Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/IV. La prosa
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IV
LA PROSA
[La materia cavalleresca e le traduzioni in prosa — Elementi cavallereschi nelle cronache — Mancanza di arte — Il Novellino come libro di appunti per narratori — Scarsa fortuna artistica del romanzo e della novella in Italia: gli spiriti colti si volgono al sapere e alla scienza — Le traduzioni dei libri etici e rettorici — Libro di Cato — Fiore di rettorica — Trattati di Albertano da Brescia, e altre compilazioni — Fiori, Giardini e Tesori — Popolaritá di Boezio — Brunetto Latini e Bono Giamboni — Le leggende e la lotta tra cielo e terra, risolventesi nella «tragedia» o nella «commedia» — Medesimezza di pensiero, ma inferioritá della prosa rispetto alla poesia del Dugento — Progressi della letteratura in volgare.]
Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione del volgare, non minore opera vi diedero i bei favellatori o favoleggiatori. «Favella» viene da «fabella», «favoletta», e perciò le lingue moderne furon dette «favelle», lingue de’ favoleggiatori. Costoro nelle corti e ne’ castelli raccontavano novelle, come i rimatori poetavano d’amore. Cosí gl’inizi della nostra lingua furono
versi d’amore e prose di romanzi. |
Come i versi, cosí le prose aveano giá tutto un repertorio venuto dal di fuori. I rimatori attingevano nel Codice d’amore; i novellatori o favellatori attingevano ne’ romanzi della Tavola rotonda o di Carlomagno. Il cavaliere errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.
Questa letteratura non produsse altro che traduzioni, come sono i Canti di antichi cavalieri, la Tavola rotonda e i Reali di Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il re Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno, Orlando erano gli eroi dell’immaginazione popolare. Oggi ancora i cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di fatti maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo. Anche la storia romana prese questa forma. Un codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa, ed è la versione del Giulio Cesare, romanzo in versi rimati di Jacques de Forest. La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca. Cicerone, «mastro di rettorica e buono chierico», cosí comincia una sua aringa a Pompeo: «Li re e conti e baroni e l’altro popolo ti richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio». E non è meraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita cavalleresca. Si leggono non senza diletto i Diurnali o, come oggi si direbbe, giornali di Matteo Spinelli, la più antica cronaca italiana, non solo per la semplicità e naturalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la vaghezza de’ fatterelli, che pare un favellatore e non uno storico. Di maggior mole è la Storia di Firenze di Ricordano Malespini, che dagli inizi della cittá si stende sino al 1282. Quando narra fatti contemporanei è testimonio veridico ed esatto, né la sua fede guelfa lo induce ad alterare i fatti. Ma quando esce da’ suoi tempi, ti trovi nell’infanzia della coltura. Anacronismi ed errori geografici sono accoppiati con la più grossolana credulitá nelle favole più assurde, improntate di tutto il maraviglioso de’ romanzi cavallereschi. Dice che la chiesa di san Pietro fu fondata a’ tempi di Ottaviano, quando san Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica di Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di San Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da «pisare» o «pesare», Lucca da «luce» e Pistoia dar «pistolenzia»; narra gli amori di Catilina con la regina Belisea, figlia del re Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Belisea, e pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.
In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta: desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito: non ci è ancora l’io, la personalitá dello scrittore.
Come la poesia, cosí la prosa cavalleresca poco attecchí in Italia. Non solo non ci fu nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione. Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa ariditá e indifferenza che senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte di Manfredi o di Bondelmonte. Come l’uomo inculto parla assai meglio che non scrive, è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con una vivacitá d’immaginazione e di affetto che non trova ne’ racconti e nelle cronache. Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi e appunti anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si dánno a’ giovinetti per esercizio di scrivere. Il libro fu detto «fiore del parlar gentile»; e veramente vi è tanta grazia e proprietá di dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti piú tardi. Ma se la lingua è assai piú schietta e moderna che non è ne’ Conti di antichi cavalieri e ne’ romanzi di quel tempo, è in tutti la stessa ariditá. Ci è il fatto ne’ suoi punti essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli dánno colore, e senza le impressioni e i sentimenti che gli dánno interesse. Pure, quando il fatto è semplice e breve e non richiede arte, basta a conseguire l’effetto quella naturalezza e quel candore pieno di veritá che è nel racconto. Eccone un esempio:
Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che, quando era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade. Quando lo re Currado favellava, li maestri che gli erano dati a guardia, non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui... E quei dicea: — Perché non battete me, ché mia è la colpa? — Diceano li maestri: — Perché tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per te; onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe. — E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietá di coloro.
Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi e non divenne un lavoro d’arte, la ragione è che una materia tanto poetica si mostrò quando lingua e arte erano ancora nell’infanzia e, rimasa fuori della vita e dei costumi, riuscí un frivolo passatempo, come fu della poesia cavalleresca. Trattata da illetterati, questa materia non potè svilupparsi e formarsi, sopravvenuto in breve tempo il risorgimento de’ classici e il rifiorire delle scienze, che trasse a sé l’animo delle classi colte. Quantunque «chierico» significasse ancora «uomo dotto», e da’ pergami e dalle cattedre si parlasse ancora latino ed in latino si scrivessero le opere scientifiche, giá il laicato usciva dalle universitá vigoroso ed istrutto, con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza. Se il chierico tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spirito laicale tendeva a diffonderla, a volgarizzarla, a farla patrimonio comune. La libertá municipale, aprendo la vita pubblica a tutte le classi, costituiva in modo stabile un laicato colto e operoso, a cui non bastava piú il latino e che, formato nelle scuole, superbo della sua scienza, in quotidiana comunione con le altre classi, aveva giá un complesso d’idee comuni, che costituivano la base della coltura. Erano nuove forze che entravano in azione e davano un indirizzo proprio alla vita italiana. A quella gente quei romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di oziosi, spasso di plebe. Le idee religiose, cosí come venivano bandite dal pergamo, non doveano aver molta grazia a’ loro occhi; quella semplicitá e rozzezza di esposizione dovea poco gradire a quegli uomini che tutto codificavano e sillogizzavano. Certo non fu perciò estinta la razza de’ novellatori e de’ predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne allontanò, e i Conti de’ cavalieri e le Vite de’ santi rimasero occupazione di uomini semplici e inculti, senza eco e senza sviluppo. La societá mirava a divulgare la scienza, a diffondere le utili cognizioni, a far sua tutta la cultura passata, profana e sacra. I suoi eroi furono Virgilio, Ovidio, Livio, Cicerone, Aristotile, Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio, santo Agostino e san Tommaso. Il volgare divenne l’istrumento naturale di questa coltura. I poeti bandivano la scienza in verso; i prosatori traslatavano dal latino gli scrittori classici, i moralisti e i filosofi. Era un movimento di erudizione e di assimilazione dell’antichitá, che durò parecchi secoli e che ebbe una grande azione sulla nostra letteratura.
La materia, a cui piú volentieri si volgevano i traduttori, era l’etica e la rettorica, l’arte del ben fare e l’arte del ben dire. Una delle piú artiche versioni è il Libro di Cato o Volgarizzamento del Libro dei costumi, opera scritta in distici latini e divisa in quattro libri. L’opera ebbe tanta voga che se ne fecero tre versioni, ed è spesso citata dagli scrittori. Né è maraviglia, perché ivi la morale è nella sua forma piú popolana, essendo ciascuna regola del ben vivere chiusa in un distico, a guisa di motto o proverbio o sentenza, facile a tenere in memoria. Ecco un esempio:
Virtutem primam esse puto compescere linguam: |
Ed è tradotto egregiamente cosí:
Costringere la lingua credo che sia la prima vertude: quelli è prossimo a Dio, che sa tacere a ragione.
Esercizio utilissimo a’ giovani sarebbe il raffronto delle tre versioni, che ti mostra la lingua ne’ diversi stati della sua formazione. La terza versione, pubblicata dal Manni, ha per compagna l’Etica di Aristotile e la Rettorica di Tullio. Questa Rettorica di Tullio è il Fiore di rettorica, attribuito a frate Guidotto da Bologna e da altri con piú verisimiglianza a Bono Giamboni, e che comincia cosí: «Qui comincia la Rettorica nuova di Tullio, traslatata di grammatica in volgare per frate Guidotto da Bologna». Che importanza avesse la rettorica e quali miracoli potea produrre, si vede da queste parole del traduttore:
Fue uno nobile e vertudioso uomo, cittadino nato di Capova del regno di Puglia, il quale era fatto abitante della nobile cittá di Roma, che avea nome Marco Tullio Cicerone, lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia di rettorica, la quale avanza tutte le altre scienzie, per la bisogna di tutto giorno parlare nelle valenti cose, siccome in far leggi e piati civili e cherminali, e nelle cose cittadine, siccome in fare battaglie, ed ordinare schiere, e confortare cavalieri nelle vicende degl’imperii, regni e principati, e governare popoli e regni e cittadi e ville, e strane e diverse genti, come conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra.
Il libro è dedicato a re Manfredi, il quale vi potrá avere «sufficiente e adorno ammaestramento a dire in piuvico e in privato». Accanto a Cicerone comparisce il grande poeta Virgilio, «il quale Virgilio si trasse tutto il costrutto dello intendimento della rettorica e ne fece chiara dimostranza». Il frate, cercando le «magne virtudi» di Cicerone, aggiunge: «Sí mi mosse talento di volere alquanti membri del Fiore di rettorica volgarizzare di latino in nostra lingua, siccome appartiene al mestiero de’ laici, volgaremente». Onde pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei laici, scrivendo i chierici in latino. Queste citazioni sono il ritratto del tempo. Ci si vede la grande impressione che facea su quelle menti Virgilio e Cicerone, «d’arme maraviglioso cavaliere, franco di coraggio, armato di grande senno, fornito di scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le cose». E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben dire in pubblico e in privato bastasse imparare le regole dell’etica e della rettorica. Né si recavano in volgare le opere sole dell’antichitá, ma anche le contemporanee scritte in latino. Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia, notaio pistoiese, de’ Trattati di morale, dottissima opera di Albertano da Brescia, scritta in prigione. Il primo trattato, Della dilezione di Dio e del prossimo e della forma della vita onesta, è composto l’anno 1238. L’opera levò tal grido che fu tradotta in francese e in inglese; e veramente ci è li dentro raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all’onesto vivere, sacra e profana. L’impulso fu tale che gli uomini piú chiari si volsero a tradurre o compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina. Ristoro di Arezzo scrivea sulla Composizione della terra; Cavalcanti scrivea una grammatica e una rettorica; ser Brunetto traduceva il trattato De inventione di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di Livio, e sotto nome di Fiore di filosofi e di molti savi raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora, Democrito, Socrate, Epicuro, Teofrasto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone. Ecco i «fiori» di Plato:
Plato fue grandissimo savio i e cortese, in parole, e disse queste sentenzie:
In amistade né in fede non ricevere uomo folle: piú leggermente si passa l’odio de’ folli e de’ malvagi che la loro compagnia.
A neuno uomo ti fare troppo compagno. L’uomo è troppo cosa singulare; non puote sofferire suo pare, de’ suoi maggiori hae invidia, de’ suoi minori hae disdegno, a’ suoi iguali non leggeremente s’accorda.
Quelli sono pessimi e maliziosi minici, che sono nella fronte allegri e nel cuore tristi.
Secondo la rettorica di quel tempo si diceva «fiore» quel raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto. E si diceva anche «giardino», come spiegava Bono Giamboni|Bono Giamboni nel suo Giardino di consolazione, versione del latino: «e chiamasi questo Giardino di consolazione, imperò che, siccome nel giardino altri si consola e trova molti fiori e frutti, cosí in questa opera si trovano molti e begli detti, li quali l’anima del divoto leggitore indolcirá e consolerá». In effetti questo bel libro, dov’è molta semplicitá e grazia di dettato, è una descrizione de’ vizi e delle virtú, con sopra ciascuna materia i detti de’ savi e de’ santi padri, tanto che si può veramente dire dell’autore: «il piú bel fior ne colse». Ecco il capitolo dell’Ebrietade:
Ebrietade, secondo che dice santo Agostino, è «vile sepoltura della ragione e furore della mente». Anche dice: «L’ebrietá è lusinghiere demonio, dolce veleno, soave peccato». Anche dice: «La ebrietá molti n’ha guasti, toglie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno, accende alla lussuria, non tiene segreto, induce a male parole». Santo Basilio dice: «L’ebro, quando pensa bere, si è beúto: come lo pesce che con grande disiderio inghiottisce l’esca nella sua gola e non sente l’amo; cosí l’ebro, bevendo il vino, riceve in sé nemico sanza ragione». E santo Paolo dice: «Non t’inebriare di vino, imperò che di vino esce lussuria».
Né solo «fiore» o «giardino», ma si diceva pure «tesoro» o «convito», quasi mostra di ricche pietre preziose o di elettissime vivande. Brunetto, che scrisse il Fiore, avea giá scritto il Tesoro, «in romanzo o lingua francesca», come «piú dilettevole e piú comune che tutti gli altri linguaggi», e voltato poi in volgare da Bono Giamboni. Il Tesoro è il Cosmos di quel tempo, l’universalitá della scienza come s’insegnava nelle scuole, la somma o il compendio del sapere e, per dirla con le parole di Brunetto, «un’arnia di mèle tratta di diversi fiori», un «istratto di tutt’i membri di filosofia in una somma brevemente». Prende capo dalla filosofia, siccome «radice di cui crescono tutte le scienze»; ed è descrizione di Dio, dell’uomo, della natura. Segue l’etica o filosofia pratica, e poi la rettorica, che ha come appendice la politica o l’arte di ben governare gli Stati. È il disegno di una prima facoltá universitaria, che prepara con questi studi i giovani alle scienze speciali. Questa vasta compilazione, di cui non era esempio, parve una maraviglia. Ma piú importanti erano i trattati speciali, dove gli scrittori mostravano qualche originalitá, come furono i tre trattati di Albertano e il famoso trattato De regimine principum di Egidio Colonna, dottissimo patrizio napolitano, volgarizzato da un toscano.
Il luogo che teneva la fede venne occupato dalla filosofia. Non che la filosofia negasse la fede, anzi era proprio di quel tempo aver fede in tutto quello che era scritto; ma sotto quella forma s’affermava la societá colta e si distingueva da’ semplici e dagl’ignoranti. Il luogo comune di tutte le invenzioni era l’eterno Giobbe, l’uomo colpito dall’avversitá, che maledice prima alla vita e trova poi rimedio e consolazione nella filosofia ovvero nello studio della scienza, nella visione delle opere divine e umane. Questo spiega la grande popolaritá del libro di Boezio Della consolazione, fondato appunto su questa base, dove la filosofia è rappresentata «in sembianza di donna, in tale abito e in sí maravigliosa potenzia che cresceva quando le piaceva, tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al cielo, e poggiava a monte e a valle». Tale è pure la visione di ser Brunetto Latini nel Tesoretto, ch’è visione delle cose umane «secondo il corso stabilito a ciascheduna»:
{{spazi|5}Io le vidi ubbidire, |
La stessa base ha il libro Introduzione alle virtú di Bono Giamboni. È un giovane, «caduto di buono luogo in malvagio stato», che narra di sé in questo modo:
Seguitando il lamento che fece Giobbe,... cominciai a maladire l’ora e il die ch’io nacqui e venn’in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo m’avea nutricato e governato. E pienamente luttando con guai e gran sospiri, i quali venieno della profonditá del mio petto,... fra me medesimo dissi: — Dio onnipotente, perché mi facesti tu vivere in questo misero mondo, acciò ch’io patissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche e sostenessi cotante pene? perché non mi uccidesti nel ventre della madre mia, o incontanente che nacqui non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempro alle genti, che neuna miseria d’uomo potesse nel mondo piú montare?... — Lamentandomi duramente nella profonditá di una oscura notte nel modo che avete udito di sopra, e dirottamente piangendo,... m’apparve di sopra al capo una figura, che disse: — Figliuolo mio, forte mi maraviglio che, essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, perciocché stai sempre col capo chinato e guardi le oscure cose della terra, laonde sei infermato e caduto in pericolosa malattia. Ma se tu dirizzassi il capo e guardassi il cielo e le dilettevoli cose del cielo considerassi, come dee fare uomo naturalemente, e d’ogni tua malattia saresti purgato, e vedresti la malizia de’ tuoi reggimenti, e sarestine dolente. Or non ti ricorda di quello che disse Boezio: che, «conciossiacosaché tutti gli altri animali guardino la terra e seguitino le cose terrene per natura, solo all’uomo è dato a guardare il cielo, e le celestiali cose contemplare e vedere»? — Quando la boce ebbe parlato,... si riposò una pezza, aspettando se alcuna cosa rispondessi o dicessi; e vedendo che stava mutolo, e di favellare neuno sembiante facea, si rappressò verso me, e prese i ghironi del suo vestimento, e forbimmi gli occhi, i quali erano di molte lagrime gravati perduri pianti ch’io avea fatto... Allora apersi gli occhi, e guardaimi dintorno, e vidi appresso di me una figura bellissima e piacente, quanto piue innanzi fue possibile alla natura di fare. E della detta figura nascea una luce tanto grande e profonda, che abbagliava gli occhi di coloro che guardare la volíeno; sicché poche persone la poteano fermamente mirare. E della detta luce nasceano sette grandi e maravigliosi splendori che alluminavano tutto il mondo. E io vedendo la detta figura cosí bella e lucente, avvegna che avessi dallo incominciamento paura, m’assicurai tostamente, pensando che cosa rea non potea cosí chiara luce generare. Cominciai a guardare la figura tanto fermamente quanto la debolezza del mio viso poteva sofferire. E quando l’ebbi assai mirata, conobbi certamente ch’era la Filosofia, nelle cui magioni era giá lungamente dimorato. Allora incominciai a favellare e dissi: — Maestra delle virtudi, che vai tue facendo in tanta profonditá di notte per le magioni de’ servi tuoi?
Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la Filosofia, il cui costrutto è questo: che la vita terrestre è vita di prova; e la vera vita è in cielo, se però «porti in pace le pene e le tribulazioni di questo mondo, chi vuole essere verace figliuolo di Dio e non bastardo, pensando che, s’egli sará compagno di Dio nelle passioni, sará suo compagno nelle consolazioni». La Filosofia finisce con questo lamento:
O umana generazione, quanto se’ piena di vanagloria, ed hai gli occhi della mente e non vedi! Tu ti rallegri delle ricchezze e della gloria del mondo, e di compiere i desidèri della carne, che possono bastare quasi per uno momento di tempo, perché poco basta la vita dell’uomo: e queste sono veracemente la morte tua, perché meritano nell’altro mondo molte pene eternali. E della povertá e delle tribulazioni del mondo ti turbi e lamenti, che poco tempo possono durare: e queste sono veracemente la tua vita, perché, se si comportano in pace, meritano nell’altro mondo molta gloria perpetuale... Disse uno savio: «Quello che ne diletta nel mondo è cosa di momento, e quello che ne tormenta nell’altro durerae mai sempre».
Questo era il tèma comune delle prediche, salvo che qui il predicatore è la Filosofia, che si fa interprete di Dio, e cita Salomone e san Pietro e i santi padri. Questo concetto è l’idea fondamentale della «leggenda», una storia fantastica la cui base è il peccatore condannato o redento. In queste leggende Dio e il demonio sono gli attori principali: Dio che co’ suoi angioli e le sue virtú tira l’anima alla rinunzia de’ beni terrestri e alla contemplazione delle cose celesti, e il demonio che la tiene stretta e affezionata alla terra. L’uomo, mosso delle naturali inclinazioni, vende l’anima al demonio pur d’essere felice in terra; e lo spettacolo finisce nelle tenebre e nel fuoco dell’inferno. Ma spesso la tragedia si solve nella commedia, cioè nel trionfo e nel gaudio dell’anima, quando, aiutata dalla divina grazia, sa riscattarsi dal demonio e acquistare il paradiso. Questa lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi, che nella Introduzione alle virtú del Giamboni la Filosofia mostra al suo servo, perché in quella immagine fortifichi la sua fede. Questa è pure la base della leggenda del dottore Fausto che vendé l’anima al diavolo, leggenda cosí popolare al medio evo e resa immortale da Goethe. E questo è anche il concetto del mondo lirico dantesco, dove Beatrice diviene la Filosofia, e le gioie e i dolori dell’amore terrestre svaniscono nella contemplazione intellettuale della Scienza.
Cosí il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso concetto, esposto in prosa e in poesia. Brunetto, Giamboni e Dante s’incontrano nella stessa idea o, per dir meglio, era questa l’idea comune, elaborata in tutto il medio evo e che sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta, consapevole di sé. Ma in prosa non trovò quell’adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo lirico. Mancò la leggenda com’era mancata la novella, e mancò il romanzo religioso o spirituale com’era mancato il romanzo cavalleresco. Lo scrittore è piú intento a raccogliere che a produrre. Fra tanti Fiori e Giardini e Tesori manca l’albero della vita, l’anima impressionata e fatta attiva che produca. Ci è un lavoro di traduzione e di compilazione, non ci è ancora un lavoro di assimilazione e tanto meno di produzione. Le ricchezze son tante, che tutta l’attivitá dello spirito è consumata a raccoglierle anzi che a crearne di nuove. Senti una stanchezza a leggere queste traduzioni o compilazioni, dove niente è affermato senza un «ipse dixit», o piuttosto «ipsi dixerunt», tante e cosí accumulate sono le citazioni. E non ci è tregua, non digressioni, non varietá in questi Giardini, dove hai innanzi un cicerone insopportabile, sempre con la stessa voce e lo stesso tuono. Nessun movimento d’immaginazione o di affetto, nessun vestigio di narrazione o descrizione; l’esposizione didattica, il trattato, riempie l’intelletto e t’uccide l’anima. L’espressione piú chiara del secolo furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e compilatori infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le opere avanti accennate, ha tradotto pure le Storie di Paolo Orosio, l’Arte della guerra di Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di Martino Dumense.
La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltá, è di aver preparato il secolo appresso, lasciandogli in ereditá una ricca messe di cognizioni fatte volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel tradurre fu un esercizio utilissimo, che diede forma e stabilitá alla nuova lingua, e quella pieghevolezza ed evidenza che viene dalla necessitá di rendere con esattezza il pensiero altrui. Principe de’ traduttori fu Bono Giamboni, cosí terso e fresco che molte pagine, con lievi correzioni, si direbbero scritte oggi, soprattutto dove sono descrizioni di animali o di virtú e di vizi.
In queste prose didattiche non ci è di arte neppure l’intenzione. Ai contemporanei di Cino, di Cavalcanti, di Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai povera cosa. E si venne confermando l’opinione che il volgare non fosse buono che a dire di amore, e che le materie gravi si dovessero trattare in latino, come costumavano gli scrittori di polso.