Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VI. Il Trecento

VI. Il Trecento

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V. I misteri e le visioni VII. La Commedia
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VI

IL TRECENTO


[Il Trecento attua le concezioni del Dugento — Il giubileo: quadro riassuntivo della vita italiana agli inizi del secolo — Il mondo dantesco come sintesi — Aspetti particolari di esso negli scrittori minori — La letteratura ascetica — I Fioretti — Le Vite del Cavalca — Lo Specchio del Passavanti — Le Lettere di Caterina da Siena — L’amore e la perfezione cristiana — Realizzazione della Commedia dell’anima — La prosa trecentesca — I volgarizzamenti dagli antichi e dalla letteratura cavalleresca — La letteratura del mondo reale. Cronache volgari e storie latine — Albertino Mussato e l’EccerinisDino Compagni — Dino e la sua ingenuitá politica — La forma della sua Cronaca — Fine della vita politica di Dante — Gli studi filosofici: il Convito e la seconda Beatrice — Il De vulgari eloquio e l’ideale della lingua comune — Il De monarchia e l’ideale politico — Cultura e intelletto di Dante — La sua prosa — Le due correnti, ascetico-popolare e filosofico-dotta, terminanti entrambe in astrattezze — In Dante non genio speculativo ma poetico, non investigazione ma realizzazione — Realizzazione della Commedia dell’anima.]


Quello che il secolo precedente concepi e preparò fu realizzato in questo secolo detto «aureo». I posteri compresero sotto questo nome tutto un periodo letterario, dove si trovano mescolati dugentisti e quattrocentisti. E in veritá le notizie cronologiche sono si scarse e incerte, che non è facile assegnare di ciascuno scrittore l’etá, seguire strettamente l’ordine del tempo. Al nostro scopo è piú utile seguire il cammino del pensiero e della forma nel suo sviluppo, senza violare le grandi divisioni cronologiche, ma senza cercare una precisione di date che ci farebbe sciupare il tempo in conietture e supposizioni di poco interesse. [p. 108 modifica]


Questo secolo s’apre con un grande atto, il giubileo, pontefice Bonifazio ottavo. Tutta la cristianitá concorse a Roma, d’ogni etá, d’ogni sesso, di ogni ordine e condizione, per ottenere il perdono de’ peccati e guadagnarsi la salute eterna. Tutti animava lo stesso concetto, espresso cosí variamente in tante prose e poesie: la maledizione del mondo e della carne, la vanitá de’ beni e delle cure terrestri e la vita cercata al di lá della vita. Il nuovo secolo cominciava consacrando in modo tanto solenne il pensiero comune nella varietá della cultura. I preti e i frati soprastavano nella riverenza pubblica, non solo pel carattere religioso ma per la dottrina, tenuta loro privilegio; tanto che il Villani loda di scienza Dante, aggiungendo: «benché laico», e i dotti uomini, benché laici, erano detti «chierici». Tutta la societá italiana, raccolta colá dallo stesso fine, rendeva una viva immagine di quel pensiero comune e di quella varia cultura. Vedevi i contemplanti, i romiti, i solitari del deserto e della cella col corpo macero da’ digiuni, da’cilizi e dalle vigilie, ritratti viventi de’ misteri e delle leggende. C’erano gli umili di spirito, animati da schietto sentimento religioso e che tenevano la scienza come cosa profana; e ci erano i dotti, i predicatori e i confessori, il cui testo era la Bibbia e i santi padri. Vedevi gli scolastici e gli eruditi, teologi e filosofi, che univano in una comune ammirazione i classici e i santi padri, disputatori sottili di tutte le cose e anche delle cose di fede; parlanti un latino d’uso e di scuola, vibrato, rapido, vivace, dove sentivi il volgare destinato a succedergli; amici della filosofia con quello stesso ardore di fede che gli altri si professavano servi del Signore, ma di una filosofia non ripugnante alla fede, anzi sostegno, illustrazione e ragione di quella, confortata da sillogismi e da sentenze e da citazioni, dove trovi spesso Tullio accanto a san Paolo. Alteri della loro scienza e del loro latino, spregiatori del volgare, da costoro uscivano que’ trattati, que’ conienti, quelle «somme», quelle storie, che empivano di maraviglia il mondo. Accanto a questi veggenti della fede e della filosofia, a questa vita dello spirito, trovi la vita attiva e temporale, affratellati dallo stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali e i priori e gli anziani [p. 109 modifica]delle repubbliche, il cavaliere de’ romanzi e il mercatante delle cronache. Lá, appiè del Coliseo, un ardito negoziante, Giovanni Villani, pensò che la sua Fiorenza, figliuola di Roma, era non meno degna di avere una storia, e la scrisse. Fra tanto splendore e potenza del chiericato, lo spregiato laico cominciava a levare la testa e pensava all’antica Roma e a Firenze, figliuola di Roma. Lá molte amicizie si strinsero, molte paci si fecero, come avviene in certi grandi momenti della storia umana; sparirono guelfi e ghibellini, ottimati e popolari, baroni e vassalli, stretti tutti ad una sola bandiera, uno Dio, uno papa, uno imperatore. Lá il papato ebbe l’ultimo suo gran giorno, l’ultimo sogno di monarchia universale, rotto per sempre dallo schiaffo di Anagni.

Il giubileo ci dá una immagine di quello che dovea essere la letteratura nel secolo decimoquarto. Ebbe dal secolo antecedente la sua materia, i suoi istrumenti e il suo concetto, del quale il giubileo fu una cosí splendida manifestazione. Ma quel concetto, rimaso nella sua astrazione intellettuale e allegorica, con cosí scarsi inizi di rappresentazione ne’ misteri e nelle visioni, ancora senza nome altro che di Beatrice, breve apparizione, svaporata subito nelle astrattezze della scienza, ebbe nel Trecento la sua vita e venne a perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di quel secolo.

L’uomo, che dovea dare il suo nome al secolo, avea giá trentatré anni, avea creato Beatrice e volgea nella mente non so che piú ardito, che dovesse abbracciare tutta l’umanitá. Tenzonava nel suo capo il filosofo e il poeta: ci era il Convito e ci era la Commedia. Ma, per apprezzare piú degnamente quella vasta sintesi che ne usci, è bene preceda l’analisi, studiando la fisonomia del secolo negl’ingegni piú modesti che non conobbero, di tutto quel mondo, se non questa o quella parte.

E c’incontriamo dapprima nella letteratura claustrale, ascetica, mistica, religiosa: continuazione in prosa di fra Iacopone, ma in una prosa piena di poesia. Domenico Cavalca, l’autore de’ Fioretti, Guido da Pisa, Bartolomeo da San Concordio, Iacopo Passavanti, Giovanni dalle Celle non sono scrittori astratti e [p. 110 modifica]impersonali come quelli del secolo innanzi; ma, anche volgarizzando, senti che quegli uomini prendono viva partecipazione a quello che scrivono, e vivono lá dentro, e ci lasciano l’impronta del loro carattere e della loro fisonomia intellettuale e morale. Usciamo dalle astrattezze de’ trattati e delle raccolte sotto nome di «fiori», «giardini» e «tesori», ed entriamo nella realtá della vita, nel vero giardino dell’arte. Perché questi uomini non ragionano, non disputano, e dí rado citano: la loro dottrina va poco al di lá della Bibbia e de’ santi padri; ma narrano quel medesimo che si rappresentava ne’ misteri, vite, leggende e visioni, e sono narrazioni piú vive e schiette che non i misteri del quattrocento, raffazzonamenti degli antichi, con piú liscio, ma dove desideri la puritá e semplicitá delle prime ispirazioni.

Gli scrittori son tutti frati ed hanno le qualitá degli uomini solitari, il candore, l’evidenza e l’affetto. Hanno l’ingenuitá di un fanciullo che sta con gli occhi aperti a sentire, e piú i fatti sono straordinari e maravigliosi, piú tende l’orecchio e tutto si beve: qualitá spiccatissima ne’ Fioretti di san Francesco, il piú amabile e caro di questi libri fanciulleschi. L’immaginazione concitata dalla solitudine presenta gli oggetti cosí vivi e propri che vengon fuori di un getto, non solo figurati ma animati e coloriti, caldi ancora dell’impressione fatta sullo scrittore. Nel quale l’affetto è tanto piú vivace e impetuoso e lirico, quanto la sua vita è piú astinente e compressa: quasi vendetta della natura, che grida piú alto dove ha piú contrasto. Non ci è in queste prose alcuna intenzione artistica, nessun vestigio di studio o di sforzo o di esitazione o di scelta; manca soprattutto il nesso, la distribuzione, la gradazione. Ma si conseguono tutti gli effetti dell’arte che nascono da movimenti sinceri e gagliardi dell’immaginazione e dell’affetto, e n’escon pagine animate, e potenti assai piú sul tuo spirito che non tanti romanzi moderni. Cito fra l’altro la storia di Abraam romito, che prende veste e costume di cavaliere mondano, e mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne per convertire la sua nipote Maria. Il suo incontro con Maria nella taverna, gli allettamenti lascivi di costei, la sua sorpresa e vergogna quando nel bel cavaliere [p. 111 modifica]scopre il suo zio, e i rimproveri affettuosi di lui e le grida strazianti e disperate della bella pentita sono una vera scena drammatica, alla quale non trovi niente comparabile nel teatro italiano. In queste Vite del Cavalca, che sono traduzioni, ma per la freschezza e spontaneitá del dettato e per la commossa partecipazione del frate sono cosa originale, il concetto del secolo, uscito dalle astrattezze teologiche e scolastiche, prende carne, acquista una esistenza morale e materiale. Il santo è esso medesimo il concetto divenuto persona, e la sua rappresentazione ti offre il nuovo mondo morale aperto al cristiano, fatto attivo e divenuto storia, la storia del santo. Cardine di questo mondo morale è la realtá della vita nell’altro mondo e la guerra a tutti gl’istinti e affetti terreni, l’astinenza e la pazienza, il «sustine et abstine»; e però le sue virtú non esprimono altro che la vittoria dell’uomo sopra se stesso, sulla sua natura: indi l’umiltá, il perdono delle offese, la povertá, la castitá, l’ubbidienza. Se la vittoria fosse preceduta dalla lotta, lo spettacolo sarebbe sublime: ma il piú sovente il santo entra in iscena ch’è giá santo e nell’esercizio quieto delle sue cristiane virtú, interrotto a volte dalle tentazioni del demonio cacciato via da scongiuri e segni di croce: ciò che è grottesco piú che sublime. Il santo è troppo santo perché la sua vita possa offrirti una vera contraddizione e battaglia tra il cielo e la natura: ciò che rende cosí drammatica la vita di Agostino e di Paolo. Qui hai racconti uniformi, infinite ripetizioni, rarissimi contrasti, e spesso provi noia e stanchezza. La musa di queste cristiane virtú non è la forza e non è l’azione, ma è un certo languir d’amore, una effusione di teneri e dolci sentimenti, liriche aspirazioni ed estasi e orazioni, un impetuoso prorompere degli affetti naturali tosto sedato e riconciliato, il sacrificio ignorato e oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena dopo la morte. Una delle vite piú interessanti e popolari è quella di santo Alessio, che abbandona la nobile casa paterna e la sposa il di delle nozze, e va peregrinando e limosinando; e dopo molti anni, tornato in patria, serve non conosciuto in casa il padre, e non si scopre alla madre e alla sposa, e i servi gli dánno le guanciate, e lui umile [p. 112 modifica]e paziente. Questa vittoria sulla natura non fa effetto, perché in Alessio non ci è l’«homo sum», non ci è lotta, non la coscienza del sacrificio, parendo a lui naturale e facile esercizio di virtú quello che a noi uomini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile. L’innaturale è in lui natura: perfezione ascetica ma non artistica. L’interesse comincia quando la natura fa sentire il suo grido e col suo contrasto sublima il santo; quando, saputo il fatto, il pontefice con infinita moltitudine traendo a venerare il servo spregiato, si odono tra la folla queste grida: — «Prestatemi la via, datemi loco, fate che io vegga il figliuol mio, quello che ha succiato le mammelle mie». — E ragionando col cuore di madre, la donna accusa il figlio e lo chiama «senza cuore», e poi nel suo dolore lo glorifica e ricorda che i servi gli davano le guanciate. Scene simili non sono scarse in queste Vite: ricorderò la madre di Eugenia e Maria Maddalena, eloquentissima nelle sue lacrime.

Una vera intenzione artistica si scorge nello Specchio di penitenza di Passavanti, una raccolta di prediche ridotte in forma di trattati morali, accompagnati con leggende e visioni dell’altro mondo. Il frate mira a fare effetto, inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione de’ vizi e delle pene. La musa del Cavalca è l’amore, e la sua materia è il paradiso, che tu pregusti in quello spirito di caritá e di mansuetudine, che comunica alla prosa tanta soavitá e morbidezza di colorito. La musa del Passavanti è il terrore, e la sua materia è il vizio e l’inferno, rappresentato meno nel suo grottesco e nella sua mitologia che nel suo carattere umano, come il rimorso è il grido della coscienza. Intralciato e monotono nel discorso, il suo stile è rapido, liquido, pittoresco nel racconto. Diresti che provi voluttá a spaventare e tormentare l’anima: cerca immagini, accessorii, colori, come istrumenti della tortura, e ti lascia sgomento e assediato da fantasmi. Il periodo spesso ben congegnato, svelto e libero, la cura de’ nessi e de’ passaggi, la distribuzione degli accessorii e de’ colori, l’intelligenza delle gradazioni, un sentimento di armonia cupo che accompagna lo spettacolo, fanno del Passavanti l’artista di questo mondo ascetico. [p. 113 modifica]

Ma ecco, fra tante vite di santi, il santo in persona, scrittore e pittore di se medesimo, Caterina da Siena. Abbandonata la madre e i fratelli, resasi monaca, macerato il corpo co’ cilizi e digiuni, vive una vita di estasi e di visioni, e scrive in astrazione, anzi detta con una luciditá di spirito maravigliosa. Scrive a papi, a principi, a re e regine, come alla madre, a’ fratelli, a frati e suore, dall’altezza della sua santitá, con lo stesso tono di amorevole superioritá. Nelle piú intricate faccende prende il suo partito risolutamente, consigliando e quasi comandando quella condotta che le pare conforme alla dottrina di Cristo. Ho detto «pare» e dovrei dire «è», perché nessun dubbio o esitazione è nel suo spirito, e le dottrine piú astruse e mentali le sono cosí chiare e sicure come le cose che vede e tocca. Ha la visione dell’astratto e lo rende come corpo, anzi fa del corpo la luce e la faccia di quello. Indi un linguaggio figurato e metaforico, spesso sazievole, talora continuato sino all’assurdo. È un po’ il fare biblico, un po’ vezzo de’ tempi; ma è pure forma naturale della sua mente. Vivendo in ispirito, le cose dello spirito le si affacciano palpabili e visibili come materia; e cosí come vede Cristo e angioli, vede le idee e i pensieri. È una regione spirituale, divenutale per lungo uso cosí familiare che ne ha fatto il suo mondo e il suo corpo. Questa chiarezza d’intuizione, accompagnata con la squisita sensibilitá e la perfetta sinceritá della fede, le fanno trovare forme delicate e peregrine, degne di un artista. Ma le spesse ripetizioni, l’esposizione didattica, quell’incalzare di consigli, di esortazioni e di precetti, senza tregua o riposo, rendono il libro sazievole e monotono.

In queste lettere di Caterina quel mondo morale, rappresentato nelle vite, nelle estasi, nelle visioni de’ santi, è sviluppato come dottrina in tutta la sua rigiditá ascetica. È il codice d’amore della cristianitá. La perfezione è «morire a se stesso», secondo la sua frase energica, morire alla volontá, alle inclinazioni, agli affetti umani, sino all’amore de’ figli; e tutto riferire a Dio, di tutto fare olocausto a Dio. Il suo amore verso Cristo ha tutte le tenerezze di un amore di donna, che si sfoga a quel modo, lei inconscia. L’ultima frase di ogni sua lettera è: «Annegatevi, [p. 114 modifica]bagnatevi nel sangue di Cristo». Ardente è la sua caritá pel prossimo: «Amatevi, amatevi», grida la santa; e predica pace, concordia, umiltá, perdono: voce inascoltata. La regina Giovanna rispondea alla santa con riverenza, e continuava la vita immonda Lo scisma giungeva al sangue nelle vie di Roma. Piú alto e puro era l’ideale della santa, meno era efficace sugli uomini. La sua vita si può compendiare in due parole: amore e morte. Celebre è la sua lettera sul condannato a morte, da lei assistito negli ultimi momenti: «Teneva il capo suo in sul petto mio. Io allora sentiva un giubilo e uno odore del sangue suo; e non era senza l’odore del mio, il quale io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesú». Il sangue di Cristo la esalta, la inebbria di voluttá. Ad una serva di Dio scrive: «Inebriatevi del sangue, saziatevi del sangue, vestitevi del sangue». «Sudare sangue», «trasformarsi nel sangue», «bere l’affetto e l’amore nel sangue», sono immagini di questo lirismo. Della cella si fa «un cielo», e vi gusta «il bene degl’immortali, obumbrandola Dio di un gran fuoco d’amore». Nella estasi o visione o esaltazione di mente, è gittata giú e le pare come se l’anima sia partita dal corpo. Il corpo pareva quasi venuto meno. Le membra del corpo, dice Caterina, si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco. E altrove: «Nel corpo a me non pareva essere, ma vedevo il corpo mio come §e fosse stato un altro». Questi ardori d’anima, queste illuminazioni di mente, questi martiri d’amore sono espressi con una semplicitá ed evidenza che testimoniano la sua sinceritá. L’anima «innamorata e ansietata d’amore, affogata» dal desiderio «crociato» o della croce, «annegata la propria volontá» nell’amore del «dolce e innamorato Verbo», vive nel corpo come fosse fuori di quello. Posto il suo amore al di lá della vita, vive morendo, dimorando con la mente al di lá della vita. Ma questa morte spirituale non l’appaga: «muoio e non posso morire», dice la santa. Gli ultimi giorni furono battaglie con le dimonia e colloqui con Cristo, e a trentatré anni fini la vita, consumata dal desiderio.

La «commedia dell’anima» è ora pienamente realizzata nel suo aspetto religioso, come espressione letteraria. Quell’anima [p. 115 modifica]ora ha un nome, è una persona: Alessio, Eugenia, Caterina. Il demonio e la carne sono un mondo pieno di vita ne’ racconti del Passavanti. Quelle virtú allegoriche, che escono in processione sulla scena, sono le opere, le volontá, le passioni e i pensieri de’ santi. E la divina commedia, la trasfigurazione e la glorificazione dell’anima, la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra i canti degli angioli, qui sono estasi, rapimenti dell’anima, colloqui con Dio, mistica unione con Cristo e, dopo la morte, la santificazione e la contemplazione nell’eterna luce. Quel concetto è uscito dall’astrattezza della scienza e dell’allegoria, dalla sua vuota generalitá, e si è incarnato, è divenuto uomo. La prosa italiana in questa letteratura acquista evidenza, colorito, caldezza di affetto, in un andar semplice e naturale, specialmente quando vi si esprimono sentimenti dolci e ingenui. È perfetto esemplare di stile cristiano, guasto dipoi. Alla sua perfezione manca un piú sicuro nesso logico, maggiore sobrietá e scelta di accessorii ed una formazione grammaticale e meccanica piú corretta. Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a ciò che di piú perfetto è nella prosa moderna. L’Imitazione di Cristo è certo prosa superiore, scritta in tempo di maggior coltura. Ci è una maggiore virilitá intellettuale, una logica piú stretta, e pura di quella pedanteria scolastica che inseguiva i frati fino nel convento. Ma non è superiore quanto a quelle qualitá organiche, dove è il segreto della vita, la schiettezza dell’ispirazione e il calore dell’affetto; e spesso in quella prosa, mirabile di precisione e di proprietá, desideri l’energia e l’intuizione di Caterina.

Né questa prosa era giá fattura di un solo o di pochi, perché la trovi anche ne’ minori che scrivevano delle cose dello spirito. Citerò una lettera di un discepolo di Caterina, che annunzia la sua morte:


Credo che tu sappi come la nostra reverendissima e carissima mamma se ne andò in paradiso domenica, addi ventinove d’aprile [i380]. Lodato ne sia il Salvatore nostro, Gesú Cristo crocifisso benedetto! A me ne pare essere rimaso orfano, peroché di lei avevo ogni consolazione, e non mi posso tenere di piagnere. E non [p. 116 modifica]piango lei, ma piango me, che honne perduto tanto bene. Non potevo fare maggiore perdita, e tu ’l sai... Della mamma si vole fare allegrezza e festa, quanto ch’è per lei; ma di quelli suoi e di quelle, che sono rimasi in questa misera vita, ène da piagnere e da avere compassione grandissima. Con veruna persona mi so dare dolore quanto che con teco, che mi fusti cagione d’acquistare tanto bene. Prendo alcuno conforto, perché nel mio cuore ène rimasa e incarnata la mamma nostra assai piú che non era in prima; e ora me la pare bene conoscere. Ché noi miseri n’avevamo tanta copia, che non la conoscevamo e non savamo degni della sua presenzia... Carissimo fratello, io son fatto tanto ismemoriato del bene che hone perduto, che io ti scrivo anfanando. E però di ciò non ti scrivo piú.


Lo stesso stile è in Giovanni dalle Celle, Stefano Maconi e altri frati. Ecco in che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni particolari della fine di Caterina:


Nella domenica di sessagesima svenne e perdé il vigore di sanitá, mantenutole dalla forza dello spirito e che non pareva scemarsi per inedia. Il di poi, un altro svenimento la lasciò lungamente come morta: se non che, risentitasi, stette in piedi come se nulla fosse. Cominciò la quaresima colle solite pratiche, esercizio a lei di consolazioni angosciose. Ogni mattina, dopo la comunione, le è forza rimettersi sfinita a letto. Di li a due ore usciva a San Pietro un buon miglio di strada, e li stava orando infino a vespro. Cosi fino alla terza domenica di quaresima, quando il male la spossò. E per otto settimane giacque senza potere alzare il capo, tutta dolori. A ogni nuovo spasimo, alzando gli occhi, ne ringraziava Dio lieta. Alla domenica innanzi l’Ascensione, il corpo non era ornai piú che uno scheletro; dal mezzo in giú senza moto, ma nel volto raggiante la vita. Debole; un alito di respiro; pareva in fine; e le fu data l’estrema unzione.


Questa eccellenza di dettato trovi pure ne’ volgarizzamenti de’ classici o di romanzi e storie allora in voga, come sono i volgarizzamenti di Livio e di Sallustio, i Fatti di Enea, gli Ammaestramenti degli antichi, voltati da Bartolomeo da San Concordio con un nerbo ed una vigoria degna del traduttore di Sallustio. È una prosa adulta, spedita, calda, immaginosa, spesso [p. 117 modifica]colorita, con tutto l’andare di lingua viva e parlata, giá nel suo fiore.

I romanzi operavano sul popolo non meno vivamente che la letteratura spirituale. Nella sua immaginazione si confondea il cavaliere di Cristo e il cavaliere di Carlomagno, e con la stessa aviditá leggea la vita di Alessio e i fatti di Enea, e gli amori di Lancillotto e Ginevra. Caterina trae dalla cavalleria molte sue immagini. Chiama Cristo un «dolce cavaliere», «cavaliere dolcemente armato»; chiama la Redenzione un «torneo della morte colla vita». Ma la letteratura cavalleresca rimase stazionaria e non produsse alcun lavoro originale. Le traduzioni sono fatte senza intenzione seria, in prosa scarna e trascurata, posto il diletto nel maraviglioso de’ fatti. Agli stessi traduttori è materia frivola, buona per passare il tempo, e non vi partecipano, non sentono colá dentro il loro mondo e la loro vita.

Accanto a questo mondo dello spirito e dell’immaginazione c’era il mondo reale, il mondo della carne o della vita terrena, come si dicea, che si potea maledire ma non uccidere. Era la cronaca, memoria di per di de’ fatti che succedevano, inanime come il dizionario o come la lista delle spese. Quelli, che ne scrivevano con qualche intenzione artistica, la dettavano in latino e la chiamavano «storia». Latini erano anche i trattati scientifici e i lavori propriamente d’arte. Quella letteratura spirituale e cavalleresca rimanea circoscritta al popolo ed era tenuta in poco conto da’ dotti. Costoro spregiavano il volgare, come buono solo a dir d’amore e di cose frivole, e le gravi faccende della vita le trattavano in latino. Di questi illustre per ingegno, per coltura e per patriottismo fu Albertino Mussato, coronato poeta in Padova, sua patria. Abbiamo di lui molte opere, alcune ancora inedite. Scrisse in quattordici libri De gestis Henrici septimi Caesaris, e anche De gestis italicorum post mortem Henrici septimi, in dodici libri, de’ quali alcuni sono in versi esametri. Fece epistole, egloghe, elegie e due tragedie, l’Achilleis e l’Eccerinis. Quest’ultima rappresenta la tirannide di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del demonio, e la vittoria de’ comuni, collegati contro di lui. È narrazione piú che azione, [p. 118 modifica]come ne’ misteri: un narrare serrato e nervoso, le cui impressioni patetiche e morali sono espresse dal coro. Sotto a quel latino ossuto e asciutto palpita l’anima del medio evo. Senti una societá ancor rozza, selvaggia negli odii e nelle vendette, senza misura nelle passioni, poco riflessiva, di proporzioni epiche anche in forma drammatica. Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in modo che n’esca fuori un personaggio drammatico. Egli rimane ravvolto nel suo manto epico, come Farinata. È figlio del demonio, e lo sa e se ne gloria, e opera come genio del male, con piena coscienza: ciò che gli dá proporzioni colossali. Invoca il padre e dice:

                                    Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;
annue, Sala n, et filiutn talem proba.
     
E quest’uomo rimane cosí intero e tutto di un pezzo: manca l’analisi, senza di cui non è dramma. Il concetto della tragedia è piú morale che politico, quantunque il fatto sia altamente politico, rappresentando la lotta tra i comuni liberi e i tirannetti feudali. Certo, in Mussato c’è il guelfo e ci è il padovano, che l’ispira e l’appassiona. Ma il motivo tragico è affatto morale. Ezzelino è punito non perché offende la libertá ma perché opera celleratamente, e «qui gladio ferit, gladio perii»: ciò che è in bocca al coro la conclusione del fatto:
                                                                       Consors operum
meritum sequitur quisque suor uni.
     
È il concetto ascetico dell’inferno applicato anche alla vita terrestre. Questa nella sua prima apparizione letteraria è ancora nella sua generalitá morale, non è sviluppata nei suoi interessi ne’ suoi fini, nelle sue passioni e nelle sue idee politiche; di che solo può nascere il dramma. I! senso del reale era ancora troppo scarso perché il dramma fosse possibile. Non ci è il sentimento collettivo, non il partito e non la societá: ci è l’individuo appena analizzato, rappresentato buono o cattivo e retribuito secondo le opere; forma elementare della vita reale. Il feroce e il grottesco delle pene infernali hanno qui un riscontro nelle immani crudeltá di Ezzelino e nella immane punizione.
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Questo concetto morale, ancorché non ancora penetrato e sviluppato in tutti gli aspetti della vita, pure non è piú un motto, un proverbio, un ammaestramento, un «fabula docet», una esposizione didattica in prosa o in verso, come nel secolo scorso; ma la vita in atto, con tutt’i caratteri della personalitá, cosí nella vita contemplativa come nella vita attiva, cosí nel carbonaio del Passa vanti come nell’Ezzelino del Mussato. Onori straordinari furono conferiti al Mussato, tenuto pari a’ classici, quando i classici erano ancora cosí poco noti. Anche Venezia ebbe i suoi latinisti, che scrissero la sua storia: Andrea Dandolo e Martin Sanuto. Nell’Italia settentrionale abbondano le cronache latine. Il volgare vi si era poco sviluppato. E dappertutto teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina era insegnata e trattata in latino. Scrissero le loro opere in questa lingua Marsilio da Padova, Cino da Pistoia, Bartolo e Baldo.

Ma in Toscana il Malespini avea giá dato l’esempio di scrivere la cronaca in volgare. E Dino Compagni segui l’esempio, scrivendo in volgare i fatti di Firenze dal i270 ai i3i2. Attore e spettatore, prende una viva partecipazione a quello che narra, e schizza con mano sicura immortali ritratti. Non è questa una cronaca, una semplice memoria di fatti: tutto si move, tutto è rappresentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni; e a tutto lo scrittore è presente, si mescola in tutto, esprime altamente le sue impressioni e i suoi giudizi. Cosi è uscita di sotto alla sua penna una storia indimenticabile.

Questa storia è una immane catastrofe, da lui preveduta e non potuta impedire. E non si accorge che di quella catastrofe cagione non ultima fu lui. O piuttosto ne ha un’oscura coscienza, quando con quel tale senno di poi dice: — Oh, se avessi saputo! Ma chi poteva pensare? — Ma Dino peccò per soverchia bontá d’animo; gli altri peccarono per malizia, e Dino li flagella a sangue. Era Bianco; ma piú che Bianco, era onesto uomo e patriota. Gli parea che que’ Neri e que’ Bianchi, quei Donati e quei Cerchi, non fossero divisi da altro che da gara [p. 120 modifica]d’uffici; e gli parea che, partendo ugualmente gli uffici, quelle discordie avessero a cessare. Gli parea pure che tutti amassero la cittá come facea lui, e fossero pronti per la sua libertá e il suo decoro a fare il sacrificio de’ loro odii e delle loro cupidigie. E gli parea che uomo di sangue regio non potesse mentire né spergiurare, e che nessuno potesse mancare alle promesse, quando fossero messe in carta. E anche questo gli parea: che gli amici stessero saldi intorno a lui e che ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire. Che cosa non parea al buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo della repubblica. È la prima volta che si trova in presenza la morale com’era in Albertano giudice e come fu poi in Caterina, la morale de’ libri e la morale del mondo. E la contraddizione balza fuori con tutta l’energia di una prima impressione. Il brav’uomo al contatto del mondo reale cade di disinganno in disinganno, e ciascuna volta rivela la sua ingenuitá con un accento di maraviglia e d’indignazione. Immaginatevelo alle prese con Bonifazio ottavo, Carlo di Valois e Corso Donati, ciò che di piú astuto e violento era a quel tempo. L’energia del sentimento morale offeso è il segreto della sua eloquenza. Qui non ci è nessuna intenzione letteraria: la narrazione procede rapida, naturale, sino alla rozzezza. Vi è un materiale crudo e accumulato e mescolato, senza ordine o scelta o distribuzione; ignota è l’arte del subordinare e del graduare; mancano i passaggi e le giunture; il fatto è spesso strozzato; spesso il colorito è un po’ risentito e teso: difetti di composizione gravi. Pure le qualitá essenziali che rendono un libro immortale stanno qui dentro: la sinceritá dell’ispirazione, l’energia e la puritá del sentimento morale, la compiuta personalitá dello scrittore e del tempo, la maraviglia, l’indignazione, il dolore, la passione del cronista, che comunica a tutto moto e vita.

In tempi meno torbidi Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca di Firenze sino al i348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo. Mira a dar memoria de’ fatti, pigliandoli dove li trova, e spesso copiando o compendiando i cronisti che lo precessero. Sono nudi fatti, raccolti con scrupolosa diligenza, anche [p. 121 modifica]i piú minuti e familiari, della vita fiorentina, come le derrate, i drappi, le monete, i prestiti: materiale prezioso per la storia. Ma questa cruda realtá, scompagnata dalla vita interiore che la produce, è priva di colorito e di fisonomia e riesce monotona e sazievole.

La Cronaca di Dino e le tre Cronache de’ Giovanni Villani comprendono il secolo. La prima narra la caduta de’ Bianchi, le altre raccontano il regno de’ Neri. Tra’ vinti erano Dino e Dante, tra’ vincitori erano i Villani. Questi raccontano con quieta indifferenza, come facessero un inventario; quelli scrivono la storia col pugnale. Chi si appaga della superficie, legga i Villani; ma chi vuol conoscere le passioni, i costumi, i caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino.

Finora non abbiamo creduto necessario di entrare nel vivo della storia, perché gli scrittori, o ascetici o cavallereschi o didattici, scrivono come segregati dal mondo. Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che racconta sono i fatti suoi, parte della sua vita; e la sua Cronaca è lo specchio del tempo, non nelle regioni astratte della scienza o nel fantastico della cavalleria e dell’ascetica, ma nella realtá della vita pubblica.

I partiti che straziavano Firenze, con nomi venuti da Pistoia, erano detti i Neri e i Bianchi, gli uni capitanati da’ Donati e gli altri da’ Cerchi, famiglie potentissime di ricchezza e di aderenze. Dante sperò di poter pacificare la cittá, mandando in esilio i due piú potenti e irrequieti capi delle due fazioni, Corso Donati e Guido Cavalcanti. Venuto malato, il Cavalcanti fu richiamato, ma non Corso Donati: di che si menò molto scalpore, massime che Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.

I Neri erano guelfi puri e si appoggiavano sui popolani e sul papa, vicino influente e centro di tutti gl’intrighi e le cospirazioni guelfe. Bonifazio ottavo, venuto dopo il giubileo in maggior superbia, avea chiamato a sé con molte promesse Carlo di Valois, detto per dispregio «senza terra», e mandatolo a P’irenze sotto colore di pacificare la cittá, ma col proposito di ristorarvi la parte nera. Qui comincia il dramma, esposto con si vivi colori dal nostro Dino nel libro secondo. [p. 122 modifica]

Dante si lasciò persuadere di andare legato a Roma. Si dice abbia detto: — Se io vado, chi resta? — Restò il povero Dino. Certo, l’opera di Dante sarebbe stata piú utile a Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversari. A Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e non concluse nulla. Dino comincia il racconto con stile concitato. Sembra un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:


Levatevi, o malvagi cittadini pieni di scandoli, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani ed istendete le vostre malizie... Non penate piú: andate e mettete in ruina le bellezze della vostra cittá. Spandete il sangue de’ vostri fratelli, spogliatevi della fede e dell’amore, nieghi l’uno all’altro aiuto e servigio... Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? pur quella del mondo rende una per una... Non v’indugiate, miseri: ché piú si consuma in uno di nella guerra, che molt’anni non si guadagna in pace; e picciola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.


Qui non ci è l’uomo politico. Ci è la realtá vista da un aspetto puramente morale e religioso, come negli ascetici: il concetto è lo stesso, la materia è diversa. Considerata cosí, la realtá riesce al buon Dino altra che non pensava; e in luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la realtá e la maledice. I suoi errori nascono dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose, si che divenne il trastullo degli uni e degli altri: perdette lo Stato e fu calunniato, come avviene a’ vinti. Allora prende la penna e li maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale ingenuitá che, se le male passioni degli altri son manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontá.

Mentre gli ambasciatori armeggiano con Bonifazio, largo promettitore purché «sia ubbidita la sua volontá», furono in Firenze eletti i nuovi signori, e Dino fu di quelli. Piacque la scelta, perché «uomini non sospetti e buoni,... sanza baldanza, e aveano voluntá d’accomunare gli ufici, dicendo: — Questo è l’ultimo rimedio». — Questo è il giudizio che porta Dino di sé e de’ colleglli. Ma «i loro avversari n’ebbono speranza, perché li conosceano [p. 123 modifica]uomini deboli e pacifici, i quali sotto spezie di pace credeano leggermente poterli ingannare». Che buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.

I Neri, «a quattro e a sei insieme», preso accordo fra loro, li andavano a visitare e diceano: — «Voi sèie buoni uomini, e di tali avea bisogno la nostra cittá. Voi vedete la discordia de’ cittadini vostri: a voi la conviene pacificare, o la cittá perirá. Voi séte quelli che avete la balia, e noi a ciò fare vi proferiamo l’avere e le persone di buono e leale animo». — E benché «di cosí false profferte dubitassero, credendo che la loro malizia coprissono con... falso parlare», pure Dino per commessione de’ suoi compagni rispose: — «Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri e cominciare vogliamo a usarle; e richieggiamvi che voi ci consigliate, e pognate l’animo a guisa che la nostra cittá debba posare». — Che scellerati! e che buoni uomini! Non si può meglio rappresentare la malizia degli uni e l’innocenza degli altri. Scrivendo dopo i fatti, Dino si picchia il petto e dice il mea culpa: «E cosí perdemmo il primo tempo, ché non ardimmo a chiudere le porte né a cessare l’udienza a’ cittadini... Demmo loro intendimento di trattare pace, quando si convenia arrotare i ferri».

Poiché si trattava la pace, i Bianchi smessero dalle offese e i Neri presero baldanza. E Dino confessa questo primo effetto della sua bontá: «La gente, che tenea co’ Cerchi, ne prese viltá, dicendo: — Non è da darsi fatica, ché pace sará. — E i loro avversari pensavano pur di compiere le loro malizie!».

La voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito contrario a’ Cerchi e che Carlo di Valois veniva in Firenze, dovea aver tanto imbaldanzito i Neri, che a costoro pareva un atto di debolezza e di paura quello che in Dino era ispirato da sincero amore di concordia. E quelle pratiche di pace spacciavano covare sotto un tradimento. La forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza morale passava agli avversari, piú audaci e confidenti in vicina vittoria. Giá ci era un’altra aria in cittá. Non pur gl’indifferenti, ma anche noti seguaci de’ Cerchi mutavano lingua. Sicché l’oratore di Carlo riferí che «la parte de’ [p. 124 modifica]Donati era assai inalzata e la parte de’ Cerchi era assai abbassata», veggendo come, dopo le sue parole, «molti dicitori si levarono in piè, affocati per dire e magnificare messer Carlo».

Dino, volendo negare l’ingresso a Carlo e non osando prendere su di sé la cosa, «essendo la novitá grande», si rimise al suffragio de’ suoi concittadini. Fu un plebiscito fatto dal debole e che riuscí in favore de’ forti: solito costume de’ popoli e il buon Dino noi sapea. I soli fornai si mostrarono uomini, dicendo che «né ricevuto né onorato fusse, perché venia per distruggere la cittá».

Dino credette trovare il rimedio, chiedendo a Carlo «lettere bollate, che non acquisterebbe... niuna giurisdizione, né occuperebbe niuno onore della cittá, né per titolo d’imperio né per altra cagione, né le leggi della cittá muterebbe né l’uso». Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera, e provvide che il passo gli fosse negato e vietata «la vivanda». Ma la lettera venne, e «io la vidi e feci copiare...; e quando fu venuto, io lo domandai se di sua volantá era scritta. Rispose: — Si, certamente». — Ora che Dino ha la lettera in tasca, può viver sicuro.

E gli viene «un santo e onesto pensiero, imaginando: — Questo signore verrá, e tutti i cittadini troverrá divisi: di che grande scandolo ne seguirá». — Onde li rauna nella chiesa di San Giovanni, e loro fa un fervorino, perché «sopra a quel sacrato fonte onde trassero il santo battesimo» giurino buona e perfetta pace. Le parole di Dino sono di quella eloquenza semplice e commovente che viene dal cuore. In quei tempi di lotte cosí accese, il sentimento della concordia era tanto piú vivo negli animi buoni e onesti, da Albertano a Caterina. E non so che in Caterina si trovino parole, nella loro semplicitá, cosí affettuose come queste di Dino: «Signori, perché volete voi confondere e disfare una cosí buona cittá? Contro a chi volete pugnare? contro a’ vostri fratelli? Che vettoria arete? non altro che pianto».

Tutti giurarono; e Dino aggiunge con amarezza: «I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano lagrime e baciavono il [p. 125 modifica]libro,... furono i principali alla distruzione della cittá». Povero Dino! e si affligge il brav’uomo e si pente, e «di quel saramento molte lacrime sparsi, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia».

Carlo venne, e diètrogli, dicendo che vernano a onorare il signore, lucchesi, perugini, e Cante d’Agobbio e molti altri, a sei e dieci per volta, tutti avversari de’ Cerchi; e «ciascuno si mostrava amico». Dino fece il ponte d’oro al nemico che entra, contro il proverbio. E Carlo ebbe in Firenze milledugento cavalli. Che fa Dino? Sceglie quaranta cittadini di amendue le parti, perché provveggano alla salvezza della terra. Ciò che ci era negli animi è qui scolpito in pochi tratti:«Quelli che aveano reo proponimento non parlavano; gli altri aveano perduto il vigore. Baldino Falconieri, uomo vile, dicea: — Signori, io sto bene, perché non dormia sicuro». — Lapo Saltarelli, per riamicarsi il papa, ingiuria la Signoria e tiene in casa nascosto un confinato. Albertano del Giudice monta in ringhiera e biasima i signori. Pare coraggio civile, ed è viltá e diserzione. I nemici tacciono. Gli amici ingiuriano per farsi grazia. Cominciano i tradimenti:«I priori scrissono al papa segretamente; ma tutto seppe la parte nera, peroché quelli che giurarono credenza non la tennono».

Alfine Dino si risolve ad accomunare gli uffici, parlando «umilmente... con gran tenerezza dello scampo della cittá». Ma era troppo tardi. I Neri non volevano parte, ma tutto:


E Noffo Guidi parlò e disse: — Io dirò cosa che tu mi terrai crudele cittadino. — E io gli dissi che tacesse: e pur parlò, e fu di tanta arroganza, che mi domandò che mi piacesse far la loro parte, nell’ufficio, maggiore che l’altra; che tanto fu adire quanto: — Disfa’ l’altra parte, — e me porre in luogo di Giuda. E io li risposi che, innanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei figliuoli a mangiare a’ cani.


Carlo volea in mano i signori, e li facea spesso invitare a mangiare. E quelli si ricusavano, adducendo che la legge li costringea che fare non lo potevano; ma era perché stimavano [p. 126 modifica]«che contro a loro volontá li arebbe ritenuti». Un giorno disse «che a Santa Maria Novella fuori della terra volea parlamentare..., e che piacesse alla Signoria esservi». Dino vi mandò tre soli de’ compagni: «a’ quali niente disse, come colui che non volea parole, ma si uccidere»:


Molti cittadini si dolsono di noi per quella andata, parendo loro che andassono al martirio. E quando furono tornati, lodavano Iddio che da morte gli avea scampati.


Volevano, «se la Signoria vi fusse ita tutta», ucciderli «fuori della porta e correre la terra per loro». E Dino che facea?

C’è un brano stupendo, che è una pittura. Vedi come Dino passava i giorni, la sua incapacitá e i suoi affanni:


I signori erono stimolati da ogni parte. I buoni diceano che guardassono ben loro e la loro cittá. I rei li contendeano con quistioni. E tra le domande e le risposte il di se ne andava. I baroni di messer Carlo gli occupavano con lunghe parole. E cosí viveano con affanno.


Un rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: — Fate fare processione, «e del pericolo cesserá gran parte». — E Dino fece la processione, «e molti lo schernirono, dicendo che meglio era arrotare i ferri». E Dino conchiude, parlando di sé e de’ colleghi: «Niente giovò, perché usorono modi pacifici, e volevano essere repenti e forti. Niente vale l’umiltá contro alla grande malizia». Tutto ti è messo sott’occhio, come in una rappresentazione drammatica. Vedi i Neri in istrada, corrompere, far gente, mostrare la loro potenza. Diceano:


— Noi abbiamo il signore in casa, il papa è nostro protettore; gli avversari nostri non sono guerniti né da guerra né da pace; danari non hanno; i soldati non sono pagati. —


E misero in ordine «tutto ciò che a guerra bisognava,...invitati molti villani d’attorno e tutti gli sbanditi». I Neri si armavano; i Bianchi no, perché era contro la legge, e Dino minacciava di punirli. E ora che scrive, a scolparsi, nota che fu per avarizia, [p. 127 modifica]perché fece dire a’ Cerchi: — «Fornitevi, e ditelo agli amici vostri». —

I Neri, «conoscendo i nimici loro vili e che aveano perduto il vigore», vengono a‘ ferri. I Medici lasciano per morto Orlandi, un valoroso popolano. Si grida a’ priori: — Voi siete traditi, armatevi! —

Ecco finalmente sventolare sulle finestre il gonfalone di giustizia. Molti vanno «nascosamente... dal lato di parte nera». Ma traggono alla Signoria «i soldati che non erano corrotti», e altre genti e amici a piè e a cavallo. Era il momento di operare con vigore. Ma «i signori, non usi a guerra», erano «occupati da molti che voleano essere uditi; e in poco stante si fe’ notte». Il podestá non si fe’ vivo. Il capitano non si mosse, come «uomo piú atto a riposo e a pace che a guerra». «La ratinata gente non consigliò». Il giorno fini, e non si concluse nulla, e la gente stanca se ne andò, e ciascuno pensò a se stesso. E Dino cosa facea? Dava udienza.

I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone parole:


Li Spini diceano alli Scali. — Deh! perché facciamo noi cosí? Noi siamo pure amici e parenti, e tutti guelfi; noi non abbiamo altra intenzione che di levarci la catena di collo, che tiene il popolo a voi e a noi. E saremo maggiori che noi non siamo. Mercé per Dio, siamo una cosa, come noi dovemo essere. — ...Quelli, che riceveano tali parole, s’immollavano nel cuore,... e i loro seguaci invilirono.


I ghibellini, credendosi abbandonati, si smarrirono, e gli sbanditi si avvicinavano alla cittá. Come farli entrare? Carlo instava presso la Signoria perché si desse a lui la guardia della cittá e delle porte, ché farebbe de’ malfattori aspra giustizia. E sotto questo nascondea la sua malizia, nota l’arguto Dino. Ma l’arguto Dino gli dá la guardia delle porte d’Oltrarno! Bisogna proprio sentir lui:


Le chiavi gli furono negate, e le porti d’Oltrarno gli furono raccomandate, e levati ne furono i fiorentini e furonvi messi i franciosi. E messer Guglielmo cancelliere e ’l manescalco di messer [p. 128 modifica]Carlo giurarono nelle mani a me Dino, ricevente per Io comune... E mai credetti che uno tanto signore e della casa reale di Francia rompesse la sua fede: perché passò piccola parte della seguente notte, che per la porta, che noi gli demmo in guardia, die’ l’entrata a... molti... sbanditi.


Fatta la breccia, entrano gli altri. E i signori, venuta meno tutta la loro speranza, «deliberorono, quando i villani fussono venuti in loro soccorso, prendere la difesa». Che era quel prender tempo e non risolversi degli animi deboli. Furono vinti senza combattere. Tutti si gettarono lá dov’era la forza:


I malvagi villani gli abbandonarono... e i... famigli li tradirono... Molti soldati si volsono a servire i loro avversari. Il podestá... andava procurando in aiuto di messer Carlo.


Carlo manda i suoi a’ priori, «per occupare il giorno e il loro proponimento con lunghe parole. Giuravan che il loro signore si tenea tradito» e che farebbe la vendetta grande. — «Tenete per fermo che, se il nostro signore non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro modo, fateci levare la testa». — E ora che scrive, Dino aggiunge: «Non giurò messer Carlo il vero, perché [[[w:Corso Donati|Corso Donati]]] di sua saputa venne».

Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il comune, ma ad un patto: che si dieno a lui in custodia i piú potenti uomini delle due partí. E Dino consente:


I Neri v’andorono con fidanza, i Bianchi con temenza. Messer Carlo li fece guardare: i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne presi quella notte, sanza paglia e sanza materasse, come uomini micidiali.


Qui Dino non ne può piú e prorompe:


O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ove è la fede della rea! casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo vergogna? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di cosí alta corona fatto non soldato ma assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il nome della reai casa di Francia! [p. 129 modifica]

L’indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo. Come pensare che il sangue di san Luigi, un reale di Francia, fosse spergiuro e assassino?

Quando non ci era piú il rimedio, si corse al rimedio. Dino fa sonare la campana grossa, che era un chiamare alle armi. Ma nessuno usci: «La gente sbigottita non trasse. Di casa i Cerchi non usci uomo a cavallo né a piè armato».

Anche il cielo vi si mescola. Apparisce «una croce vermiglia sopra il palagio de’ priori»:


Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemmo comprendere che Iddio era fortemente contro alla nostra cittá crucciato.


La cittá per sei giorni fu messa a ruba. In pochi tocchi ti sta innanzi il quadro:


Gli uomini che temeano i loro avversari si nascondeano per le case de’ loro amici. L’uno nimico offendea l’altro; le case si cominciavano ad ardere; le ruberie si faceano, e fuggivansi gli arnesi alle case degl’impotenti. I Neri potenti domandavano danari a’ Bianchi: maritavansi fanciulle a forza; uccideansi uomini; e quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: — Che fuoco è quello? — Eragli risposto che era una capanna, quando era uno ricco palazzo.


I priori, moltiplicando il mal fare e non avendo rimedio, lasciarono il priorato. E venne al governo la parte nera. Dino fu il Pier Soderini di quel tempo, e fu a se stesso il suo Machiavelli. Nessuno può dipingerlo meglio che non fa egli medesimo.

In questa maravigliosa cronaca non ci è una parola di piú. Tutto è azione, che corre senza posa sino allo scioglimento. Ma è azione, dove paion fuori caratteri e passioni. Un motto, un tratto è un carattere. Carlo, dopo di aver tratto da’ fiorentini molti danari, va a Roma e chiede danari a Bonifazio. — Ma io ti ho mandato alla fonte dell’oro — risponde il papa. È una risposta che è un ritratto dell’uno e dell’altro. I discorsi sono sostanziosi, incisivi, non meno pittoreschi: vedi personaggi vivi, [p. 130 modifica]con la loro natura e i loro intendimenti, e fanno piú effetto che non le studiate e classiche orazioni venute poi. Uomo d’impressione piú che di pensiero, Dino intuisce uomini e cose a prima vista, e ne rende la fisonomia che non la puoi dimenticare. Di Bonifazio ottavo dice:


Fu di grande ardire e d’alto ingegno, e guidava la Chiesa a suo modo, e abbassava chi non gli consentia.


Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto:


Uno cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma piú crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, adorno di belli costumi, sottile d’ingegno, con l’animo sempre intento a mal fare (col quale molti masnadieri si raunavano, e gran séguito avea), molte arsioni e molte ruberie fece fare,... molto avere guadagnò e in grand’altezza sali. Costui fu messer Corso Donati, che per sua superbia fu chiamato «il barone», che, quando passava per la terra, molti gridavano: — Viva il barone! — E parea la terra sua. La vanagloria il guidava e molti servigi facea.


La stessa sicurezza è nella rappresentazione delle cose. Rapido, arido, tutto fatti, che balzan fuori coloriti dalle sue vivaci impressioni, dalla sua maraviglia, dalla sua indignazione. Una cosa soprattutto lo colpisce: che «molte lingue si cambiorono in pochi giorni». Non vi si sa rassegnare, e li chiama ad uno ad uno, e ricorda loro quello che diceano e quello che erano. Il mutarsi dell’animo secondo gli eventi non gli potea entrare:


Donato Alberti,... dove sono le tue arroganze, che ti nascondesti in una vile cucina?... O messer Lapo Salterelli, minacciatore e battitore de’ rettori che non ti serviano nelle tue quistioni, ove t’armasti? in casa i Pulci, stando nascoso... O messer Manetto Scali, che volevi esser tenuto si grande e temuto,... ove prendesti l’arme?... O voi popolani, che desideravate gli ufici e succiavate gli onori e occupavate i palagi de’ rettori, ove fu la vostra difesa? nelle menzogne, simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando i nemici, solamente per campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra cittá. [p. 131 modifica]

I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e ingenerose sono da lui rappresentati con lo stesso accento di maraviglia, come di cose non viste mai, e svegliano nel suo animo onesto una indignazione eloquente. Ed è da questi sentimenti che è uscito questo capolavoro di descrizione:


Molti nelle rie opere divennero grandi, i quali avanti nominati non erano; e nelle crudeli opere regnando, cacciarono molti cittadini e fecionli ribelli e sbandeggiorono nell’avere e nella persona. Molte magioni guastorono, e molti ne puníano, secondo che tra loro era ordinato e scritto. Niuno ne campò che non fusse punito. Non valse parentado né amistá; né pena si potea minuire né cambiare a coloro a cui determinate erano. Nuovi matrimoni niente valsero; ciascuno amico divenne nimico; i fratelli abbandonavano l’un l’altro, il figliuolo il padre: ogni amore, ogni umanitá si spense... Patto, pietá né mercé in niuno mai si trovò. Chi piú dicea: — Moiano, moiano i traditori! — colui era il maggiore.


Tra’ proscritti fu Dante. Condannato in contumacia, non rivide piú la sua patria. Ira, vendetta, dolore, disdegno, ansietá pubbliche e private, tutte le passioni che possono covare ne! petto di un uomo lo accompagnarono nell’esilio. Chi ha visto l’indignazione di Dino può misurare quella di Dante.

II priorato fu il principio della sua rovina, com’egli dice, ma fu anche il principio della sua gloria. Non era uomo politico: mancavagli flessibilitá e arte di vita; era tutto un pezzo, come Dino. Priore, volle procurare una concordia impossibile, e non riusci che a farsi ingannare da’ Neri in Firenze e da Bonifazio in Roma. Esule, non valse a mantenere quella preminenza che era debita al suo ingegno e alla sua virtú: si lasciò soverchiare da’ piú audaci e arrischiati; e non potendo impedire e non volendo accettare molti disegni, si segregò e si fece parte per se stesso. Toltosi alle faccende pubbliche, ripiegatosi in sé, sviluppò tutte le sue forze intellettive e poetiche.

Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore allo studio, che la vista ne fu debilitata. Finisce la Vita nuova con la speranza «di dire di lei quello che mai non fu detto d’alcuna». [p. 132 modifica]E fece di questo suo primo e solo amore «la bellissima e onestissima figlia dell’Imperatore dell’universo, alla quale Pitagora pose nome Filosofia». Frutto di questi nuovi studi furono le sue canzoni allegoriche e scientifiche.

Tra questi studi nacque la seconda Beatrice, luce spirituale, unitá ideale, l’amore che congiunge insieme intelletto e atto, scienza e vita. Intelletto, amore, atto, era questa la trinitá, che fu il suo secondo amore, la sua filosofia. Beatrice divenne un simbolo, e la poesia vani nella scienza.

Quel mondo lirico, che a noi pare troppo astratto, parve poco spirituale ai contemporanei, che chiamavano «sensuale» quel primo amore di Dante e poco intendevano questo suo secondo amore. E Dante, per cessare da sé l’infamia e per mostrare la dottrina «nascosa sotto figura di allegoria», volle illustrare e comentare le sue canzoni egli medesimo.

Era dottissimo. Teologia, filosofia, storia, mitologia, giurisprudenza, astronomia, fisica, matematica, rettorica, poetica, di tutto lo scibile avea notizia e non superficiale, perché di tutto parlò con chiarezza e con padronanza della materia. Il disegno gli si allargò: al poeta tenne dietro lo scienziato; e pensò di chiudere in quattordici trattati, quante erano le canzoni, tutta la scienza nella sua applicazione alla vita morale. Un lavoro simile, che Brunetto chiamò Tesoro e altri chiamavano Fiore o Giardino, egli chiamò Convito, quasi mensa dov’è imbandito «il pane degli angeli», il cibo della sapienza. Brunetto avea scritto il Tesoro in francese; gli altri trattavano la scienza in latino. La prosa volgare era tenuta poco acconcia a questa materia, massime dopo l’infelice versione del l’Etica di Aristotile, fatta da un tal Taddeo, celebre medico, nominato «l’ippocratista». Bisogna vedere quante sottili ragioni adduce Dante per scusarsi di scrivere in volgare. Celebra il latino come «perpetuo e non corruttibile», e perché «molte cose manifesta concepute nella mente, che il volgare... non può», e perché «il... volgare séguita uso e lo latino arte»; onde il latino è «pili bello, piú virtuoso e piú nobile». Ma appunto per questo il comento latino non sarebbe stato «suggetto alle canzoni» scritte in volgare, ma [p. 133 modifica]«sovrano»; e il comento per sua natura è servo e non signore, e dee ubbidire e non comandare. Ora il latino non può ubbidire, perché «comandatore» e sovrano del volgare. Oltreché, come può il latino comentare il volgare, non conoscendo il volgare? E che il latino non è conoscente dei volgare, si vede: «ché uno abituato di latino non distingue, s’egli è d’Italia, lo volgare dal tedesco, né il tedesco lo volgare italico o provenzale». Ecco le opinioni, le forme e le sottigliezze della scuola. Questa novitá di scrivere di scienza in volgare, che è come dare a’ convitati «pane di biado e non di formento», gli pare cosí grande, che a difendersene spende otto capitoli, modello di barbarie scolastica. Lasciando stare le sottigliezze, la sostanza è questa: ch’egli usa «il volgare di si», perché loquela propria e «delli suoi generanti», e suo «introducitore» nello studio del latino, e perciò «nella via di scienza, ch’è ultima perfezione». Scrisse in volgare le rime; il volgare usò «deliberando, interpretando e quistionando»; dal principio della vita ebbe con esso «benivolenza e conversazione»; il volgare è l’amico suo, dal quale non si sa dividere. Coloro «fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza», che, per «iscusarsi dal non dire o dal dire male, accusano o incolpano la materia, cioè lo volgare proprio». La plebe o, come dice egli, «le popolari persone» cadono «nella fossa» di questa falsa opinione per poca discrezione; «per che incontra che molte volte.gridano: — Viva la loro morte — e — Muoia la loro vita, — purché alcuno cominci», e sono da chiamare «pecore e non uomini». Gli altri vi caggiono per vanitá o per vanagloria o per invidia o per pusillanimitá. Questo disamare «lo proprio volgare» e pregiare l’altrui gli pare un adulterio, conchiudendo con queste sdegnose parole: «E tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d’Italia, che hanno a vile questo prezioso volgare; lo quale, se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri». E però egli scrive questo comento in volgare, per fargli avere «in atto e palese quella bontade che ha in podere e occulto», mostrando che la sua virtú si manifesta anche in prosa, senza le accidentali adornezze della [p. 134 modifica]rima e del ritmo, come donna bella «per naturai bellezza» e non per «gli adornamenti dell ’azziniare e delle vesti menta», e che «altissimi e novissimi concetti, convenientemente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino», vi «si esprimono». E finisce con queste profetiche parole: «Questo sará luce nuova, sole nuovo, il quale surgerá ove l’usato tramonterá».

Tanta veemenza nell’accusare, tanto ardore nel magnificare può fare intendere quanto radicata e sparsa era l’opinione degl’infiniti «ciechi», com’egli li chiama, che tenevano il volgare inetto alla prosa. E non ottenne l’intento. Il latino continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato a mezza via il Convito, trattò in latino la rettorica e la politica, che insieme con l’etica era la materia ordinaria dei trattati scientifici. Il libro De vulgari eloquio non è un «fior di rettorica», quale si costumava allora, un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi; ma è vera critica applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati. La base di tutto l’edifizio è la lingua nobile, aulica, cortigiana, illustre, che è dappertutto e non è in alcuna parte, di cui ha voluto dare esempio nel Convito. Questo ideale parlare italico è illustre, in quanto si scosta dagli elementi locali ove prendono forma i dialetti, e si accosta alla maestá e gravitá del latino, la lingua modello. Voleva egli far del volgare quello che era il latino: non la lingua delle persone popolari, ma la lingua perpetua e incorruttibile degli uomini colti. Sogno assai simile a quello di una lingua universale, fondata co’ procedimenti artificiali della scienza. Scegliere il meglio di qua e di lá e far cosa una e perfetta, sembra cosa facile e assai conforme alla logica, ma è contro natura. Le lingue, come le nazioni, vanno all’unitá per processi lenti e storici; e non per fusioni preconcette, ma per graduale assorbimento e conquista degli elementi inferiori. Il ghibellino, che dispregiava i dialetti comunali e voleva un parlare comune italico di cui abbozzava l’immagine, ti rivelava giá lo scrittore della Monarchia.

Il trattato De monarchia è diviso in tre libri. Nel primo dimostra la perfetta forma di governo essere monarchica; nel [p. 135 modifica]secondo prova questa perfezione essere incarnata nell’impero romano, sospeso, non cessato, perché preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni tra l’impero e il sacerdozio, l’unico imperatore e l’unico papa.

L’eccellenza della monarchia è fondata sull’unitá di Dio. Uno Dio, uno imperatore. Le oligarchie e le democrazie sono «polizie oblique», governi «per accidente», reggimenti difettivi. Fin qui tutti erano d’accordo, guelfi e ghibellini. Non ci erano due filosofie: le premesse erano comuni ai due partiti.

E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo, e la preminenza di quello, base della filosofia cristiana. E ne inferivano che nella societá sono due poteri: lo spirituale e il temporale, il papa e l’imperatore. Il contrasto era tutto nelle conseguenze.

Se Io spinto è superiore af corpo, dunque, conchiudeva Bonifazio ottavo, il papa è superiore all’imperatore. «Il potere Spirituale — dic’egli — ha il diritto d’instituire il potere temporale e di giudicarlo, se non è buono. E chi resiste, resiste all’ordine stesso di Dio, a meno ch’egli non immagini, come i manichei, due principi; ciò che sentenziamo errore ed eresia. Adunque ogni uomo dee essere sottoposto al pontefice romano, e noi dichiariamo che questa sottomissione è necessaria per fa Salute dell’anima».

Filosofia chiara, semplice, popolare, irresistibile per il carattere indiscusso delle premesse, consentite da tutti, e per l’evidenza delle conseguenze. Quando lo spirito era il sostanziale e il corpo in se stesso era il peccato, e non valea se non come apparenza e organo dello spirito, cos’altro potevano essere i re e gl’imperatori, che erano il potere temporale, se non gl’investiti dal papa, gli esecutori della sua volontá? I guelfi, che, Salve le franchigie comunali, ammettevano premesse e conseguenze, erano detti «la parte di santa Chiesa».

Dante ammetteva le premesse, e, per fuggire alla conseguenza, suppone che spirito e materia fossero ciascuno con sua vita propria, senza ingerenza nell’altro; e da questa ipotesi deduce l’indipendenza de’ due poteri, amendue «organi di Dio» sulla [p. 136 modifica]terra, di dritto divino, con gli stessi privilegi: «due soli», che indirizzano l’uomo, l’uno per la via di Dio, l’altro per la via del mondo; l’uno per la celeste, l’altro per la terrena felicitá. Perciò il papa non può unire i due reggimenti in sé, congiungere il pastorale e la spada; anzi, come vero servo di Dio e immagine di Cristo, dee dispregiare i beni e le cure di questo mondo e lasciare a Cesare ciò che è di Cesare. L’imperatore dal suo canto dee usar riverenza al papa, appunto per la preminenza dello spirito sul corpo; e poiché il popolo è corrotto e usurpatore e la societá è viziosa e anarchica, il suo uffizio è di ridurre il mondo a giustizia e concordia, ristaurando l’impero della legge. Né è a temere che sia tiranno, perché nella stessa sua onnipotenza troverá il freno a se stesso: perciò rispetterá le franchigie de’ comuni e l’indipendenza delle nazioni. Questa era l’utopia dantesca o piuttosto ghibellina. Dante ne ha fatto un sistema e ne è stato il filosofo.

Scendendo alle applicazioni, Dante mostra nel secondo libro che la monarchia romana fu di tutte perfettissima. La sua storia risponde alle tre etá dell’uomo. Nell’infanzia ebbe i re: adulta, e rettasi a popolo, con geste maravigliose, una serie di miracoli che attestano la sua missione provvidenziale, si apparecchiò alla etá virile, ordinandosi a monarchia sotto Augusto, che san Tommaso chiama «vicario di Cristo» e che Dante, seguendo la tradizione virgiliana, dice discendente da Enea, fondatore dell’impero, per disegno divino. E fu a quel tempo che nacque Cristo, e «fu suddito dell’impero»; e compi l’opera della redenzione delle anime, mentre Augusto componeva il mondo in perfetta pace.

Da queste premesse storiche Dante conchiude che Roma per dritto divino dee essere la capitale del mondo, e che giustizia e pace non può venire in terra se non con la ristaurazione dell’impero romano, «la monarchia predestinata», di cui la piú bella parte, il giardino, era l’Italia.

In apparenza questo era un ritorno al passato, ma ci era in germe tutto l’avvenire: ci era l’affrancamento del laicato e l’avviamento a piú larghe unitá. I guelfi si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di lá del comune vedi la nazione, e al [p. 137 modifica]di lá della nazione l’umanitá, la confederazione delle nazioni. Era un’utopia che segnava la via della storia.

Guelfi e ghibellini aveano comune la persuasione che la societá era corrotta e disordinata, e chiedevano il paciere. La selva, immagine della corruzione, è un punto di partenza comune a Brunetto guelfo e a Dante ghibellino. I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie un legato del papa, come Carlo di Valois, «che giostrò con la lancia di Giuda», come dice Dante. I ghibellini invocavano l’imperatore. E credesi che Dante abbia scritto questo trattato per agevolare la via all’imperatore Arrigo settimo di Lucemburgo, sceso a pacificare l’Italia e morto al principio dell’impresa, glorificato da Dante, celebrato da Mussato, lacrimato da Cino. Non avevano ancora imparato, e guelfi e ghibellini, che chiamar pacieri è mettersi a discrezione altrui, e che metter l’ordine e salvare la societá dalle fazioni è antico pretesto di tutt’i conquistatori.

Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse appunto ad Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo insieme le sue opere latine, di cui la piú originale è quella De vulgari eloquio, e unendovi il Convito, si può avere un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.

Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo. Né la filosofia fu la sua vocazione, lo scopo a cui volgesse tutte le forze dello spirito. Fu per lui un dato, un punto di partenza. L’accettò come gli veniva dalla scuola e ne acquistò una piena notizia. Seppe tutto, ma in nessuna cosa lasciò un’orma del suo pensiero, posto il suo studio meno in esaminare che in imparare. Accoglie qualsiasi opinione, anche piú assurda, e gran parte degli errori e de’ pregiudizi di quel tempo. Cita con uguale riverenza Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio, scrittori pagani e cristiani. La citazione è un argomento. Il suo filosofare ha i difetti dell’etá. Dimostra tutto, anche quello che non è controverso; dá pari importanza a tutte le quistioni. Ammassa argomenti di ogni qualitá, anche i piú puerili; spesso non vede la sostanza della quistione e si perde in minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo scolastico e le infinite distinzioni. Pure, se fra [p. 138 modifica]tanti viottoli ti regge ire sino alla fine, troverai nella sua Monarchia un’ampiezza ed unitá di disegno ed una concordanza di parti, che ti fa indovinare il grande architetto dell’altro mondo.

I difetti delle opere latine sono comuni al Convito, e gl’intralciano lo stile e gl’impediscono quell’andamento naturale e piano del discorso, che potea renderlo accessibile agl’illetterati a’ quali era destinato. La sua teoria della «lingua illustre» lo allontana da quell’andare soave e semplice della prosa volgare; e quando gli altri volgarizzano il latino, egli latinizza il volgare, cercando nobiltá e maestá nelle perifrasi, ne’ contorcimenti e nelle inversioni. Usa una lingua ibrida, non italiana e non latina, spogliata di tutte le movenze e attitudini vivaci del dialetto, e lontana da quella dignitá e misura, che ammira nel latino e a cui tende con visibile e infelice sforzo. Se la natura gli avesse concesso un piú squisito senso artistico, avrebbe forse potuto essere fondatore della prosa. Ma gli manca la grazia, e senti la rozzezza nello sforzo della eleganza. Salvo qualche raro intervallo che la passione lo scalda e lo fa eloquente, la sua prosa, come la sua lirica, fa desiderare l’artista.

Vocazione di Dante non fu la filosofia e non fu la prosa. Quello ch’egli cercava non potè realizzarlo come scienza e come prosa.

— Che cerchi? — gli domandò un frate. Rispose: — Pace. — E questo cercavano tutt’i contemporanei. Pace era concordia del regno terrestre col regno celeste, dell’anima con Dio, il regno di Dio sulla terra. «Adveniat regnimi tuum». Pace vera quaggiú non può essere; vera pace è in Dio, nel mondo celeste; Beatrice morendo parea che dicesse: — Io sono in pace. — La vita è una prova, un tirocinio, per accostarsi quanto si può all’ideale celeste e meritarsi l’eterna pace.

Lo scopo della vita è la salvazione dell’anima, la pace dell’anima nel mondo celeste. Vivere è morire alla terra per vivere in cielo. La vita è la storia dell’anima, è un «mistero». Uscita pura dalle mani di Dio, «che la vagheggia», è sottoposta quaggiú al male e al dolore, e non può tornare nella patria che purificata di ogni macula terrestre. Per giungere a pace bisogna [p. 139 modifica]passare per tre gradi, personificati ne’ tre esseri, Umano, Spoglia e Rinnova, e a’ quali rispondono i tre mondi, inferno, purgatorio e paradiso. Il «mistero» o la storia finisce al primo grado, quando l’anima, sopraffatta dall’Umano e vinta nella sua battaglia col demonio, viene in potere di questo: è la tragedia dell’anima, la tragedia di Fausto, prima che Goethe, ispirato da Dante, lo avesse riscattato. Ma, quando l’anima vince le tentazioni del demonio e si spoglia e si purga dell’Umano, hai la sua glorificazione nell’eterna pace: hai la «commedia» dell’anima. Questo è il mistero, ora tragedia, ora commedia, secondo che prevale l’umano o il divino, il terrestre o il celeste, che giace in fondo a tutte le rappresentazioni e a tutte le leggende di quell’etá. Messo in iscena, era detto «rappresentazione»; narrato, era «leggenda» o «vita»; esposto in figura, era «allegoria»; rappresentato in modo diretto e immediato, era «visione»; anzi le due forme si compenetravano, e spesso l’allegoria era una visione, e la visione era allegorica. Allegorie, visioni, leggende, rappresentazioni erano diverse forme di questo mistero dell’anima, del quale i teologi erano i filosofi, e i predicatori erano gli oratori, che aggiungevano spesso alla dottrina l’esempio, qualche leggenda o visione, com’è nello Specchio di vera penitenza.

Il mistero dell’anima era in fondo tutta una metafisica religiosa, che comprendeva i piú delicati e sostanziali problemi della vita e produceva una civiltá a sé conforme. Ci entrava l’individuo e la societá, la filosofia e la letteratura.

La letteratura volgare in senso prettamente religioso si stende per due secoli da Francesco di Assisi e Iacopone sino a Caterina. L’Allegoria dell’anima, la rappresentazione del Giovane monaco, l’Introduzione alle virtú, la Commedia dell’anima sono in forma letteraria la teoria di questo mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge la sua perfezione dottrinale, ed acquista la sua individuazione o realtá storica ne’ Fioretti, nelle leggende e nelle visioni del Cavalca e del Passavanti.

Ma questa letteratura era senza eco nella classe colta da cui esce l’impulso della vita intellettuale. Dante spregiava il latino della Bibbia, come privo di dolcezza e di armonia. Quello [p. 140 modifica]scrivere cosí alla buona e come si parla era tenuto barbarie e rozzezza. Vagheggiavano una forma di dire illustre e nobile, prossima alla maestá del latino, della quale Dante die’ nel Convito un saggio poco felice. Né potea piacere quella semplicitá di ragionamento con tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano dalle scuole con tanta filosofia in capo, con tanta erudizione sacra e profana. Ma se aveano in poco conto quella letteratura, giudicata povera e rozza, non era diverso il concetto che essi avevano della vita. I teologi filosofavano e i filosofi teologizzavano. La rivelazione rimaneva integra nelle sue basi essenziali, ammesse come assiomi indiscutibili. Tali erano l’unitá e personalitá di Dio, l’immortalitá dello spirito e lo scopo della vita oltre terreno.

Ma se il concetto era lo stesso, la materia era piú ampia, abbracciando la coltura, oltre la Bibbia e i santi padri, quanto del mondo antico era noto; e la forma era piú libera, paganizzando sotto lo scudo dell’allegoria e voltando il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.

Il regno di Dio chiamavano «regno della filosofia». E realizzare il regno di Dio era conformare il mondo a’ dettati della filosofia, unificare intelletto e atto. Il mediatore era l’amore, principio delle cose divine e umane; e non l’amore sensuale, ch’era peccato, ma un amore intellettuale, l’amore della filosofia. Il frutto dell’amore è la sapienza, che non è puro intelletto, ma intelletto e atto congiunti, la virtú. Il regno di Dio in terra era dunque il regno della virtú o, come dicevano, della giustizia e della pace. A realizzare questo regno erano istrumenti i due soli, i due organi di Dio: il papa e l’imperatore. La politica era l’arte di realizzare questo regno della giustizia e della pace, rendendo gli uomini virtuosi e felici. Il criterio politico era puramente etico, coinè s’è visto in Albertano giudice, in Egidio Colonna, in Mussato, in Dino Compagni. All’effettuazione di questo regno etico concorreva la tradizione virgiliana, perché Virgilio era un testo non meno rispettabile che la Bibbia. E si attendeva la monarchia predestinata da Dio, la ristorazione dell’impero romano. [p. 141 modifica]

In questi due secoli abbiamo due letterature quasi parallele e persistenti l’una accanto all’altra: una schiettamente religiosa, chiusa nella vita contemplativa, circoscritta alla Bibbia e a’ santi padri, e che ha per risultato inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni; e l’altra, che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema filosofico, e abbraccia i vari aspetti della vita, e dá per risultato somme, enciclopedie, trattati, cronache e storie, sonetti e canzoni. Tra queste due letterature erra la novella e il romanzo, eco della cavalleria, rimasti senza séguito e senza sviluppo, quasi cosa profana e frivola.

Gli uomini istrutti si studiavano di render popolare la cultura, specialmente nella sua parte piú accessibile e pratica, l’etica e la morale. Indi le tante versioni e raccolte di precetti etici sotto nome di Fiori, Giardini, Tesori, Ammaestramenti. Un tentativo di questo genere fu il Tesoretto.

Nella prima parte della lirica dantesca hai la storia ideale della santa, nella sua purezza soppresso il demonio e le tentazioni della carne. È il mistero dell’anima cosí come è rappresentato nella Commedia dell’anima. L’anima, che, uscita pura dalle mani di Dio, dopo breve pellegrinaggio ritorna in cielo bellezza spirituale o luce intellettuale, è Beatrice; e Beatrice è la santa della gente colta, è la donna platonica e innominata de’ poeti, battezzata e santificata.

Nella seconda parte Beatrice è la filosofia, che riceve la sua esplicazione dottrinale nelle Canzoni e nel Convito. La poesia va a metter capo nella pura scienza, nell’esposizione scolastica di un mondo morale, dell’etica.

La letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali e monotone di Caterina: il suo difetto ingenito è l’astrazione dell’ascetismo. La letteratura dotta va a finire nelle sottigliezze scolastiche del Convito: il suo difetto intrinseco è l’astrazione della scienza. Tutte e due hanno una malattia comune: l’astrazione, e la sua conseguenza letteraria: l’allegoria.

Ma il mondo di Dante non potea rimaner chiuso in questi limiti, o piuttosto non era questo il suo mondo naturale e geniale, conforme alle qualitá del suo spirito e del suo genio, e [p. 142 modifica]ci sta a disagio. La sua forza non è l’ardore della ricerca e della investigazione, che è il genio degli spiriti speculativi. La scienza è per lui un domma: il cervello rimane passivo in quelle scolastiche esposizioni. Avea troppa immaginazione perché potesse rimaner nell’astratto, e studia piú a figurarlo e colorirlo che a discuterlo e interrogarlo. La fantasia creatrice, il vivo sentimento della realtá, le passioni ardenti del patriota disingannato e offeso, le ansietá della vita pubblica e privata, non poteano avere appagamento in quella regione astratta della scienza, che pur gli era tanto cara. Sentiva il bisogno meno di esporre che di realizzare. E volle realizzare questo regno della scienza o regno di Dio, che tutti cercavano: farne un mondo vivente.

Il mondo è una selva oscura, corrotto dal vizio e dall’ignoranza. Rimedio è la scienza, secondo i cui principi dovrebb’esser conformato. La scienza è il mondo ideale, non qual è ma quale dee essere. Questo ideale si trova realizzato nell’altra vita, nel regno di Dio, conforme alla veritá e alla giustizia. Perciò ad uscir dalla selva non ci è che una via: la contemplazione e la visione dell’altra vita. Per questa via l’anima, superate le battaglie del senso e purificatasi, ha la sua pace, la sua eterna «commedia», la beatitudine.

Da questo concetto semplice e popolare usci la contemplazione o visione, detta la «commedia», rappresentazione allegorica del regno di Dio: il «mistero dell’anima» o la «commedia dell’anima».