso in una forma scolastica nel canto del monaco, di cui ecco alcuni brani:
L’anima sensitiva, che ss’inchina |
Ci è una rappresentazione, intitolata Commedia dell’anima, che è una storia ideale della vita de’ santi, una specie di logica, dove sono le idee fondamentali della santificazione, l’ossatura e lo scheletro di tutte le vite de’ santi. L’anima esce pura dalle mani di Dio e a sua immagine. Dio la contempla con amore, dicendo:
Quand’io risguardo quella creatura |
Ma il demonio, invidioso che «sí vil cosa abbia a fruire quel regno del qual esso è privato», si apparecchia a darle battaglia. L’angelo custode conforta l’anima e le presenta la Memoria, l’Intelletto e la Volontá: le sue «potenzie». L’Intelletto parla dopo la Memoria e dice:
Io son di te la seconda potenzia |
E la Volontá dice:
Io son la Volontá, che ho a fruire e in quel fermando tutt’il mio desire, |
L’Intelletto dice alla Volontá:
A te s’appartien sol deliberare |
E la Volontá risponde:
Nella tua spera i’ m’ho sempre a guardare, |
L’anima confortata alza la preghiera a Dio, e l’angelo custode aggiunge:
Dágli, Signore, un’ardente fiamella, |
Cioè a dire: non bastano le tre potenzie naturali, Memoria, Intelligenzia, Volontá, perché l’anima piaccia al Signore; ci vuole anche la sua grazia, l’ardente fiammella che dee cacciare il drago, il demonio. E Dio manda ad assisterla le virtú teologiche: Fede, vestita di colore celeste, con una croce nella mano destra e nella sinistra un calice e suvvi la patena; Speranza vestita di verde, con gli occhi fissi al cielo e le mani giunte; Caritá, vestita di rosso, con un parvolino per mano. Intanto il demonio chiama l’Eresia, la Disperazione, la Sensualitá e tutte le sue forze capitanate dall’Odio. Le tre virtú intorniano l’anima. La Fede dice dell’esser suo, e san Giovanni Crisostomo celebra la sua potenza. Ma l’Infedeltá con acri parole la rampogna:
E’ vien da levitá chi crede presto. e puossi dir che la fede è mancata. |
Allora la Speranza viene in soccorso:
Leva sú gli occhi alla cittá superna, |
Ma l’anima teme, pensando la sua debolezza:
Com’io digiuno un di, i’ son sí bianca, |
La Speranza le pone avanti l’esempio de’ santi, e soprattutto di santo Agostino:
quando dicev’orando: — Signor mio, |
Allora l’assale la Disperazione e dice:
Pensa che la giustizia ará il suo luoco, |
Ma l’anima risponde allo scherno, cacciandola da sé:
E tu va’ via, bestiaccia maladetta. |
Segue un’altra disputa tra la Caritá, della quale san Paolo celebra le lodi, e l’Odio, in cui spunta l’ombra di un carattere, qualche cosa di simile a un capitano millantatore:
Vòltati in qua, porgimi un po’ l’orecchio, Guardami un po’ s’i’ sono un bel vecchiardo |
L’ultima battaglia è tra il Senso o la Sensualitá e la Ragione. L’anima, pregando, si sente sopraffatta dal corpo:
Io ti vorrei, Signor, sempre servire, ché, s’io voglio vegliar, e’ vòl dormire: |
E la Sensualitá, cosí invocata, le dice beffando:
Tu vorresti ir al ciel cosí vestita: |
Ma ecco la Ragione dire all’anima:
Deh dimmi, anima mia, c’hai tu avuto: |
E, saputo il fatto, dice della sua nemica:
Ell’è una bestiaccia sí insolente; |
— Ma che dovevo fare? — dice l’anima:
Dovevi tutt’aprirti nelle braccia, |
La Sensualitá non se ne spaventa, e dopo uno scambio di villanie aggiunge:
Questa Ragion è sol ipocrisia, dagli nel capo che tu lo fracassi. |
La Ragione è vinta e l’anima cede. Ella desidera una ghirlanda con un nodo,
come di quelle ch’io ho giá veduto. |
E il demonio aggiunge:
Fátt’un bel tocco di velluto rosso |
Cosí la Ragione è impotente senza la Grazia. Comparisce Dio stesso:
Vòltati a me, non mi far resistenza, |
L’anima, pentita del mal pensiero, risponde:
Non merito da te esser udita |
Allora Dio le manda in soccorso le virtú cardinali, Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Misericordia, Povertá, Pazienza, Umiltá. Ciascuna parla di sé, citando talora questo o quel passo della Bibbia. Ecco alcuni brani:
Prudenza
Temperanza
Fortezza
Giustizia
Misericordia
Povertá
Pazienza
Povertá
Pazienza
Umiltá
non vorrei gli facessimo paura; |
L’anima, contrita e fortificata, alza un canto a Dio:
A te mi do, Signor clemente e pio, |
Colpita da grave infermitá dice:
Oh m’è venuto tanto male addosso, |
Intorno alla morente fanno l’ultima battaglia l’angiolo e il demonio. Gli argomenti dell’angiolo si possono ridurre in questi tre versi:
Umana cosa è cascar in errore, |
Dio accoglie l’anima e pronunzia il suo giudizio:
E quest’è la mia ultima sentenzia: |
E l’angiolo dice:
Partite tutti: la sentenz’è data: |
E il coro accompagna l’anima al cielo con questo canto:
O felice alma, che dal corpo sciolta |
Cosí finisce questa rappresentazione, detta «commedia», perché si conchiude con la salvazione e non con la perdizione dell’anima. È detta anche «misterio», per la sua natura allegorica. È uno degli antichissimi misteri liturgici, ritoccato, ripulito, rammodernato e fatto laico a’ tempi di Lorenzo de’ Medici e forse piú in lá, a giudicare dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di formazione artistica, come nelle figure del demonio, dell’Odio, della Sensualitá, della Povertá, e da un certo non so che beffardo e grottesco, che svela poca serietá e unzione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la trama è moderna, la stoffa è antica, e ricorda il duello del Senso e della Ragione, cosí comune negli scritti volgari che apparvero prima, e la battaglia de’ Vizi e delle Virtú del Giamboni, e le tre allegorie cristiane. Anzi questa Commedia dell’anima non è se non le tre allegorie messe in rappresentazione. Lá trovi tre gradi di santificazione, Umano, Spoglia e Rinnova. E anche qui l’anima è prima combattuta dal senso e cade ne’ suoi lacci, perché «umana cosa è cascare in errore»; poi fa la sua penitenza, si spoglia e si monda della scoria del peccato, e cosí a Dio si rimarita, come dice Dante, o, come dice il nostro autore, sta «al convito celestiale con veste bella e nuziale». Questi tre gradi aveano la loro formazione liturgica nell’inferno, purgatorio e paradiso, che erano appunto il senso, l’Umano puro, abbandonato a se stesso, lo Spoglia o la penitenza che purga o monda l’anima, e il Rinnovamento o la luce mentale, la beatitudine. Questo era il concetto delle rappresentazioni che aveano a materia l’altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni Villani, che ebbe luogo a Firenze. L’altro mondo era la storia, o come si diceva la «commedia dell’anima», la quale non potea giungere a redimersi dall’umanitá, dal corpo, dalla carne, dall’inferno, se non con la penitenza, purificandosi e purgandosi, e cosí contrita e confessa, diveniva leggiera, saliva al cielo. Questa Commedia spirituale dell’anima, di cui ho voluto dare un sunto possibilmente esatto, è il codice di quel secolo, il contenuto astratto e generale, particolarizzato nelle vite, nelle leggende, ne’ trattati e nella lirica. Spiritus intus alit. Lo spirito che alita per entro a quelle prose e a quelle poesie è la «commedia dell’anima».
Ma in tante prose e in tante poesie non ci è ancora un vero lavoro d’individuazione e di formazione. Il contenuto rimane nella sua astratta semplicitá, innominato e impersonale, l’anima. Essendo il suo fondamento la contemplazione e non l’azione, o un’azione negativa, la resistenza agl’istinti e agli affetti naturali, non penetra nella vita, non ne assume tutte le forme, non diventa la societá. Certo, quell’azione negativa è molto poetica, è il sublime religioso, e tocca il cuore quando è rappresentata con semplicitá e unzione. Ma, in questo contrasto tra il sentimento religioso e la natura, ciò che move piú è il grido della natura, come ne’ lamenti della madre di santo Alessio o di santa Eugenia, o nel dolore d’Isacco nel Sacrifizio di Abraam, che all’annunzio della sua morte chiama la madre:
O santa Sara, madre di pietade, |
Quantunque questo non sia che uno de’ lati piú angusti e litari della vita umana, cosí ricca e varia ne’ suoi aspetti, pure offre contrasti e gradazioni che lo rendono capacissimo di un grande sviluppo artistico. Ma in quel suo albore la letteratura ha lo stesso carattere che mostra nella decadenza: la naturalitá o materialitá del contenuto. Tante vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la curiositá con la varietá e novitá degli accidenti, e si attendeva piú allo spettacoloso, a colpire l’immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose, che a lavorarle e svilupparle. Mancava la virtú di mettersi gli oggetti a distanza e trasformarli: la realtá, anche nuda, era per se stessa maravigliosa e bastava ad ottenere l’effetto, operando in modo semplice e immediato sullo scrittore e su’ lettori.
Oltreché, siccome il contenuto riposava su di una dottrina liturgica, stabilita e inalterabile, poco era accomodato ad una rappresentazione libera e artistica, anche quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da’ laici, come fu anche de’ «misteri». Impadronirsi di quel contenuto, cacciarlo dalla sua generalitá, dargli corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione. Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di esempli, di sentenze e di allegorie, come si vedea nella Bibbia. Il reale, il concreto non avea valore se non come figura della dottrina. Ecco ad esempio in che modo è nella Commedia dell’anima figurato il paradiso:
In su quel monte dove sta il Signore |
Le ultime parole spiegano la figura. Quella è la fontana della divina grazia. Con questa tendenza lo scrittore sta contento alla semplice personificazione e gli pare di aver fatto assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto. Oltre a ciò, l’uomo colto, schivo delle forme semplici e volgari dell’umile credente, mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa fede ragionata e sillogizzata fa la filosofia, figliuola di Dio. Lo studio del secolo è di allegorizzare e dimostrare, anziché di rappresentare; è di chiarire quel contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anziché coglierlo in azione e nell’atto della vita. Perciò l’opera letteraria tiene dell’allegoria e del trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane nell’infanzia. Mai non ti senti ben fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con tali caratteri, passioni e costumi; anzi lo scrittore ti par quasi estraneo alla societá e alle sue lotte, e dimora nell’astratta e monotona generalitá della sua contemplazione. E quando pur scende a rappresentare la vita, ti senti di un tratto balzato nel regno de’ misteri, delle leggende e delle visioni, nell’altro mondo.
La visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto, quando si vuol rappresentarlo. La vita e la realtá è il senso, la carne, il peccato; e lo scrittore o guarda e passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla, rappresentandola non quale appare in terra, ma quale è nell’altro mondo. La rappresentazione è dunque la visione della realtá come sará dopo la morte, e lá si spazia e si diletta l’immaginazione. E se il «mistero» è commedia ed ha per conclusione la santificazione e la beatitudine, la «visione» è spesso pittura delle pene infernali, lasciate alla libera immaginazione de’ predicatori, de’ vescovi, de’ frati, de’ santi padri, che col terrore operavano sulle rozze immaginazioni. Laghi di zolfo, valli di fuoco o di ghiaccio, botti d’acqua bollente, rettili, vermi, dragoni da’ denti di fuoco, demòni armati di lance, di fruste, di martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al suolo con tanti chiodi «che non pare la carne», o sospesi per le unghie in mezzo al zolfo, o menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a «cerchi rosseggianti», o infissi a spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano de’ metalli fusi: ecco la realtá delle visioni, rappresentata co’ piú vivi colori. I tre monaci, che si mettono in viaggio per iscoprire il paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di cammino attraversano l’inferno:
E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle quali eran confitte nell’un monte e l’altre due nell’altro. E tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sí fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo; e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra.
Nella Vita di santa Margherita si trova questa pittura del dragone:
Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori, e la barba e i capelli parean d’oro, e’ denti suoi pareano di ferro, e gli occhi acuti e lucenti come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la lingua, e parea che per le nari e per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo.
Tra le visioni è celebre il purgatorio di San Patrizio di frate Alberico, e quella d’Ildebrando, poi Gregorio settimo, che, predicando innanzi a papa Niccolò terzo, narra di un conte ricco e insieme onesto: «ciò che è proprio un miracolo in questa gente» egli dice. Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d’una scala lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giú nell’inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest’ordine: che, quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l’abisso, dove tutti, l’uno appresso l’altro, si sarebbero riuniti. E chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama di sé, si udí una voce rispondere: — Uno degli antenati, di cui il conte è l’erede in decimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione. — Questa pena, che colpisce un’intera generazione, è molto poetica, mostrando l’inferno nel sublime d’un lontano indeterminato, messo costantemente innanzi all’immaginazione de’ condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l’inferno.
Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato; che la virtú è negazione della vita terrena e contemplazione dell’altra; che la vita non è la realtá ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtá è non quello che è, ma quello che dee essere, ed è perciò la scienza o la veritá, come concetto, e come contenuto è l’altro mondo, l’inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo conforme alla veritá e alla giustizia.
Appunto perché l’individuo è pulvis et umbra, e la realtá è pura scienza ed un di lá della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo d’individuazione e di formazione. Lo stesso amore, cosí possente, non ci può gittare un po’ di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell’amore divino. La donna, come donna, è peccato: essa diviene una specie di medium che lega l’uomo a Dio.
Il maggior grado di realtá a cui questo mondo sia pervenuto è nella lirica di Dante. La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma: è Beatrice, la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l’anima nella commedia spirituale; breve apparizione, tornata cosí presto in cielo tra’ canti degli angioli. La sua vita terrena è quasi non altro che nascere e morire. La sua vera vita comincia dopo la morte, nell’altro mondo. Ivi è luce mentale o intellettuale, veritá e scienza, filosofia. Ma non è filosofia incarnata, mondo vivente, dove l’idea di Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura scienza, incapace di rappresentazione, nella sua forma scolastica di trattato e di esposizione. È scienza non ancora realizzata, non ancora corpo; è idea, non è visione; è didattica, non è commedia o rappresentazione. Hai «misteri» e «visioni»; manca il Mistero e la Visione, cioè un mondo vivente nel suo insieme e ne’ suoi aspetti, dove sia realizzato quel concetto teologico e filosofico dell’umanitá, comune al secolo e rimasto ancora nella sua astrazione dottrinale.
Il secolo decimoterzo si chiudeva lasciando una lingua giá formata, molta varietá di forme metriche, una poetica, una rettorica, una filosofia ed un concetto della vita ancora didattico e allegorico, con rozzi tentativi di formazione e individuazione. Il suo primo individuo poetico è Beatrice, il presentimento e l’accento lirico di un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora fuori della vita.