Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/61

CAPITOLO LXI

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CAPITOLO LXI.

I Francesi e i Veneziani si dividono fra loro l’Impero. Cinque Imperatori latini delle Case di Fiandra e di Courtenai. Loro guerre contro i Bulgari e i Greci. Debolezza e povertà dell’Impero latino. Costantinopoli ripresa dai Greci. Conseguenza generale delle Crociate.

Dopo la morte de’ Principi legittimi di Bisanzo, i Francesi e i Veneziani credettero abbastanza giustificati e la loro causa, e i prosperi successi ottenuti, per ripartirsi anticipatamente fra loro le province del greco Impero1. Mediante un Trattato, accordaronsi a nominare dodici Elettori, sei per nazione, e a riconoscere Imperator d’Oriente quell’individuo che accoglierebbe in sè un maggior numero di suffragi. Stipularono inoltre i confederati che accadendo parità nel numero de’ voti, la sorte deciderebbe fra i due candidati; e concedettero a quello che sarebbe eletto, i titoli e le prerogative de’ precedenti Imperatori, i due palagi di Blacherna e di Bucoleone, e la quarta parte di tutti i possedimenti che la monarchia de’ Greci formavano. Le tre altre parti divise in due porzioni eguali, vennero tenute [p. 106 modifica]da banda per essere divise fra i Veneziani e i Baroni francesi. Fu risoluto che tutti i feudatarj, dai quali, per una distinzione d’onore venne eccettuato il Doge, presterebbero al nuovo Sovrano, omaggio di fedeltà e giuramento di servigio militare, come a Capo supremo dell’Impero; che quella fra le due nazioni cui toccherebbe la sorte di dare all’Oriente un Imperatore, cederebbe all’altra la nomina del Patriarca; che per ultimo tutti i Pellegrini, comunque impazienti fossero di visitar Terra Santa, dovessero consagrare anche un anno a conquistare e difendere le province del greco Impero. Appena impadronitisi di Bisanzo i Latini, un tale Trattato confermarono e misero ad effetto, divenuta prima e più rilevante fra le loro cure l’elezione di un Imperatore. Tutti ecclesiastici erano i sei Elettori francesi: l’Abate di Loces, l’Arcivescovo eletto di Acri in Palestina, e i Vescovi di Soissons, di Troyes, di Halberstadt e di Betlemme; l’ultimo de’ quali Prelati gli uffizj di Legato del Papa adempiea. Rispettabili per sapere e per santità del loro carattere, tanto più idonei a tale scelta mostravansi che su di essi non poteva cadere. Fra i primarj ministri dello Stato, vennero creati i sei Elettori Veneti, onde le illustri famiglie de’ Querini e de’ Contarini, s’inorgogliscono tuttavia di trovare in quell’Assemblea i nomi de’ loro antenati. Radunatisi nella cappella del palagio i dodici Elettori, procedettero alla elezione, dopo avere invocato solennemente lo Spirito Santo. Ragioni di rispetto e di gratitudine unirono primieramente i voti di tutti i congregati a favore del Doge. Autore egli stesso di quell’impresa, per tali azioni erasi segnalato, che, a malgrado degli anni e della cecità, po[p. 107 modifica]teano renderlo ammirazione ed invidia de’ più giovani cavalieri. Ma il Dandolo non mai abbastanza per virtù cittadine lodato, e disdegnando tutto ciò che a personale ambizione si riferiva, fu pago dell’onor de’ suffragi, che degno il promulgavano di regnare. I suoi concittadini, e fors’anche i suoi amici si opposero eglino stessi a questa nomina2, facendo coll’eloquenza della verità, manifesti i danni che alla libertà di Venezia e alla causa comune doveano temersi dall’incompatibile collegamento della prima magistratura della Repubblica, e della Sovranità dell’Oriente. L’esclusione del Doge lasciò libero il campo a Bonifazio ed a Baldovino. I meriti di questi due candidati si contrabbilanciavano scambievolmente, ma tanto sovrastavano a quello degli altri, che a questi due cedettero rispettosamente le loro pretensioni. Maturità di anni, splendida rinomanza, l’opinione più generale de’ Pellegrini, il voto dei Greci, stavano soprattutto pel Marchese di Monferrato; nè mi è sì agevole il credere che i piccioli possedimenti di questo Principe, posti a piedi dell’Alpi3, dessero inquietudine alla Repubblica di [p. 108 modifica]Venezia padrona del mare. Ma il Conte di Fiandra, in età di trentadue anni, valoroso, pio e casto, Capo d’un popolo ricco e bellicoso, discendente da Carlomagno, cugino del Re di Francia, contava fra i suoi Pari, Baroni e Prelati, che avrebbero mal tollerato di sottomettersi all’Impero di uno straniero. Questi Baroni, il Doge, e a capo d’essi il Marchese di Monferrato, stavansi alla porta della cappella, aspettando la risoluzione degli Elettori. Venne finalmente a nome de’ suoi colleghi annunziandolo il Vescovo di Soissons. „Voi avete giurato, disse egli, obbedire al Principe che avremmo scelto. Per l’unanimità de’ nostri suffragi, Baldovino Conte di Fiandra e di Hainaut, è vostro Sovrano ed Imperator d’Oriente„. Il nuovo Monarca venne salutato fra romorose acclamazioni, che la gioia de’ Latini e la tremante adulazione de’ Greci per tutta la città ripeterono. Primo fu Bonifazio a baciar la mano al rivale e ad innalzarlo sul proprio scudo. Baldovino fu trasportato nella Cattedrale ove solennemente calzò i coturni di porpora. Tre settimane dopo l’elezione, il Legato del Papa che gli uffizj di Patriarca adempiea, lo coronò; ma prestamente s’impadronì del coro di S. Sofia il Clero veneziano, che fu sollecito a porre sul trono ecclesiastico Tommaso Morosini, nè trascurò alcuna diligenza per mantenere alla sua nazione gli onori e i benefizj della Chiesa greca4. Non indugiò [p. 109 modifica]il successore di Costantino a far noto per messi, questo memorabile cambiamento politico alla Palestina, alla Francia, a Roma. Le porte di Costantinopoli, le catene del porto vennero, per suo ordine, trasportate in Palestina come trofei5, e dalle Assise di Gerusalemme tolse le leggi e gli statuti, che meglio ad una colonia francese e ad una conquista d’Oriente addicevansi. Sollecitò indi per lettere tutti i Francesi, perchè venissero ad ingrossare questa colonia, a popolare una capitale vasta e magnifica, a coltivare un suolo fertile, e preparato dalla natura a dar largo guiderdone di lor fatiche al Sacerdote e al soldato. Mandò anche congratulazioni al Pontefice di Roma per la sua autorità ristaurata, nell’Oriente, eccitandolo ad estinguere lo scisma dei Greci colla sua presenza medesima ad un generale Concilio, e implorandone l’indulgenza e l’appostolica assoluzione per que’ Pellegrini che agli ordini del Capo della Chiesa aveano contravvenuto6. Accorgimento e dignitosi modi la risposta d’Innocenzo contraddistinsero; attribuendo ai vizj degli uomini la sovversione dell’Impero d’Oriente, adorava in ordine a ciò i decreti della Providenza. „I con- [p. 110 modifica]quistatori, egli dicea, saranno o assoluti o condannati giusta la condotta che terranno in appresso, e la validità del loro parteggiamento è cosa che dal giudizio di S. Pietro dipende„. Non dimenticò nel medesimo tempo di prescriver loro, siccome il più sacro de’ doveri, quello di mantenere subordinati e tributarj i Greci ai Latini, i Magistrati al Clero, il Clero al Pontefice.

Nel ripartimento delle province dell’Impero7, la porzione che toccò ai Veneziani trovossi più considerabile di quella dell’Imperatore latino. Ei non possedea che un quarto della conquista. Riserbatasi Venezia una grossa metà del rimanente, l’altra metà tra i venturieri di Francia e di Lombardia venne distribuita. Il venerabile Dandolo, acclamato despota della Romania, fu, giusta l’uso de’ Greci, fregiato de’ calzaretti di porpora. Ei terminò il corso della sua lunga e gloriosa vita a Costantinopoli; e benchè le prerogative di lui non passassero ai suoi successori, questi ne conservarono nullameno i titoli fino alla metà del secolo decimoquarto, ed aggiugneano l’altro singolarissimo, di Signori di un quarto e mezzo dell’Impero Romano8. Il Doge, schiavo [p. 111 modifica]dello Stato, rade volte ottenea la permissione di allontanarsi dalla sede del Governo; ma ne tenea vece in Grecia un Bailo o reggente, insignito d’inappellabile giurisdizione sulla colonia de’ Veneziani. Degli otto rioni di Costantinopoli, tre appartenevano a questa colonia; il cui tribunale independente, era composto di sei giudici, quattro cancellieri, due ciamberlani, due avvocati fiscali e un contestabile. Una lunga esperienza sul commercio d’Oriente, gli avea fatti accorti sì, che meglio degli altri poteano provvedere ai loro interessi nel ripartimento; pur commisero una imprudenza nell’accettare il governo e la difesa d’Andrinopoli. Ad ogni modo la saggia politica di questi trafficanti, pensò ad assicurarsi una catena di città, di isole e di fattorie, lungo la costa marittima, che dai dintorni di Ragusi fino all’Ellesponto e al Bosforo si estendea. I dispendiosi lavori che a mantenere tali conquiste volevansi, avendo impoverito il veneto erario, abbiurarono le antiche massime del lor governo, adattandosi ad un feudale sistema, e concedendo, contenti di un semplice omaggio, ai Nobili9 il possedimento di que’ paesi, che questi imprendeano a conquistare, o a difendere. In cotal guisa, la famiglia di Sanuto divenne padrona del Ducato di Nasso, che tenea la massima parte dell’Arcipelago. Mediante uno sborso di diecimila marchi, la Repubblica comperò dal Marchese di Monferrato, la fertile isola di Creta, o Candia, e le [p. 112 modifica]rovine di cento città10. Ma i meschini concepimenti di un’orgogliosa aristocrazia11, non permisero trar grande profitto da tali acquisti; onde i più giudiziosi fra i Senatori dichiararono non per possedute terre, ma per l’Impero del mare il tesoro di S. Marco impinguarsi. Sulla metà da ripartirsi fra i venturieri, il Marchese di Monferrato, fuor d’ogni dubbio, alla maggior ricompensa aveva dritto. Oltre alla cedutagli isola di Creta, per un riguardo al trono da cui fu escluso, gli fu conferito il titolo di Re e assegnate le province al di là dell’Ellesponto; ma fe’ un saggio cambio di questa difficile e lontana conquista, col regno di Tessalonica o di Macedonia, distante dodici giornate dalla capitale, e dagli Stati del Re d’Ungheria, cognato del Marchese, e vicino quanto bastava, perchè questi all’uopo ne potesse sperare soccorsi. Il suo passaggio per le province che dovè traversare, fu in mezzo a continue acclamazioni o sincere, o simulate de’ Greci; e l’antica e vera Grecia ricevette di nuovo un conquistatore latino12, che con aria d’indifferenza questa classica [p. 113 modifica]terra calcò. Degnando appena d’un guardo le bellezze della valle di Tempe, pose molta cautela addentrandosi nelle gole delle Termopile, occupò Tebe, Atene ed Argo, città al medesimo sconosciute, e prese d’assalto Corinto e Napoli13, che aveano tentato resistergli. Or la sorte, ora la scelta e successivi baratti, regolarono i premj degli altri pellegrini. Accecati dal giubilo del riportato trionfo, usarono immoderatamente del lor potere, sulla vita e le ricchezze d’un grande numero d’uomini. Dopo una recapitolazione esatta di tutte le province da ripartirsi, pesarono con avara bilancia le rendite di ciascuna di esse, la situazione più o men vantaggiosa, i modi più o meno abbondanti che queste offerivano, per alimentare uomini e cavalli sul loro suolo. Fin agli antichi smembramenti del Romano Impero, le pretensioni dei vincitori si estesero; nelle immaginarie lor divisioni, il Nilo e l’Eufrate si trovavan compresi, e giubilava il guerriero che nella sua parte di premio, la reggia del Sultano [p. 114 modifica]d’Iconium annoverava14.Non m’arresterò in questo luogo ad enumerare i nuovi fregi genealogici, e i possedimenti di ciascun cavaliere; mi basti il dire, che i Conti di Blois e di S. Paolo, il ducato di Nicea e la signoria di Demotica ottennero15; i principali feudi alle cariche di Contestabile, di Ciamberlano, di Coppiere e di Mastro di casa, andarono uniti. Il nostro Storico, Goffredo di Villehardouin, acquistò un ricco dominio sulle rive dell’Ebro, accoppiando gli uffizj di Maresciallo di Sciampagna e di Romania. Ciascun Barone a capo de’ suoi cavalieri ed arcieri, si trasferì a prender possesso della sua parte di premio; nè grande resistenza la maggior parte di loro trovarono sulle prime: ma da siffatta dispersione derivò, che le generali forze scemarono; e ognuno s’immagina quanti litigi dovettero sorgere in tale stato di cose, e fra uomini che riconoscevano per primitiva legge il successo dell’armi. Tre mesi dopo la conquista di Costantinopoli, già l’Imperatore e il Re di Tessalonica, marciavano un contra l’altro; però l’autorità del Doge, i consigli del Maresciallo, la coraggiosa fermezza de’ Pari a pacificarli pervennero16. [p. 115 modifica]

[A. D. 1204 ec.] Due fuggiaschi che avevano occupato il trono di Costantinopoli, assumeano tuttavia il titolo di Imperadori, e que’ che furono lor sudditi poteano cedere ad un moto di compassione verso l’antico Alessio, o ardere del desiderio di vendicarsi sopra l’ambizioso Murzuflo. Vincoli di famiglia, comune interesse, eguali delitti, e il merito di aver tolta la vita ai nemici del suo rivale, persuasero il secondo usurpatore a cercare di collegarsi col primo. Murzuflo si trasferì nel campo di Alessio, ove carezzevolmente e con onori fu ricevuto: ma gli scellerati, incapaci di sentire amicizia, hanno torto se si fidano in coloro che ad essi somigliano. Dopo averlo fatto arrestare in un bagno e privare degli occhi, Alessio si guadagnò le truppe di costui, se ne appropiò i tesori; poi fattolo scacciare dal campo, Murzuflo errò, qua e là, oggetto di scherno e d’orrore a coloro che, più di Alessio, aveano diritto di odiare e di punir l’assassino dell’imperatore Isacco, e del figliuolo d’Isacco. Straziato dalla tema e dai rimorsi, tentava rifuggirsi in Asia, allorchè i Latini di Costantinopoli lo sorpresero, ed instituito un pubblico giudizio, ad ignominiosa morte il dannarono.  [A. D. 1204-1222] I giudici dopo avere esitato, nella scelta del supplizio, tra la mannaia, la ruota, e il palo, fecero collocare Murzuflo17 sulla cima di una colonna di marmo [p. 116 modifica]bianco, alta cenquarantasette piedi, e detta la Colonna di Teodosio18. Dall’alto di questa, fu precipitato capo volto a basso, e il cranio ne rimase infranto alla presenza di numerosissimo popolo assembrato nel Foro del Tauro che vedea con maraviglia in questo singolare spettacolo la spiegazione e il compimento di un’antica profezia19. Men tragico fu il destino di Alessio: il Marchese lo inviò in dono al Re de’ Romani in Italia. Condannato a perpetua prigionia, l’usurpatore venne trasferito da una Fortezza dell’Alpi in un monastero dell’Asia, senza guadagnare molto nel cambio. Ma prima della caduta di Costantinopoli Alessio avea conceduta la sua figlia in isposa ad un giovane eroe che riedificò e tenne il trono de’ principi greci20. Teodoro [p. 117 modifica]ris, segnalato erasi per valore nei due assedj di Bisanzo. Dopo la fuga di Murzuflo, ed essendo già i Latini padroni della città, si offerse per Imperatore ai soldati ed al popolo, offerta che in tal momento poteva essere un atto di virtù, e certamente fu grande prova in lui di coraggio. Se nello stesso tempo gli fosse stato lecito infondere un’anima a quelle vili turbe, avrebbero calpestato sotto i lor piedi gli stranieri che lor sovrastavano; ma codardi i Greci nella disperazione, il soccorso di lui ricusarono, onde Teodoro fu costretto ripararsi nella Natolia, per respirare ivi un’aura d’independenza, libero dal vedere e dal paventare i conquistatori della sua patria. Sotto il titolo di despota, poscia d’Imperatore, unì a’ suoi stendardi il piccolo numero d’uomini coraggiosi che il disprezzo della vita facea tuttavia forti contro la schiavitù; e riguardando come legittimo ogni atto che alla salvezza pubblica potesse giovare, non ebbe scrupolo d’invocare l’alleanza del Sultano de’ Turchi. Posta in Nicea Teodoro la sua residenza, Prusa, Filadelfia, Smirne ed Efeso apersero le porte al loro liberatore. Le vittorie, e persin le sconfitte in forza e rinomanza lo accrebbero, e successore di Costantino, ne serbò quella parte d’Impero, che dal Meandro ai sobborghi di Nicomedia e in appresso a quelli di Costantinopoli si estendea. Anche l’erede legittimo de’ Comneni, figlio del virtuoso Manuele, e pronipote del feroce Andronico, possedeva in lontana [p. 118 modifica]provincia una debole parte di questo impero: nomavasi Alessio, e il soprannome datogli di Grande probabilmente più alla sua statura che alle sue imprese si riferiva. I principi della dinastia, degli Angeli, senza aombrarsi della sua origine, lo aveano nominato governatore o duca di Trebisonda21: la sua nascita gli ispirava ambizione, la caduta dell’Impero gli fruttò independenza. Senza cambiare di titolo, regnò tranquillamente sulla costa del Mar Nero da Sinope sino al Fasi. Il figlio che a lui succedè, e del quale ignorasi il nome, è conosciuto soltanto come vassallo del Sultano che egli seguiva con dugento lancie alla guerra; ma il titolo di Duca di Trebisonda in questi due Comneni durò, e unicamente Alessio, pronipote del primo d’essi, spinto da orgoglio e da gelosia assunse il titolo d’Imperatore. Anche nella parte occidentale dell’Impero, Michele, bastardo della dinastia degli Angeli, e prima delle sconfitte, riguardato, or come ostaggio, or come soldato, or come ribelle, salvò dal naufragio un terzo frammento di greca dominazione. Fuggito dal campo di Bonifazio, ottenne in isposa la figlia del governator di Durazzo, e per tali nozze il possedimento di questa importante città: preso il titolo di de[p. 119 modifica]spota, fondò un principato possente nell’Epiro, nell’Etolia, nella Tessaglia, sempre famosa per gli uomini bellicosi che la popolarono. Que’ Greci che offersero servigio ai Latini, divenuti novelli loro sovrani, si videro disprezzati da questi superbi principi, ed esclusi22 da tutti gli onori civili e militari, come uomini sol nati per obbedire e tremare. Offesi questi d’un sì aspro trattamento, si accinsero a provare cogli effetti di un’operosa inimicizia, quanto l’amicizia loro poteva essere utile a chi li vilipese. Finalmente l’avversità aveva loro inspirato coraggio: onde tutti i cittadini chiari per sapere o virtù, per nascita o valore, abbandonarono Costantinopoli, riparandosi ai governi independenti di Trebisonda, d’Epiro o di Nicea. Non si cita che un solo patrizio che abbia meritato l’encomio, se luogo ad encomio pur v’era, di affezione e fedeltà verso i Franchi. I popoli delle città e delle campagne si sarebbero forse accostumati ad una moderata e regolar servitù. Forse alcuni anni di pace e d’industria avrebbero fatto dimenticare ad essi la guerra e i suoi passeggieri disastri. Ma la tirannide del sistema feudale allontanando le soavità della pace, distruggea il frutto delle fatiche de’ sudditi; e comunque un’ammini[p. 120 modifica]strazione semplice e savie leggi, somministrassero agl’Imperadori latini di Costantinopoli, se avessero avuto l’accorgimento di ben prevalersene, ogni agevolezza a proteggere i proprj sudditi; in questo momento stava sul trono un principe titolare, Capo e spesse volte schiavo de’ suoi indocili confederati. La spada de’ Baroni arbitrava di tutti i feudi dell’Impero incominciando dall’intero reame, e venendo fino all’infimo fra’ castelli. La costoro ignoranza, le discordie, la povertà ne estendevano la tirannide ai più rimoti villaggi. Il poter temporale de’ preti, e l’odio fanatico de’ soldati in un medesimo tempo i Greci opprimea; e il linguaggio e la religione diversa erano siccome un cancello che per sempre separava i vinti dai vincitori. Sintantochè i Crociati rimasero uniti nella capitale, la ricordanza delle loro vittorie, e il terrore dell’armi loro tennero cheto il soggiogato paese; ma col disunirsi, il segreto della propria debolezza derivata da scarso numero, e dalla poca lor disciplina svelarono; alcune rotte che per imprudenza si procacciarono li diedero a divedere non invincibili. A proporzione di tema sminuita l’odio afforzavasi ne’ Greci, che ben presto passarono dalle lamentele alle cospirazioni; onde un anno di servaggio non era ancora per essi compiuto, quando implorarono, ossia accettarono con fiducia il soccorso di un Barbaro, la cui possanza già aveano provata, della gratitudine del quale non dubitavano23. [p. 121 modifica]

[A. D. 1205] Calo-Giovanni o Giovannizio, Capo ribelle dei Valacchi o de’ Bulgari, fu tra i più solleciti a congratularsi, mediante un’ambasceria coi Latini. Il titolo reale da lui assunto, e la santa bandiera dal Pontefice romano inviatagli, sembravano francheggiarlo a riguardarsi come fratello de’ nuovi imperatori di Costantinopoli, oltrechè, siccome lor complice nel sovvertimento del greco Impero, credeva a buon diritto potersi noverare fra i loro amici. Qual si fu la sorpresa di Giovannizio in udendo che il Conte di Fiandra, imitando il fastoso orgoglio de’ successori di Costantino, ne avea rimandati gli ambasciadori, superbamente annunziandogli essere solo dovere d’un ribelle il venire con fronte china a toccare i gradini del soglio per meritarsi il perdono? Se il Re de’ Bulgari non avesse ascoltate che le voci del proprio risentimento, il sangue unicamente potea lavar questo oltraggio; ma una più prudente politica egli adoprò24; pago per allora di star guatando i progressi del mal umore de’ Greci, ai quali intanto diede a conoscere quanta pietà in lui destassero le loro sventure, e come ei fosse propenso a secondare colla persona, e con tutte le forze del regno, i primi tentativi che per essi farebbersi a ricuperare la libertà. L’odio di nazione dilatò la congiura, e ad un tempo il secreto e la fedeltà de’ congiurati fe’ più sicuri. Benchè però i Greci ardessero d’impazienza di conficcare i loro pugnali nel seno de’ vincitori, aspettarono accorta[p. 122 modifica]mente che Enrico fratello del nuovo Cesare avesse condotto al di là dell’Ellesponto il fior delle truppe. Le città e i villaggi della Tracia, per la più parte, mostraronsi pronti a puntino al momento ed al segnal convenuti; perlocchè i Latini, privi d’arme e di sospetti, si videro d’improvviso in preda alla spietata e codarda vendetta de’ loro schiavi. Da Demotica, ove questa scena di strage ebbe principio, alcune navi del Conte di S. Paolo cercarono in Andrinopoli ripararsi: ma già l’infuriata plebaglia ne avea scacciati, o immolati, i Francesi ed i Veneziani. Quelle guernigioni latine che pervennero a guadagnarsi una ritirata, sulla strada maestra della capitale incontraronsi; ma quanto alle Fortezze isolate che ai ribelli tuttavia resistevano, un presidio non sapea la sorte dell’altro, e tutti quella del lor Sovrano ignoravano. La fama ingrandita dallo spavento, portò ben presto a Costantinopoli le notizie della ribellione dei Greci, e del rapido avvicinamento del Re dei Bulgari. Giovannizio avea aggiunto alle sue truppe un corpo di quattordicimila Comani, tolti dalla Scizia, i quali beveano, dicesi, il sangue de’ lor prigionieri, e sugli altari delle loro divinità i Cristiani sagrificavano25.

Atterrito l’Imperatore, spedì un corriere per richiamare il fratello suo Enrico; e se Baldovino avesse aspettato il ritorno di questo principe valoroso, [p. 123 modifica]che dovea condurgli un soccorso di ventimila Armeni, sarebbesi veduto in istato di assalire il Re de’ Bulgari con eguaglianza di numero, e superiorità assoluta di armi e di disciplina. Ma lo spirito di cavalleria non sapendo per anco discernere dalla viltà la prudenza, l’Imperatore mosse al campo, scortato da soli cenquaranta cavalieri, e dal lor seguito ordinario di arcieri e sergenti. Dopo inutili rimostranze, il Maresciallo finalmente obbedì al comando di condurre l’antiguardo in sulla strada di Andrinopoli; il Conte di Blois conducea il corpo di battaglia, al retroguardo il vecchio Doge si stava. Accorsi da ogni banda sotto le bandiere di questo piccolo esercito i fuggitivi Latini, s’imprese tosto l’assedio di Andrinopoli, e tali erano le pie intenzioni de’ Crociati, che durante la Settimana Santa, davano opera a devastar foraggiando la campagna, e a fabbricar macchine intese alla distruzione di un popolo di Cristiani. Ma ben tosto interruppeli la cavalleria leggiera de’ Comani, venuta arditamente a scaramucciare quasi sul confine delle disordinate lor linee. Il Maresciallo pubblicò un bando che avvertiva la cavalleria di trovarsi pronta per montare a cavallo, e ordinarsi in battaglia al primo suono di tromba, minacciando pena di morte a chiunque si fosse distolto dai compagni per inseguire il nemico. Primo a disobbedire ad una provvisione tanto sensata il Conte di Blois, fu cagione colla sua imprudenza della perdita dell’Imperatore. Al primo impeto de’ Latini, essendosi i Comani, a guisa di Parti o di Tartari, dati alla fuga, dopo una corsa di due leghe, voltaron fronte congiuntamente, e avvilupparono i pesanti squadroni francesi nel momento che stremi dal [p. 124 modifica]correre e cavalli e cavalieri, non aveano questi alcuna abilità di difendersi. Ucciso il Conte sul campo di battaglia, prigioniero l’Imperatore rimase; e il loro valor personale, per cui l’un d’essi disdegnò di fuggire, l’altro di ceder vilmente mal compensarono l’ignoranza, o la trascuratezza che diedero a divedere degli obblighi imposti ai generali d’esercito26.

[A. D. 1205] Superbo della riportata vittoria e dell’illustre prigioniero che traeva seco, il Bulgaro si avanzò per soccorrere Andrinopoli e a compiere la sconfitta dei Latini; de’ quali sarebbe stata inevitabile la distruzione, se il maresciallo di Romania non avesse data prova di quel tranquillo coraggio e di quel militare intendimento, rari in tutti i secoli, ma più ancora straordinarj in quella età, ove più dall’istinto che dalla scienza, le guerre eran condotte. Il Villehardouin limitatosi a manifestare i proprj timori, e il cordoglio che lo premea, al suo fedele e prode amico, il Doge di Venezia, inspirò per tutto il campo quella fiducia, in cui sola riduceasi la speranza della salvezza. Dopo essersi per un intero giorno mantenuto nella pericolosa situazione che fra la città e il nemico esercito lo collocava, il Maresciallo levò il campo di notte tempo, e senza veruno strepito, operando per tre continui giorni una ritratta cotanto ingegnosa, che Senofonte e i suoi diecimila eroi sarebbero stati costretti ad ammirarla; instan[p. 125 modifica]cabile nel correre dal retroguardo all’antiguardo, quivi sostenea l’impeto de’ nemici, ivi fermava l’imprudente correre de’ suoi fuggitivi. Per ogni dove i Comani affrontavano, una linea d’insuperabili lancie si parava contr’essi. Nel terzo dì finalmente, e dopo essere state così tribolate, le truppe latine scorsero il mare, la solitaria città di Rodosto27 e i compagni che dalle coste dell’Asia giugnevano. Abbracciatisi, piansero insieme, e l’armi loro e i lor consigli riunirono. Il Conte Enrico assunse a nome del fratello, il governo d’un impero ancor nell’infanzia, nondimeno a caducità pervenuto28. I Comani mal resistendo all’ardor della state si ritirarono; ma sull’istante del pericolo, settemila Latini, infedeli al loro giuramento e ai fratelli, abbandonarono la capitale: alcune vittorie di poco momento mal compensavano la perdita di cento cavalieri periti nelle pianure di Rusio. La sola Costantinopoli, e due o tre Fortezze sulle coste di Europa e di Asia, all’Imperator rimanevano. Il Re de’ Bulgari, invincibile come inesorabile, evitò con modi rispettosi di condiscendere alle istanze del Pontefice che pregava il nuovo proselito a restituire ai desolati Latini la [p. 126 modifica]pace e il loro Sovrano. „La liberazione di Baldovino, rispondea Giovannizio, non è più in potere degli uomini„. Di fatto questo principe era morto nel suo carcere, e l’ignoranza indi e la credulità, molti diversi racconti sul genere di questa morte han divulgati. Coloro che di storie tragiche si dilettano, crederanno di buon grado che il casto prigioniero fe’ vani gli amorosi voti della Regina de’ Bulgari; che tale rifiuto alle calunnie della femmina, e alla gelosia di un selvaggio lo avventurò; che mani e piedi gli venner troncati; che il rimanente di quel sanguinoso corpo fu gettato fra gli scheletri de’ cavalli e dei cani, e respirò per tre giorni, sintanto che gli uccelli da preda venissero a divorarlo29. Vent’anni dopo, in una foresta de’ Paesi Bassi, un romito si volle far credere il conte Baldovino, imperator di Costantinopoli, e sovrano legittimo della Fiandra; narrò a quel popolo, egualmente propenso alla ribellione e alla credulità, le circostanze straordinarie della sua fuga, le sue avventure e la sua penitenza. Cedendo per un istante ad una persuasione cara al loro cuore, i Fiamminghi credettero rivedere il Sovrano che pianto avevano per lungo tempo. Ma la Corte di Francia, dopo brevi indagini, scoperse l’impostore che fu ad ignominiosa morte dannato. Pur non sì di leggieri i popoli della Fian[p. 127 modifica]dra abbandonarono una illusione che gli allettava: onde i più gravi storici di questo paese danno colpa alla Contessa Giovanna di avere sagrificata all’ambizione la vita di un genitore infelice30.

[A. D. 1216] Tutte le nazioni venute a civiltà ammettono, durante la guerra, un accordo pel cambio, o pel riscatto dei prigionieri. Di questi protraendosi la cattività, non è un mistero il loro destino, e giusta il loro grado, onorevolmente, o del certo umanamente, vengon trattati; ma le leggi della guerra il selvaggio principe dei Bulgari non conoscea; ed essendo difficile il portar lo sguardo ne’ silenziosi nascondigli delle sue prigioni, volse un intero anno prima che i Latini fossero certi della morte di Baldovino, e che Enrico acconsentisse ad assumere il titolo d’Imperatore. Cotal moderazione, siccome esempio di rara e inimitabile virtù, applaudirono i Greci, che ambiziosi, perfidi ed incostanti, pronti ognora mostravansi ad abbracciare, o anticipar l’occasione di una sede vacante, in tempo che quasi tutte le monarchie dell’Europa aveano riconosciute, o confermate le leggi di successione, veri mallevadori della sicurezza de’ popoli e de’ monarchi. Morti a mano a mano, o ritiratisi gli eroi della Crociata, Enrico rimase presso che solo, gravato dal peso di far la guerra e di difender l’Impero. Già il rispettabile Dandolo, carico d’anni e di gloria, giaceva nel sepolcro; il Marchese di Monferrato tornava lentamente dalla sua guerra nel Peloponneso per ven[p. 128 modifica]dicar Baldovino e proteggere Tessalonica. Nell’abboccamento che questi ebbe coll’Imperatore, vennero accomodati alcuni vani dispareri intorno l’omaggio e i servigi feudali; indi scambievole stima e comune pericolo avendoli in salda lega congiunti, questo nodo vie più fermarono le nozze di Enrico colla figlia di Bonifazio; ma non andò guari che Enrico dovette piangere la morte del suocero e dell’amico. Seguendo il consiglio di alcuni Greci rimasti fedeli, il marchese di Monferrato operò con buon successo un’ardimentosa scorreria nelle montagne di Rodope. Al solo suo avvicinarsi, i Bulgari si diedero a fuga, non mancando però, giusta il loro uso, di riordinarsi per rendergli funesta la ritirata. Il guerriero intrepido, appena seppe essere assalito il suo retroguardo, montò a cavallo, e corse colla lancia in resta incontro al nemico, avendo persino a sdegno di ripararsi il corpo colla sua armadura; ma in mezzo al tentativo imprudente, un dardo a morte il ferì: onde i Barbari fuggitivi ne portarono la testa a Calo-Giovanni, siccome trofeo di una vittoria, il merito della quale non avevano avuto. Nel punto di questo fatale avvenimento cade la penna di mano, e gli accenti mancano al generoso Villehardouin31. Se egli continuò ancora a sostenere l’uffizio di maresciallo della Romania, le successive imprese di lui alla posterità sono igno[p. 129 modifica]te32. I pregi d’Enrico non erano inferiori all’arduità del momento in cui prese le redini dell’Impero. All’assedio di Costantinopoli, al di là dell’Ellesponto, acquistata erasi la rinomanza di prode cavaliere e di abile generale. Alla intrepidezza del fratello univa la prudenza e la mansuetudine, virtù che all’impetuoso Baldovino non furono gran che famigliari. Nella duplice guerra contra i Greci dell’Asia e i Bulgari dell’Europa, sempre mostrossi il primo in arcione, o sulle navi, nè mai trascurando alcuna di quelle cautele che assicurar potevano la vittoria, spesse volte coll’esempio della sua intrepidezza a secondarlo e a salvar l’Impero gli scoraggiati Latini animò. Nondimeno al successivo miglior esito delle cose, meno gli sforzi d’Enrico, e i soccorsi d’uomini e di danaro spediti dalla Francia contribuirono, che non gli orrori, gli atti crudeli e la morte del nemico il più formidabile dei Latini. Coll’implorare siccome liberatore Calo-Giovanni, i Greci speravano che costui le lor leggi e la lor libertà avrebbe protette; ma ebbero ben tosto l’infausta occasione di accorgersi, fin dove la ferocia di un Barbaro pervenisse, e di abborrire il selvaggio conquistatore, che del proprio disegno di spopolare la Tracia, di spianare le città, di trapiantarne gli abitanti al di là del Danubio omai non faceva un mistero. E già parecchie città, parecchi villaggi della Tracia deserti erano; già in luogo [p. 130 modifica]di Filippopoli un cumulo sol di rovine scorgevasi. Gli abitanti di Andrinopoli e di Demotica, primi autori della ribellione un egual destino aspettavansi. Innalzatosi fino al trono di Enrico un grido di dolore e di pentimento, ebb’ei la grandezza d’animo di aggiugnere al perdono la sua confidenza ne’ popoli supplichevoli. Non potendo nell’istante raccogliere sotto i proprj stendardi più di quattrocento cavalieri seguìti dai loro arcieri, e sergenti, con questo sì tenue corpo di esercito, cercò e rispinse il Capo dei Bulgari che, oltre alla sua fanteria, a quarantamila uomini di cavalleria comandava. Ben s’avvide in tal circostanza Enrico, qual sia la differenza tra l’avere favorevoli, o contrarj gli abitanti inermi del paese che teatro è della guerra. Salvò dalla distruzione le città che tuttavia rimanevano, costringendo il barbaro Giovannizio ad abbandonare, sconfitto e coperto di obbrobrio la preda; l’assedio di Tessalonica fu l’ultima fra le calamità che questo principe fece sentire alla Grecia e che egli stesso sentì. Nel più folto della notte, essendo stato assassinato entro la sua tenda, il Generale, o fors’anche l’uccisore medesimo che lo trovò immerso nel proprio sangue, attribuì questa morte alla lancia di S. Demetrio, nè fuvvi generalmente nel campo chi nol credesse33. Dopo molte riportate vittorie, il saggio Enrico conchiuse un onorevole Trattato di pace col successore di Giovannizio, e coi principi di Nicea e d’Epiro. Coll’ab[p. 131 modifica]bandonare le sue pretensioni sopra alcuni incerti confini, assicurò a sè medesimo e ai suoi feudatarj il possedimento di un vasto reame che duratogli per dieci anni, lasciò godere all’impero questo intervallo di pace e di prosperità. Alieno dalla troppo severa politica di Baldovino e di Bonifazio, gli uffizj militari e civili senza timore ai Greci fidava; condotta generosa, che divenuta era ancor necessaria, perchè i principi di Epiro e di Nicea aveano appresa l’arte di sedurre i Latini e di mettere in opera la mercenaria loro prodezza. Si mostrò sollecito Enrico di porre insieme d’accordo i suoi sudditi, e di compensarne i meriti, non tenendo conto di paese, o di lingua; solamente mostrò minor cura della riconciliazione delle due Chiese, che cosa pressochè impossibile gli sembrava. Pelagio, Legato del Pontefice, che un fasto addicevole ad un sovrano fra le mura di Bisanzo ostentava, oltre all’avere abolito il culto greco, pretendeva a tutto rigore il pagamento delle decime da chicchessia, una chiara professione di fede intorno alla processione dello Spirito Santo, una cieca obbedienza ai comandamenti del Papa. In tutti i tempi, la parte più debole si è trovata costretta a rimostrare i doveri della propria coscienza, ad implorare i diritti della tolleranza. „I nostri corpi, diceano i Greci, sian pur di Cesare, ma le anime nostre appartengono a Dio„. La fermezza dell’Imperatore pose un riparo alla persecuzione34. Laonde, se pur è vero che ei morì di veleno dai Greci apprestatogli, tal prova [p. 132 modifica]d’ingratitudine e di stoltezza, è fatalmente atta ad ispirarne trista opinione sul genere umano. Il valore di Enrico potea dirsi virtù comune, in cui diecimila cavalieri gli erano pari. Ma in un secolo di superstizione, un coraggio ben più straordinario diè a divedere, quello di opporsi all’orgoglio e all’avarizia del clero. Osò, nella cattedrale di S. Sofia, collocare il suo trono alla destra del trono del Patriarca, il quale atto riguardato a Roma, come colpevole presunzione, gli procacciò agre censure da Papa Innocenzo III. Con un salutare editto, primo esempio delle leggi che le mani morte riguardano, l’Imperatore Enrico proibì la vendita de’ feudi; perchè molti Latini, impazienti di ritornare in Europa, abbandonavano i fondi loro alla Chiesa, che con danaro contante, e con indulgenze ne pagava il prezzo. Questi terreni divenendo sacri, e immediatamente fatti immuni dal militare servigio, una colonia di soldati sarebbesi ben tosto trasformata in una corporazione di preti35.

Il virtuoso Enrico morì a Tessalonica, ove, per difendere il regno e il figlio ancor fanciullo dell’amico suo Bonifazio erasi trasportato. Tutta la linea maschile de’ Conti di Fiandra colla morte de’ due primi Imperatori di Costantinopoli rimaneva estinta; ma la lor sorella Jolanda era moglie di un principe francese e madre di numerosa prole. Una figlia di lei avea per marito Andrea, Re d’Ungheria, prode e [p. 133 modifica]pio campion della Croce; dal quale, col farlo Imperatore, i Baroni di Romania i soccorsi d’un possente e vicin regno sarebbersi procacciati; ma mostratosi il saggio Andrea rispettoso alle leggi della successione, i Latini sollecitarono la principessa Jolanda e il marito di lei Pietro di Courtenai, Conte di Auxerre a trasportarsi a Costantinopoli per ivi cingere il diadema d’imperator d’Oriente. Chiaro per paterna origine e per regale legnaggio della sua madre, come il più prossimo parente del lor Monarca, i Baroni francesi lo rispettavano. Aggiugnevansi a favor di Pietro luminosa fama, vasti possedimenti, e i suffragi degli ecclesiastici e de’ soldati, rimasti egualmente soddisfatti del fatale zelo e del valore di questo guerriero nella sanguinosa crociata che contro gli Albigesi fu impresa. Certamente la vanità de’ Francesi doveva esser paga in veggendo un uomo di lor nazione sul trono di Costantinopoli: ma la prudenza avrebbe fatto vedere che meno invidia che compassione si meritava l’uomo che a grandezza tanto fallace e pericolosa aggiugnea. Per sostenere con dignità il nuovo grado, Courtenai si vide primieramente costretto a vendere, o impegnare la più ricca parte del suo patrimonio. Sol per questi espedienti, e soccorso dalla liberalità del suo parente Filippo Augusto, e dallo spirito di cavalleria che per tutta la Francia dominava, si trovò in istato di passar l’Alpi, condottiero di cenquaranta cavalieri e di cinquemila cinquecento arcieri, o sergenti. Dopo qualche esitanza, il Pontefice Onorio III si arrendè a coronare questo nuovo successore di Costantino, avuta però la cautela di compire la cerimonia in una chiesa posta fuori del ricinto della città, per tema, non venisse supposto che [p. 134 modifica]questa conferisse al nuovo unto alcun diritto di sovranità sulla capitale antica del Mondo. Ben si obbligarono i Veneziani a trasportare oltre il mare Adriatico Pietro e le sue truppe, e fin nella reggia di Bisanzo l’Imperatrice co’ suoi quattro figli; ma per premio dell’agevolato tragetto, pretesero dal nuovo Imperatore ch’ei si accignesse a riprender Durazzo, allor dominata dal despota dell’Epiro. Michele l’Angelo o Comneno, il primo della dinastia d’Epiro avea lasciata in retaggio la sua possanza e ambizione al fratello Teodoro, che già minacciava e assaliva i latini possedimenti. Dopo avere Pietro soddisfatto con un inutile assalto il suo debito, si vide alla necessità di levare l’assedio, e di terminare per terra fino a Tessalonica il suo rischioso cammino. Smarritosi fra le montagne dell’Epiro, si scontrò in gole affortificate e difese; le vettovaglie mancarongli; perfide apparenze di negoziazione ancora gli porsero indugi. Infine Pietro di Courtenai e il Legato romano si trovarono arrestati, mentre uscivano d’un banchetto;  [A. D. 1217-1219] per lo che le truppe francesi prive di Capo e di modi per sostenersi, e adescate dall’ingannevol promessa di essere nudrite e umanamente trattate, cedettero l’armi. Il Vaticano sull’empio Teodoro lanciò le sue folgori, minacciandolo della vendetta della terra e del cielo. Ma poichè le querele del Pontefice al suo Legato sol riferivansi, l’Imperatore e i soldati del medesimo prigionieri dimenticò, concedendo perdono, o a dir meglio protezione al despota dell’Epiro, che appena liberato il Legato, promise obbedienza spirituale all’appostolica sede di Roma. I comandi assoluti di Onorio contennero l’ardor dei Veneziani e [p. 135 modifica]del Re ungarese; nè altro che una morte36 o naturale, o violenta la prigionia del misero Courtenai terminò37.

[A. D. 1221-1228] La lunga incertezza in cui si rimase sulla sorte di Pietro, la presenza della legittima sovrana Jolande, o moglie, o vedova del medesimo, fecero che l’elezione di un nuovo Imperatore si differisse. La morte di questa principessa vissuta in mezzo ai cordogli, accadde in tempo che già sgravata erasi d’un fanciullo, cui fu imposto il nome di Baldovino, ultimo e più sfortunato dei principi latini di Costantinopoli. Comunque la sua stessa nascita fosse un motivo, per essergli affezionati ai Baroni della Romania, la fanciullezza del medesimo avrebbe lungo tempo esposto l’impero agli inconvenienti di una minorità, per lo che i diritti de’ fratelli di Baldovino prevalsero. Il primogenito, Filippo di Courtenai, erede di Namur dal lato di madre, ebbe l’accorgimento di preferire la realtà del suo marchesato ad un’ombra di impero; pel quale rifiuto, Roberto, secondogenito di Pietro e di Jolande, al trono di Costantinopoli fu chiamato. Fatto circospetto dalla paterna sventura, per traverso all’Alemagna e lungo le rive del Danubio, seguì len[p. 136 modifica]tamente il suo cammino, e agevolatogli il passaggio per l’Ungheria dai motivi di parentado con quel Re, marito di sua sorella, pervenne finalmente alla meta, coronato dal Patriarca nella cattedrale di S. Sofia. Ma non provò durante l’intero suo regno che umiliazioni e disastri; e la colonia della Nuova Francia, così allora chiamata, cedea da tutte le bande ai collegati sforzi de’ Greci di Nicea, e dell’Epiro. Dopo una vittoria più alla sua perfidia che al valore dovuta, Teodoro l’Angelo entrato nel regno di Tessalonica, e scacciatone il debole Demetrio, figlio del Marchese Bonifazio, fe’ sventolare sulle mure di Andrinopoli il suo stendardo, aggiugnendo superbamente il proprio nome al novero di tre o quattro imperatori suoi emuli. Giovanni Vatace, genero e successore di Teodoro Lascaris, occupando il rimanente della provincia asiatica, splendè, durante un regno di trentatre anni, per tutte quelle virtù che ad un legislatore e ad un conquistatore si aspettano. Ei seppe, ottimo capitano, fare strumento di sue vittorie il valore di parecchi Franchi mercenarj, la cui diffalta, al lor paese funesta, divenne annunzio e cagione della superiorità risorgente de’ Greci. Vatace costrusse una flotta, impose leggi all’Ellesponto, le isole di Lesbo e di Rodi ridusse, i Veneziani di Candia assalì, ai lenti e deboli soccorsi che ai Latini pervenivano dall’Occidente tolse la via. Indarno l’Imperatore latino fe’ prova di opporre a Vatace un esercito, la cui sconfitta lasciò morti sul campo di battaglia quanti cavalieri e antichi conquistatori tuttavia rimanevano. Ma men trafiggeano l’animo dell’inetto Roberto i buoni successi del nemico che l’insolenza de’ suoi sudditi latini, i quali della debolezza dell’Imperatore e del[p. 137 modifica]l’impero abusavano parimente. Le domestiche sciagure di questo principe dimostrano ad un tempo la ferocia del secolo e l’anarchia che quel governo premea. Sedotto Roberto dall’avvenenza di una nobile giovane della provincia di Artois, e dimentico degli accordi che la mano di lui alla figlia di Vatace obbligavano, introdusse nel palagio l’arbitra del suo cuore, inducendo la madre della donzella, abbagliata dallo splender della porpora, ad acconsentire, comunque ad un gentiluomo della Borgogna fosse promessa in isposa. L’amore del tradito pretendente in furor convertendosi, adunò i proprj amici, e rotte le porte della reggia, precipitò nell’Oceano la madre di colei che era divenuta o moglie, o concubina dell’Imperatore, e a questa barbaramente il naso e le labbra tagliò. I Baroni, anzichè voler punire il colpevole, fecero plauso ad un’azione feroce, che Roberto non potea perdonare nè come principe, nè come uomo38. Sottrattosi alla sua colpevole capitale, corse ad implorare la giustizia, o la compassione della Romana Sede Apostolica: ma il Papa lo esortò freddamente a ritornarsene nel suo regno; e nè manco gli fu lecito arrendersi a tal consiglio, perchè alla gravezza del dolore, della vergogna e della rabbia d’un impotente risentimento, i suoi giorni cedettero39.

[A. D. 1228-1237] Il secolo della cavalleria è il solo tempo che abbia [p. 138 modifica]aperte al valore di semplici privati le vie de’ troni di Gerusalemme e di Costantinopoli. La sovranità titolare di Gerusalemme apparteneva a Maria figlia di Isabella e di Corrado di Monferrato, e pronipote di Almerico, o di Amauri. Il pubblico voto, e una sentenza di Filippo Augusto, le aveano dato in isposo Giovanni di Brienne, uscito di una nobile famiglia della Sciampagna, e additato siccome il più valoroso fra i difensori di Terra Santa40. Nella quinta Crociata, condottiero di centomila Latini portatosi alla conquista dell’Egitto, terminò l’assedio di Damieta coll’impadronirsi di questa Fortezza; i disastri che succedettero a tale resa, vennero unanimamente attribuiti all’avarizia e all’orgoglio del Legato Pontifizio. Dopo aver data in isposa la propria figlia a Federico II41, l’ingratitudine dell’Imperatore lo costrinse ad accettare il comando delle truppe della Chiesa: perchè comunque avanzato negli anni e privato della sua corona, il valente e generoso Giovanni di Brienne ognor pronto mostravasi a brandire la spada, se l’utile della Cristianità lo chiedeva. Non avendo regnato che sette anni Roberto di Courtenai, il fratello di lui Baldovino non poteva essere uscito ancor dell’infanzia, e intanto i Baroni di Ro[p. 139 modifica]mania vedeano la necessità di rimettere lo scettro fra le mani d’un adulto e d’un eroe. Il nome e l’uffizio di reggente, cose non erano da offerirsi al rispettabile Re di Gerusalemme. Onde accordaronsi di conferirgli, sua vita durante, il titolo e le prerogative imperiali, sotto l’unico patto che ei concedesse la figlia sua secondogenita in moglie a Baldovino, serbato nella maggiorità degli anni a succedergli nel trono di Costantinopoli. La scelta di Giovanni di Brienne, la sua presenza e la sua fama, fecero rinascere la speranza de’ Greci e de’ Latini. Ammiravano il contegno guerriero42, il vigor d’un vegliardo che gli ottant’anni già oltrepassava, e la statura che dalle proporzioni ordinarie toglievasi; ma l’avarizia e l’amor della quiete a quanto appariva aveano raffreddato nel suo animo l’ardor delle imprese; lasciate sbandar le sue truppe, due anni interi in un vergognoso ozio per esso trascorsero. Solamente da questo sonno il destò il formidabile collegarsi di Vatace Imperator di Nicea con Azan Re de’ Bulgari. Conducendo un esercito di centomila uomini, e una flotta di trecento legni da guerra, i due Imperatori assediarono Costantinopoli; mentre le forze dell’Imperatore latino in soli centosessanta cavalieri e in una picciola mano d’arcieri, o di sergenti era posta. Sto perplesso nel raccontare che invece di pensare a difendere la città, questo eroe fece una sor[p. 140 modifica]tita a capo della sua cavalleria, e che di quarantotto squadroni nemici, soli tre alla sua spada invincibile si sottrassero. Animati dal suo esempio, l’infanteria e i cittadini si lanciarono sulle navi che stavano tuttavia ancorate a piè delle mura, e ne condussero venticinque in trionfo entro il porto di Costantinopoli. Alla voce del Monarca, i vassalli e i confederati in difesa di lui presero l’armi, tutti gli ostacoli che al lor cammino opponevansi atterrarono, e nel successivo anno, ottennero sugli stessi nemici una seconda vittoria. I poeti di quel rozzo secolo, ad Ettore, ad Orlando, a Giuda Maccabeo raffigurarono Giovanni di Briennenota; ma il silenzio dei Greci affievolisce alcun poco e la gloria del principe, e l’autorità di coloro che il celebrarono. Non andò guari che l’Impero perdette l’ultimo fra i suoi difensori: il moribondo Monarca ebbe l’ambizione di entrare in Paradiso vestito da franciscanonota.

[A. D. 1237-1261] Nelle descrizioni delle due vittorie riportate da Giovanni di Brienne, non vedo fatta menzione del 43 44 [p. 141 modifica]nome, non che di veruna impresa di Baldovino, pupillo, indi successore dello stesso Giovanni, comunque già pervenuto ad età che atto al militare servigio il rendea45. Questo Principe adoperato in uffizj meglio alla sua indole confacevoli, visitò le Corti dell’Occidente, e quello soprattutto del Pontefice e del Re di Francia, alle quali lo inviarono, affinchè la presenza del giovinetto eccitando maggior compassione sulla sua innocenza e sulle sventure della sua Casa, ne rendesse più efficaci le preghiere per ottenere soccorsi d’uomini e di danari. Per tre volte egli ripetè queste umilianti peregrinazioni, nel cui adempimento, parve mettesse uno studio per prolungare la sua lontananza e differire il ritorno. Durò venticinque anni il regno di Baldovino II, la più gran parte trascorsi da lui fuori de’ proprj Stati, perchè non si credea mai men libero e men sicuro, come quando nella patria e nella capitale del dominio greco si stava. Alcuna volta la vanità di lui ebbe per vero di che appagarsi sugli sterili onori che alla porpora e al titolo augusto venian tributati. Di fatto intanto che Federico II era scomunicato e percosso da un bando che intendeva a privarlo dell’impero, il suo collega d’Oriente assisteva al Concilio di Lione, seduto in trono e alla destra del Romano Pontefice. Ma quanto maggior numero di volte poi, questo Imperatore, mendico ed esule, si trovò invilito agli occhi proprj e di tutte le nazioni, e per oltraggi sofferti, e fino per la insultante pietà di cui fu lo scopo! [p. 142 modifica]Trasferendosi per la prima volta nell’Inghilterra fu arrestato a Douvres, e severamente redarguito perchè si era fatto lecito di entrare senza permissione negli Stati d’un regno independente; e poichè ebbe ottenuta, non senza qualche poco d’indugio, la libertà di proseguire nel suo cammino, si vide con fredda urbanità accolto alla Corte, alla quale dovette saper grado di un dono di settecento marchi d’argento con cui partì46. Tutto quanto potè ottenere dall’avarizia di Roma si stette nel bando di una Crociata e in un tesoro d’indulgenze47, moneta invilita assai perchè troppo di frequente, e con troppa inconsideratezza era stata adoprata. Gl’illustri natali e le sventure del Principe greco, ben commossero il cuor generoso del cugino di lui Luigi IX; ma il fervor guerriero del Santo Re ai lidi dell’Egitto e della Palestina volgeasi. Baldovino alleviò alcun poco le angustie proprie, e quelle cui ridotto era il suo impero colla vendita del Marchesato di Namur e della Signoria di [p. 143 modifica]Courtenai, soli Stati ereditarj che gli rimanessero48. Giovatosi di questi espedienti umilianti, o rovinosi del certo, potè condurre in Romania un esercito di trentamila uomini, il cui numero apparve tanto maggiore ai Greci pel terrore che ad essi inspirò. I primi messaggi da esso inviati alle Corti francese ed inglese, annunziavano speranze ed anche buoni successi. Avea sottomessi tutti i dintorni della Capitale, fino ad una distanza di tre giornate della medesima, e conquistata una rilevante città, che comunque nelle sue lettere ei non accenni, io suppongo essere stata Chiorli; la qual vittoria dovea e fargli sgombro il successivo cammino, e assicurare la tranquillità della frontiera. Ma tutte le ridette speranze (posto ancora che le cose nunziate da Baldovino fossero state vere) si dileguarono come un sogno; nelle inette mani di questo Principe i tesori come le milizie venute dalla Francia si spersero; onde non trovò miglior sostegno per reggersi in trono di una vergognosa lega che strinse coi Comani e coi Turchi. Per confermare il vile Trattato, ei concedè la propria nipote in isposa all’infedele Sultano di Cogni, e per rendersi accetto ai Comani, alle cerimonie del loro culto si sottomise: onde fra un campo e l’altro, fu sagrificato un cane, e i Principi contraenti, come pegno di reci[p. 144 modifica]proca fedeltà, gustarono il sangue l’uno dall’altro49. Sempre più intanto la povertà lo premea. Il successore d’Augusto demolì gli appartamenti vuoti della sua reggia; o a meglio dire della sua prigione, di Costantinopoli per trarne legna da scaldarsi. S’impadronì de’ piombi che coprivano i templi per farli supplire alle spese della sua casa. Prese ad imprestito con esorbitanti usure, danaro dai mercatanti italiani; e impegnò per qualche tempo il proprio figlio e successore al trono Filippo, onde assicurare il pagamento di un debito che avea contratto coi Veneziani50. La fame, la sete, la nudità sono patimenti reali; ma l’opulenza non vuol calcolarsi che colle regole di proporzione. Un Principe facoltoso, come privato, può trovarsi secondo i bisogni che lo premono, in preda a tutte le amarezze e le angosce dell’indigenza.

In mezzo allo squallore di una tanto obbrobriosa povertà, rimaneva tuttavia all’Imperatore o all’Impero un tesoro che ricevea il suo immaginario valore51 dalla divozione del Mondo cristiano. Scapitato era alquanto per fattine parteggiamenti il legno della vera Croce, oltrechè l’essere dimorato sì lungamente fra le mani degl’Infedeli, rendea anche sospette molte particelle di esso già diffuse per l’Oriente e per l’Occidente; ma veniva conservata nella cappella imperiale di Costantinopoli un’altra reliquia della [p. 145 modifica]Passione del Redentore. La Corona di Spine di Gesù Cristo era non men della Croce, cosa preziosa ed autentica. È noto che gli antichi Egizj depositavano per pegno de’ proprj debiti le mummie de’ loro antenati52, e faceano così garante l’onore e la religione pel pagamento della somma tolta ad imprestito; imitato avevano questo esempio i Baroni della Romania in tempo che l’Imperatore era lontano, perchè abbisognando di un prestito di tredicimila centotrentaquattro piastre d’oro, diedero in ostaggio la Santa Corona per ottenerlo53. Giunto il tempo del pagamento, nè trovandosi all’uopo i danari, Nicola Querini, ricco mercatante veneziano, si offerse a soddisfare i creditori, con che la Corona rimanesse depositata in Venezia, e divenisse poi proprietà personale dello stesso Querini, ogni qualvolta entro un termine corto e pattuito non venisse riscattata. Avendo i Baroni dovuto far noto al Sovrano questo malauguroso contratto, e il pericolo che sovrastava, perchè lo Stato non aveva abilità per una somma maggiore di settemila lire sterline all’incirca, Baldovino trovò che sarebbe stato provvedimento ammirabile in quel frangente il ritogliere dalle mani de’ Veneziani [p. 146 modifica]questo tesoro, e farlo passare in quelle del Re cristianissimo54. Il qual partito e più onorevole ed utile si dimostrava. Nondimeno la negoziazione trovò alcune difficoltà. Il pio Luigi IX avrebbe riguardata la compera di una reliquia come un delitto di simonia; ma cambiando solamente lo stile del contratto, egli trovò che potea senza scrupolo pagare il debito de’ Greci, ricevere la Corona di Spine qual donativo, e dare indi un attestato di gratitudine al donatore. Due Dominicani pertanto vennero inviati a Venezia siccome ambasciadori incaricati di riscattare e ricevere il santo deposito che sottratto si era ai pericoli della navigazione e alle galee di Vatace. Aperta la cassa, vennero verificati i sigilli così del Doge come dei Baroni greci, stati apposti sopra un reliquiario d’argento, prima custodia della scatoletta d’oro, entro cui questo monumento della Passione di Cristo si racchiudeva. I Veneziani cedettero, benchè di mal animo, alla giustizia e alla potenza del Re di Francia; l’imperator Federico diede rispettosamente per li suoi Stati il passaggio alla preziosa reliquia; tutta la Corte di Francia le andò incontro fino a Troyes nella Sciampagna. Il Re co’ piedi scalzi, e vestito di una semplice camicia, portò egli stesso la Santa Corona in trionfo per le strade di Parigi; e un donativo di diecimila marchi d’argento consolò Baldovino del sagrifizio cui s’era prestato. Il buon successo di una tal negoziazione allettò questo ad offrire colla medesima generosità gli altri ornamenti della sua im[p. 147 modifica]periale cappella55; un avanzo ragguardevole del legno della vera Croce, il panno di Gesù Cristo, la lancia, la spugna, la catena, attrezzi tutti della Passione, la verga di Mosè, e una parte del cranio di S. Giovanni Battista. Per dar condegno luogo a tutte queste spirituali ricchezze, S. Luigi spese una somma di ventimila marchi nell’edificare la Santa Cappella che la faceta musa di Boileau ha fatta immortale. L’autenticità di tali reliquie, antiche tanto e tratte da paesi così lontani, non può omai essere provata dalla testimonianza degli uomini; ma son costretti ad ammetterle tutti coloro che credono ai miracoli da esse operati. Nella metà dello scorso secolo la santa ferita di una Spina della Corona risanò radicalmente un’ulcera inveterata56; prodigio attestato dai Cristiani i più devoti, ed anche sapienti della Francia, e che non può sì facilmente essere dismentito se non se da coloro che vanno muniti di un antidoto generale57 contro ogni specie di credulità religiosa58. [p. 148 modifica]

[A. D. 1237-1261] I Latini di Costantinopoli59 trovandosi circondati, stretti d’ogni banda, la sola discordia e divisione de’ Greci e de’ Bulgari tardar ne potevano la rovina; ma la politica e la potenza militare di Vatace Imperator di Nicea, rendè vana quest’ultima loro speranza. Dalla Propontide fino alle rupi della Panfilia l’Asia godea giorni di pace e di prosperità sotto questo Sovrano, che ottenendo a mano a mano nuovi allori ne’ campi di battaglia, crescea di preponderanza in Europa. Scacciati i Bulgari dalle Fortezze situate nelle montagne della Macedonia e della Tracia, ridusse il loro reame a que’ limiti, fra i quali lungo le rive del Danubio oggidì è contenuto. Allorchè l’Imperatore de’ Romani si mostrò stanco di sopportare che un Duca di Epiro, un Principe Comneno dell’Occidente, pretendesse disputargli, di avere comuni seco lui gli onori della porpora; Demetrio, cambiato umilmente il colore de’ suoi calzari, accettò, mostrandosi grato, il titolo di despota; il quale atto di abbiezione, oltre alla inettezza nel [p. 149 modifica]governare, gli alienò i cuori de’ sudditi, che implorarono la protezione del Principe greco, di cui Demetrio era vassallo. Per la qual cosa Vatace giunto ad unire il regno di Tessalonica a quel di Nicea, regnò senza competitori dalle frontiere della Turchia insino al golfo Adriatico. I Principi europei ne rispettavano il merito e la possanza, e probabilmente non gli era d’uopo che risolversi ad abbracciare la Fede ortodossa, perchè il Pontefice abbandonasse senza rincrescimento l’Imperatore latino di Costantinopoli; ma la morte di Vatace, la breve durata del regno turbolento di Teodoro, la minorità di Giovanni, un figlio, l’altro pronipote di Vatace, ritardarono il risorgimento della greca dominazione in Bisanzo. Nel capitolo successivo darò conto delle domestiche vicissitudini che afflissero que’ due successori di Vatace; per ora mi basta il notare che l’ultimo di essi soggiacque all’ambizione del suo tutore e collega, Michele Paleologo, uomo in cui si diedero a divedere congiuntamente e quelle virtù, e que’ vizj proprj di ordinario ai fondatori di nuove dinastie. L’imperatore Baldovino era caduto nell’abbaglio di credere che una negoziazione non sostenuta da veruna forza, gli basterebbe a ricuperare alcune province o città. Ma gli ambasciatori di lui vennero rimandati da Nicea, ove non ottennero che sprezzi e risposte schernevoli; per ciascuna provincia che domandavano, Paleologo adduceva un pretesto, per cui non gli era lecito, ei diceva, il privarsene; in una di esse era nato, aveva avuto i primi rudimenti della scuola militare nell’altra; in tal provincia avea goduti i piaceri della caccia, e volea continuar lungo tempo a goderli. „In somma qual parte di dominio avete ri[p. 150 modifica]soluto di cederne?„ gli domandarono stupefatti quei messi. „Nessuna, rispose il Principe greco, nè anco una pollice di terra. Se il vostro padrone brama la pace, mi paghi per tributo annuale la rendita delle dogane di Costantinopoli, al qual patto potrò concedergli che continui a regnare; e avrò il suo rifiuto come primo segnale di guerra. A me perizia militare non manca, e gli eventi delle cose confido a Dio e alla mia spada„60. Nella prima prova che ei fece dell’armi sue contra il despota dell’Epiro, riportò vittoria; cui però venne d’appresso una sconfitta: onde i Comneni Angeli continuarono a resistergli nelle montagne della Macedonia, e anche dopo la morte di questo Principe, conservarono la loro autorità. Peggio tornarono le cose ai Latini, i quali, caduto prigioniero Villehardouin, principe di Acaia, rimasero privi con esso del più operoso e possente vassallo dell’agonizzante lor monarchia. Intanto le repubbliche di Genova e di Venezia, venuta per la prima volta l’una contro l’altra a guerra navale, si contendeano l’impero del mare, e il commercio dell’Oriente: e poichè motivi di ambizione e d’interesse teneano affezionati a Costantinopoli i Veneziani, i rivali di questi offersero ai nemici de’ Latini soccorso, la qual lega de’ Genovesi con un conquistatore scismatico l’indignazione del Vaticano eccitò61. [p. 151 modifica]

Tutto inteso al suo grande divisamento, Michele visitò in persona ciascuna Fortezza della Tracia, e le guernigioni ne accrebbe. Dopo avere scacciati gli avanzi de’ Latini dagli ultimi possedimenti che lor rimanevano, diede assalto al sobborgo di Galata, ma infruttuosamente; perchè quel Barone che perfidamente mantenea corrispondenza coi Greci, o non potè, o non volle aprirgli le porte della Capitale. All’apparire della successiva primavera, Alessio Strategopolo, generale favorito di Michele, e insignito da questo del titolo di Cesare, attraversò l’Ellesponto conducendo seco ottocento uomini a cavallo, ed alcune truppe d’infanteria62 che servir doveano ad una spedizione segreta. Gli ordini avuti dal ridetto generale erano di avvicinarsi a Costantinopoli, di esplorare attentamente tutte le cose, e curare le occasioni che si potessero offrire ad ultimi tentativi; però di astenersi da ogni impresa o dubbia, o pericolosa contro della città. Abitava nelle vicinanze della Propontide e del mar Nero una schiatta ardimentosa di villani e di malviventi, avvezzi all’armi e di incerta fede, pure e per linguaggio e religione comuni, e per le viste del momentaneo interesse [p. 152 modifica]maggiormente affezionati alla parte de’ Greci. Nomati venivano i Volontarj63, e come tali offersero servigio al generale di Michele, il cui esercito, accresciuto dagli ausiliari Comani sommò allora a venticinquemila uomini64. Eccitato dall’ardore di questi Volontarj, e dalla sua propria ambizione, il nuovo Cesare trasgredì i comandi del suo Signore, colla fondata fiducia che il buon successo farebbe della inobbedienza le scuse. Pertanto i Volontarj che, qual gente posta continuamente in istato di guatare i Latini, ne conoscevano la debolezza, la stremità, la paura, additarono quel momento come il più propizio a sorpendere e ad occupare Bisanzo. Un giovine imprudente posto ivi da poco tempo al governo della Colonia veneta, partito erane con trenta galee, traendo seco il fiore de’ Cavalieri francesi ad una folle impresa contro Dafnusia, città situata in riva al mar Nero, e distante quaranta leghe da Costantinopoli; i rimanenti Latini vi mancavano di forze, e si stavano nella sicurezza. Non che ignorassero il passaggio dell’Ellesponto operato da Alessio; ma dissipati i loro primi timori dall’intendere qual piccola forza lo accompagnasse, non pensarono tampoco a ricercare se questa si fosse aumentata. Nel campo greco le cose erano apparecchiate in tal modo, che Alessio lasciandosi addietro il suo [p. 153 modifica]corpo d’esercito ad una distanza opportuna per venirgli all’uopo in soccorso, potea, protetto dalle tenebre, innoltrarsi con una scelta scorta. Nel medesimo tempo che alcuni della spedizione avrebbero poste le scale alla parte più bassa delle mura, di dentro sarebbesi trovato pronto un vecchio Greco, il quale avea promesso introdurre per una via sotterranea fino alla propria casa una parte de’ suoi compatriotti; e questi di lì sarebbersi trasferiti alla porta d’Oro che da lungo tempo più non si apriva, ed atterrati dalla parte interna i battitoi, i Greci doveane trovarsi padroni di Bisanzo, prima che i Latini fossero stati avvertiti del loro pericolo. Dopo essere stato perplesso per qualche tempo, Alessio si abbandonò allo zelo dei Volontarj, che ardimentosi, e pieni di fiducia riuscirono, talchè quanto ho narrato sul divisamento dell’impresa, basta ad additarne l’adempimento e il buon successo65. Per vero dire Alessio, oltrepassata appena la soglia della porta d’Oro, tremò egli stesso sulla propria temerità; fermossi, deliberò, ma lo costrinse l’ardir disperato de’ Volontarj, che gli mostrarono quasi impossibile in quel momento, e più pericolosa dell’assalto la ritirata. Intanto che Alessio tenea le sue truppe regolari in ordine di battaglia, i Comani si sparsero per tutte le bande: fu sonato a raccolta: e le minacce di saccheggio e d’incendio che [p. 154 modifica]si udivano per ogni dove obbligarono gli abitanti ad appigliarsi a un partito. I Greci di Costantinopoli manteneano affetto agli antichi loro Sovrani. I mercatanti genovesi rispettavano la recente lega che la loro Repubblica col Principe greco aveva contratta ed odiavano i Veneziani; in tutti i rioni si presero l’armi; l’aere risonò di una acclamazione generale: „Vittoria e lunga vita a Michele e a Giovanni, gli augusti Imperatori de’ Romani„. Queste grida svegliarono Baldovino; ma l’imminenza stessa di un tanto pericolo non valse a fargli sguainare la spada in difesa di una città, dalla quale gli era forse più conforto che rincrescimento l’allontanarsi. Corse alla riva, ove scorse per sua ventura le vele di quella flotta che tornava addietro dalla sua vana spedizione contro Dafnusia. Vedendosi che Costantinopoli era perduta senza riparo, Baldovino, e le primarie famiglie latine s’imbarcarono sulle galee veneziane, che dopo avere veleggiato all’isola di Eubea, di lì condussero in Italia l’augusto fuggitivo, che trovò presso il Pontefice romano un’accoglienza in cui la compassione e lo sprezzo si avvicendavano. Dal momento della perduta sua capitale, fino a quel della morte, Baldovino impiegò tredici anni in sollecitazioni alle Potenze cristiane, affinchè si collegassero per rimetterlo in trono; supplica che gli era già famigliare; nè si mostrò in quest’ultimo esilio, o più indigente o più avvilito di quello che egli era apparso nelle sue tre prime peregrinazioni alle Corti d’Europa. Il figlio di lui, Baldovino, ereditò dal padre il vano titolo d’Imperatore, e Catterina figlia di questo, divenuta sposa di Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello Re di Francia, gli portò in dote le sue pretensioni. [p. 155 modifica]La linea femminina della casa di Courtenai trasportò successivamente le avite prerogative titolari in diverse famiglie, sintantochè il titolo d’Imperatore di Costantinopoli, apparso troppo fastoso e sonoro per essere unito al nome di un privato, modestamente si spense nel silenzio e nella dimenticanza66.

Dopo avere raccontate le spedizioni de’ Latini nella Palestina e a Costantinopoli, non mi è lecito abbandonare questo argomento, senza esaminare gli effetti prodotti dalle Crociate ne’ paesi che furono teatro delle medesime, e sulle nazioni che ne furono i personaggi67. L’impressione fatta dai Franchi nei regni maomettani dell’Egitto e della Sorìa si dileguò col loro sparire, benchè la ricordanza di questi conquistatori vi fosse rimasta. I fedeli discepoli di Maometto non sentirono mai la profana brama di studiar le leggi o l’idioma degli idolatri68; nè gli af[p. 156 modifica]fari che ebbero o per leghe, o per ostilità cogli stranieri dell’Occidente, alterarono, poco, o assai, la primitiva semplicità de’ loro costumi. Alquanto meno inflessibili si mostrarono i Greci, che essendo vanagloriosi, ambiziosi credeansi; e negli sforzi che operarono per ricuperare l’Impero, altri ne fecero per pareggiare in valore, in disciplina, in saper militare, i loro avversarj. Aveano giusto motivo di disprezzare quella letteratura che allor possedeano le contrade dell’Occidente; pure lo spirito di libertà che vi dominava avendo svelata ad esse una parte de’ diritti comuni a tutti gli uomini, alcune fra le istituzioni pubbliche e private de’ Francesi vennero da loro adottate. La corrispondenza di Costantinopoli coll’Italia dilatò l’uso dell’idioma latino, onde alcuni Padri ed autori classici ottennero onore di traduzione fra i Greci69. Ma la persecuzione die’ forza allo zelo religioso e alle opinioni pregiudicate dei Cristiani dell’Oriente, talchè il regno de’ Latini confermò la separazione delle due Chiese.

Se ne’ secoli delle Crociate, confrontiamo fra loro i Latini dell’Europa, i Greci, e gli Arabi, se esaminiamo i diversi gradi di sapere, de’ progressi dell’arti e dell’industria allignate fra questi popoli, certamente non concederemo ai rozzi nostri progenitori che una terza sede fra le nazioni venute a ci[p. 157 modifica]viltà: i loro successivi avanzamenti, la supremazia che ai nostri giorni hanno ottenuta gli Europei, vuolsi attribuire ad una energia particolare della loro indole, ad uno spirito d’imitazione e di sedulità sconosciuto ai lor rivali, ne’ tempi ancora che li superavano, e presso i quali le facoltà dell’ingegno trovavansi allora stazionarie, o piuttosto a retrogradare inclinate. Dotati delle qualità morali da noi indicate i Latini, non è maraviglia se trassero vantaggi immediati ed essenziali da una serie di avvenimenti che dispiegando ai loro sguardi tutta la scena del Globo, li poneano in lunghe e frequenti comunicazioni coi popoli più colti dell’Oriente. I progressi primaticci, e più manifesti, apparvero nel commercio, nelle manifatture e nell’arti, dalle quali nascono la più ardente brama delle ricchezze, il bisogno de’ piaceri, gli allettamenti della vanità. In mezzo anche ad una folla di fanatici, potea trovarsi un prigioniero o un pellegrino, capace di por mente ad un trovato ingegnoso del Cairo o di Costantinopoli; e comunque la Storia non gli abbia pagato un tributo debito di gratitudine, colui che ne portò da que’ paesi il modello de’ mulini a vento70, merita un nome fra i benefattori delle nazioni. Fra i vantaggi di questa dilatata corrispondenza vogliono parimente essere annoverati i godimenti del lusso, [p. 158 modifica]lo zucchero e i drappi di seta, venuti in origine dalla Grecia e dall’Egitto. Più tardi i Latini sentirono i bisogni dell’intelletto, onde più lentamente andarono nel soddisfarli. Cagioni d’altra natura, e più moderni avvenimenti, destarono in Europa la curiosità, madre dello studio: ma nel secolo delle Crociate, la letteratura de’ Greci e degli Arabi non inspirava che indifferenza agli Europei. Forse adattarono alla pratica alcuni principj di medicina, alcune figure di matematica; la necessità potè far nascere alcuni interpreti di lieve conto che servissero ai diversi bisogni de’ mercatanti e de’ soldati: pure il commercio cogli Orientali, non avea diffuso lo studio e la nozione delle lor lingue nelle scuole d’Europa71. Benchè un principio di religione simile a quello dei Maomettani dovesse fare schifi dell’idioma del Corano i Cattolici, pur sembrava che il desiderio d’intendere nel suo originale il Vangelo, avesse potuto eccitare la curiosità de’ medesimi, e incoraggiarli alla pazienza di uno studio gramaticale che avrebbe loro scoperto le bellezze di Platone e di Omero. Pure, durante un regno di sessant’anni, i Latini di Costantinopoli fastidirono l’idioma e l’erudizione dei loro sudditi: e i manoscritti furono i soli tesori che invidiati a questi non vennero, e di cui nessuno pensò a dispogliarli. Vero è che le Università di Occidente tenevano Aristotile per loro oracolo; ma un Ari[p. 159 modifica]stotile barbaro, perchè invece di ricorrere alla fonte, si erano umilmente contentate di una erronea versione composta da qualche Ebreo o Moro dell’Andaluzia. Le Crociate non avendo avuto origine che da un barbaro fanatismo, i loro effetti più rilevanti corrisposero alle cagioni. Ciascun pellegrino ambiva di tornare in patria, carico di spoglie sacre e reliquie tolte alla Grecia e alla Palestina72, ognuna delle quali andava preceduta e seguìta da una moltitudine di visioni e miracoli; nuove leggende, la cattolica Fede73; nuove superstizioni, la pratica del culto alterarono. La Guerra Santa fu l’infausta sorgente, d’onde scaturirono e l’inquisizione, e i frati mendicanti, e i definitivi progressi della idolatria74 e l’eccessivo abuso delle indulgenze. L’irrequieto spirito de’ Latini cercava pascolo a spese della ragione e della religione; laonde su l’ignoranza e la [p. 160 modifica]cecità furono il retaggio del nono e del decimo secolo, può dirsi ancora che le favole75 e le assurdità, il tredicesimo e il quattordicesimo contrassegnarono.

I Popoli settentrionali del Nort, che conquistarono l’Impero Romano, divenuti Cristiani, e coltivatori di fertili terreni insiem co’ nativi, a poco a poco si confusero con essi, e le antiche arti richiamarono a vita. All’avvicinarsi del secolo di Carlomagno, già le loro istituzioni incominciavano ad acquistare un certo grado di ordine e di consistenza, allorchè i Normanni, i Saraceni76 e gli Ungaresi, novelli sciami di barbari invasori, nel primo stato di anarchia e di barbarie immersero l’Occidente di Europa; seconda tempesta, che verso il principio dell’undicesimo secolo, sedarono l’espulsione, o la conversione de’ nemici del Cristianesimo. La civiltà, che da sì lungo tempo parea sminuirsi e ritirarsi dall’Europa, tornò con costante rapidità a dilatarsi, schiudendo un nuovo campo di belle prove e di generosi sforzi alla nascente generazione. Laonde, convenendo io che le arti ebbero progressi rapidi e luminosi ne’ due secoli delle Crociate, non ne attribuisco a queste, siccome certi filosofi, il merito; anzi opino avere esse tardati più che affrettati gli a[p. 161 modifica]vanzamenti della coltura europea77. La vita e le fatiche di tanti milioni d’uomini andate a perdersi nell’Oriente, poteano con vantaggio venire impiegate al miglioramento della nativa loro contrada. Animati allora dalle aumentate produzioni del suolo e dell’industria, il commercio e la navigazione, una corrispondenza amichevole co’ popoli dell’Oriente avrebbe arricchiti e nel medesimo tempo addottrinati i Latini. Non vedo che un aspetto, sotto il quale le Crociate possano aver prodotto vantaggio, o almeno fatto sparire un disordine. Gli abitatori d’Europa languivano schiavi sulle native lor glebe, privi di proprietà, di libertà, di dottrine; i Nobili e gli Ecclesiastici, ben picciola parte a confronto di tanta popolazione, venivano riguardati quali soli meritevoli del titolo d’uomini e di cittadini; sistema tirannico che gli artifizj del clero e la spada de’ Baroni manteneano in vigore. Ma quanto agli ecclesiastici almeno la loro autorità aveva arrecato giovamento nei secoli della barbarie; perchè e tennero accesa la luce delle scienze, che senza di loro sarebbesi spenta del tutto, e mitigarono la ferocia de’ contemporanei, e offersero asilo e soccorsi nelle loro calamità al debole e all’indigente: in somma andammo debitori ai medesimi dell’ordine civile o mantenuto, o restituito [p. 162 modifica]alla società. Ma l’independenza, il ladroneccio, le discordie de’ Nobili a disordini e flagelli sol diedero origine; e la mano ferrea dell’aristocrazia militare qualunque speranza all’industria, ad ogni nobile sforzo troncava. Possiam riguardare le Crociate siccome una delle cagioni che più efficacemente contribuirono ad atterrare il gotico edifizio del feudale sistema. Per esse i Baroni vendettero le lor signorie, per esse una parte della loro schiatta sparita dall’Europa andò a disperdersi in queste imprese dispendiose e piene di rischio. Ridotti finalmente ad inopia, che umiliò il loro orgoglio, dovettero concedere quelle patenti di libertà che le catene dello schiavo fecero men gravose, i fondi del rustico e le officine dell’operaio affrancarono, e a gradi a gradi restituirono l’esistenza alla parte più numerosa e più utile della società. Laonde possiam dire che l’incendio distruggendo gli alberi alti, sterile ingombro della foresta, arrecò aere libero e spazio per vegetare alle piante umili e più vantaggiose di cui il terreno vestivasi.

Digressione sulla famiglia dei Courtenai.

La porpora di tre imperatori, che regnarono a Costantinopoli giustificherà, o scuserà almeno, una digressione sull’origine della Casa di Courtenai, e sopra i singolare eventi di fortuna78 cui soggiacquero i tre [p. 163 modifica]rami della medesima, il primo di Edessa, il secondo di Francia, il terzo d’Inghilterra, ultimo e solo sopravvissuto alle vicissitudini di otto secoli.

[A. D. 1020] Laddove il commercio non ha per anche versate le sue ricchezze, laddove la luce del sapere non penetrò a sgombrare le tenebre del pregiudizio, le prerogative della nascita con maggior forza colpiscono le menti degli uomini, e ne ottengono venerazione. In tutti i secoli, le leggi e gli usi dei Germani hanno distinti diversi gradi nella società; laonde i Duchi e i Conti che si divisero fra loro l’Impero di Carlomagno, istituirono ereditarj i loro uffizj, e in legato ai proprj figli trasmisero il loro onore, la loro spada. Le famiglie, anche più vanagloriose nel pretendere ad antica nobiltà, vedono con rassegnazione perduto in mezzo all’oscurità del Medio Evo il ceppo del loro albero genealogico, le cui radici, comunque profonde, certamente in un plebeo mettono capo; nè v’è genealogista, che non sia costretto a discendere dieci secoli dopo l’Era cristiana, per iscoprire in ordine a ciò qualche indizio, dedotto dai soprannomi, dagli stemmi, e dagli archivj. I primi crepuscoli di questa luce ci mostrano un Athon79, cavaliere francese, di una nobiltà provata [p. 164 modifica]dal grado che il padre di lui occupava, benchè non se ne sappia il nome; quanto alla ricchezza del medesimo, ne abbiamo la prova nel castello di Courtenai ch’ei fabbricò nel distretto del Gatinese, situato ad ostro di Parigi in una distanza di circa cinquantasei miglia. Incominciando dal regno di Roberto, figlio di Ugo Capeto, i Baroni di Courtenai tengono distinta sede tra i vassalli che immediatamente dipendevano dalla Corona; e Josselin, pronipote di Athon, e figlio di madre nobile, vedesi registrato fra gli eroi della prima Crociata, ove accompagnò Baldovino di Bruges, secondo Conte di Edessa, e parente prossimo dello stesso Baldovino, poichè le loro madri erano sorelle. Ottenuto in feudo un principato dal suo congiunto, se ne mostrò meritevole col conservarlo degnamente; feudo che apparisce di molta importanza dal numero de’ guerrieri che sotto lo stesso Josselin portarono l’armi.

[A. D. 1101-1152] I. Poichè il cugino di Josselin partì per l’Europa, divenuto il secondo, conte di Edessa, sopra entrambe le rive dell’Eufrate regnò. Per saggezza di governare durante la pace, si acquistò grande numero di sudditi venutogli dall’Europa e dalla Sorìa; mentre l’assennatezza della sua amministrazione empieva i magazzini del suo Stato di grani, d’olio e di vini, le castella di cavalli, d’anni e di danaro. Nel decorso di una santa guerra di trent’anni, egli fu a vicenda vincitore e prigioniero; morì da vero soldato, tratto in lettiga a capo delle sue truppe, e gli occhi suoi moribondi si confortarono in veggendo la sconfitta de’ Turchi, che sugli anni e le infermità di questo guerriero aveano fondate le loro speranze. Il figlio di lui ne ereditò il nome e i dominj; ma più valoroso che [p. 165 modifica]accorto, dimenticò volersi altrettanta cura per conservare uno Stato, quanta pur conquistarlo. Oltrechè, si fece a sfidare le forze de’ Turchi, senza essersi assicurati i soccorsi del principe di Antiochia; trascurò fra i piaceri di Turbessel nella Sorìa80 la sicurezza della frontiera che disgiugnea i Cristiani dagl’Infedeli al di là dell’Eufrate. Zenghi, primo degli Atabecchi, profittò della lontananza del Conte per assediare e prendere d’assalto Edessa, debolmente difesa da una truppa di timidi e perfidi Orientali. Sconfitti i Franchi nel tentativo operato per rientrare in questa città, Courtenai terminò nelle prigioni di Aleppo i suoi giorni. Comunque lasciasse tuttavia un ampio patrimonio in morendo, la vedova di lui e il figlio, ancora fanciullo, non potendo resistere agli sforzi de’ vincitori, cedettero per un assegnamento annuale all’imperatore di Costantinopoli la cura di difendere e la vergogna di perdere gli ultimi possedimenti asiatici de’ Latini. La vedova contessa di Edessa co’ suoi due figli a Gerusalemme riparò. La figliuola di lei Agnese, divenne sposa e madre d’un Re; il figlio Josselin III, accettò l’uffizio di Siniscalco che era la primaria carica di quel regno. Obbligato, nella nuova Signoria di Palestina che al suo titolo andava congiunta, ad un contingente militare di cinquanta cavalieri, a capo de’ medesimi meritò lode, e il nome di Josselin vedesi con onore menzionato in tutte le negoziazioni di guerra o di pace; ma sparito colla perdita di Gerusalemme il cognome [p. 166 modifica]dei Courtenai del ramo di Edessa, pe’ maritaggi di due donne di questa Casa andò a perdersi nelle famiglie di due Baroni, uno alemanno, l’altro francese81.

II. Intanto che Josselin III regnava oltre l’Eufrate, il fratello di lui primogenito, Milone, figlio di Josselin II e pronipote di Athon, godea pacificamente in riva alla Senna i suoi beni e il suo castello ereditario, che morendo trasmise al suo terzogenito Rinaldo, o Reginaldo. Negli annali delle antiche famiglie, trovansi pochi esempj di alto ingegno, o di virtù; ma l’orgoglio de’ lor discendenti raccoglie accuratamente ogni atto di violenza ovver di rapina, purchè annunzii superiorità di valore o possanza. Un discendente di Rinaldo di Courtenai dovrebbe oggidì arrossire di noverare fra i suoi progenitori uno scorridore che spogliò e imprigionò alcuni mercatanti, comunque avessero pagati i diritti regali a Sens e ad Orleans; ma pure invanirà in pensando che fu d’uopo, per costringerlo alla restituzione un esercito messo a ciò in armi dal Conte di Sciampagna reggente del regno82. Questo Rinaldo, legando i proprj dominj alla figlia sua primogenita, la diede in isposa al settimo figlio di Luigi il Grosso, dal qual mari[p. 167 modifica]taggio altra numerosa discendenza è derivata.  [A. D. 1150] Sarebbe una naturale supposizione il credere che innalzatosi allor questo nome a pari de’ regj nomi, i figli di Pietro di Francia e di Elisabetta di Courtenai avessero goduto i titoli e gli onori spettanti ai Principi del Sangue, ma le istanze da essi fatti a tal fine, trascurate da prima, ebbero indi un aperto rifiuto; i motivi della qual disgrazia formano la Storia del secondo ramo dei Courtenai. 1. Ne’ secoli delle Crociate, la Casa reale di Francia veniva tenuta certamente in gran conto e nell’Oriente, e nell’Occidente. Pure, non essendo trascorsi che cinque regni, o generazioni da Ugo Capeto a Pietro, sembrava sì precario tuttavia il loro titolo, che ciascun Monarca credea necessario, durante la propria vita, far coronare il suo primogenito. I Pari di Francia hanno serbato per lungo tempo un diritto di supremazia sui rami non primogeniti della famiglia regnante; onde i Principi del Sangue non godeano nel dodicesimo secolo di tutto quello splendore, ai nostri tempi esteso ai Principi anche i più lontani dal succedere alla Corona. 2. Sarebbe stato d’uopo che i Baroni di Courtenai tenessero in troppo conto il proprio nome, e che altrettanto l’opinione pubblica lo rispettasse, affinchè potessero al figlio di un Monarca che sposava una donna del lor casato porre il patto di trasfondere in essa e ne’ futuri figli il nome e gli stemmi regali. Accade bensì, che allorquando la erede di una famiglia si sposa ad un inferiore, o anche ad un eguale, la donna, di comune patto o consenso porti al marito le sue gentilizie prerogative. In questo caso affatto contrario, i discendenti di Luigi il Grosso, tralignando dal regio ceppo, si trovarono gradatamente confusi co[p. 168 modifica]gli antenati della madre, e i nuovi Courtenai meritarono forse di perdere quegli onori di nascita, cui per motivo d’interesse i lor padri avevano rinunziato.

L’invilimento derivato da tali nozze fu senza confronto più durevole della ricompensa, e la grandezza passeggiera cui diedero origine andò a perdersi in una lunga abbiezione. Il primo figlio di queste nozze, Pietro di Courtenai, aveva sposata, come fu detto la sorella dei Conti di Fiandra, i due primi Imperatori latini di Costantinopoli. Cedendo imprudentemente alle sollecitazioni de’ Baroni della Romania, egli e i figli di lui, Roberto e Baldovino, occuparono successivamente il trono di Bisanzo, e perdettero gli ultimi avanzi dell’Impero latino dell’Oriente. Le nozze contratte dalla pronipote di Baldovino II unirono una seconda volta il sangue dei Courtenai a quello di Francia e dei Valois. Per sostenere le spese di un regno precario e tempestoso, questi discendenti di Pietro di Francia si videro costretti a vendere gli antichi loro possedimenti, e gli ultimi Imperatori di Costantinopoli a mendicare dalle elemosine di Roma e di Napoli la lor sussistenza.

Intanto che i primogeniti dissipavano le loro sostanze, nel correre romanzesche avventure, intanto che un plebeo profanava il castello di Courtenai, gli altri rami di questo nome adottivo, si moltiplicavano ed estendeano; ma il tempo e la povertà oscurarono lo splendore de’ lor natali. Dopo la morte di Roberto Gran Bottigliere della corona di Francia, dal grado di Principi discesero a quel di Baroni; e confondendosi le successive generazioni coi semplici gentiluomini, ne’ Signori campagnuoli di Tanlai e di Champinelles, uom non ravvisa più i discen[p. 169 modifica]denti di Ugo Capeto. I più avventurosi di essi si diedero onoratamente al mestiere delle armi; gli altri, men facoltosi e meno solerti, si perdettero, non meno de’ lor cugini del ramo di Dreux, in mezzo all’umile classe dei contadini. Durante un oscuro periodo di quattrocent’anni, ne divenne ogni dì più dubbiosa l’origine regale; talchè la loro genealogia, invece di trovarsi registrata negli annali del regno, è divenuta argomento faticoso di ricerche agli studiosi del Blasone. Sol verso la fine del secolo decimosesto, allorchè videro salire sul trono di Francia, una famiglia non molto più vicina di loro ai Valois, i Courtenai rimembrarono la propria nascita. Essendo nate alcune contestazioni che metteano per fino in dubbio, se legittima fosse la lor nobiltà, si accinsero a provare la regia discendenza, e dopo avere ottenuti i suffragi di venti giureconsulti dell’Italia e dell’Alemagna, implorarono la giustizia e la compassione di Enrico IV, modestamente paragonandosi ai discendenti di David, le prerogative de’ quali non erano state annichilate nè dal volger de’ secoli, nè dal praticato mestiere di falegname83. Ma tutte le circostanze furon contrarie, [p. 170 modifica]tutti gli orecchi sordi ai giusti loro reclami. L’indifferenza dei Valois a quella dei Borboni faceva le scuse, i Principi del Sangue di un ramo regnante disdegnarono un parentado così privo di lustro. I Parlamenti però non impugnarono le prove rassegnate dai Courtenai. Ma per non metter mano ad un esempio pericoloso, inventarono l’arbitraria decisione che faceva il solo S. Luigi, vero ceppo della famiglia reale di Francia84. I Courtenai continuarono sempre, e colla stessa fortuna, le loro lagnanze e i loro reclami, sol terminati nel presente secolo dalla morte dell’ultimo maschio di questa famiglia85. Quel sentimento di nobile orgoglio che è inspirato dalla virtù, addolcì il rigore di lor condizione; sempre rifiutarono con disdegno ogni offerta di ricchezza o di subalterni favori; e un Courtenai, al letto di morte, [p. 171 modifica]protestava che avrebbe sagrificato il suo unico figlio se lo avesse creduto capace di cambiare nel più luminoso destino i suoi titoli e diritti ad essere riconosciuto principe legittimo della Casa di Francia86.

III. Giusta gli antichi registri dell’Abbazia di Ford, i Courtenai della Contea di Devon, discendono dal principe Floro, secondogenito di Pietro, e pronipote di Luigi il Grosso87. Questa favola inventata dalla gratitudine, o dalla venalità de’ monaci, venne con troppa facilità ammessa dai nostri antiquarj Cambden88 e Dugdale89; ma si accomoda così poco ai tempi, ed è sì palesemente contraria alla verità, che la stessa famiglia di Devon per un principio di giudizioso or[p. 172 modifica]goglio questo immaginario fondatore ricusa. Gli Storici più meritevoli di fiducia, credono che Rinaldo di Courtenai, dopo avere maritata la propria figlia al figliuolo del re di Francia, abbandonasse i possedimenti avuti in quel regno, si trasferisse nell’Inghilterra, ed una seconda moglie, e nuove signorie da questo Monarca ottenesse. Ella è cosa per lo meno sicura che Enrico II onorò ne’ campi e ne’ consigli un Reginaldo del medesimo cognome, insignito dei medesimi stemmi, e che può ragionevolmente riguardarsi come appartenente alla schiatta de’ Courtenai francesi. Il diritto di tutela conferiva all’immediato Sovrano la facoltà di premiare il vassallo col concedergli in isposa una ricca e nobile erede. Intanto Courtenai era divenuto possessore di ricchi terreni nella Contea di Devon, ove, da oltre seicento anni soggiornano i suoi discendenti90. Havisa, moglie di Rinaldo, aveva ereditato da Baldovino di Briones, Barone normanno, la ragguardevole signoria di Okehampton, che a questo avea conferita Guglielmo il Conquistatore con obbligo di fornire ai servigi della guerra novantatre cavalieri. Questa Havisa, comunque donna, aveva anche il diritto di assumere le cariche maschili di Visconte ereditario, o Seriffo, e di governatore del Castello reale di Exeter. Roberto, figlio di Rinaldo e di Havisa, si sposò ad una sorella del Conte di Devon. Circa un secolo dopo, ed estinta la famiglia di Rivers91, Ugo II, pronipote di Ro[p. 173 modifica]berto, ereditò un titolo, che veniva riguardato come dignità territoriale, e dodici Conti di Devon, del cognome di Courtenai, vi furono successivamente in un periodo di dugento venti anni. Avuti nel novero dei più possenti Baroni del regno, sol dopo un ostinato contrasto, cedettero al feudo di Arundel il primo posto nel Parlamento d’Inghilterra. I Courtenai si imparentarono colle più illustri famiglie, siccome erano quelle dei Vere, dei Despenser, dei S. John, dei Talbot, dei Bohun, ed anche dei Plantageneti. In una contesa con Giovanni di Lancastre, un Courtenai, Vescovo di Londra, indi Arcivescovo di Cantorbery, manifestò una profana fiducia nel numero e nella possanza della sua famiglia e de’ suoi partigiani. Durante la pace, i Conti di Devon viveano nelle numerose loro castella e signorie di Ponente, adoperando le immense ricchezze di cui godevano in atti di divozione e di ospitalità; ed è famoso l’epitafio di Odoardo, detto il Cieco in conseguenza di una infermità sofferta dal medesimo, e il Buono per le virtù che il fregiarono, epitafio che ingenuamente ne addita una sentenza di morale, di cui però una imprudente generosità potrebbe abusare. Dopo una tenera commemorazione di cinquanta anni di unione e di felicità, da esso trascorsi colla sua moglie Mabel, così il buon Conte parla dal fondo del suo sepolcro: [p. 174 modifica]

What we gave, we have;
What we spent, we had;
What we left, we lost.92

„Quanto largii posseggo: quel ben che feci, è mio
Sol perdei quel che lascio nel dire al mondo addio.„

Ma le perdite della famiglia di Devon, giusta questo significato, superarono d’assai i doni e le spese del buon vegliardo il quale, non men dei poveri, fece scopo delle sue paterne cure gli eredi. Le somme che questi sborsarono per prendere il diritto di possessione attestano l’ampiezza de’ loro fondi; e molte signorie, godute anche al dì d’oggi da questa famiglia, vi si trovano fino dal quattordicesimo e dal tredicesimo secolo. Nelle guerre, i Courtenai adempierono con onore i doveri al grado di cavalieri congiunti; spesso fu ad essi fidata la cura di reclutare e comandare le milizie della Contea di Devon e della Cornovaglia: spesse volte seguirono il lor Signore sulle frontiere della Scozia, alcune volte ancora offersero a prezzo i lor servigi militari allo straniero, condottieri di ottanta armigieri e di altrettanti arcieri. Combattettero per terra o per mare sotto gli Eduardi e gli Enrichi, e il loro nome splende famoso nelle battaglie, ne’ tornei, e nella prima lista de’ Cavalieri della Giarrettiera. Tre fratelli della stessa famiglia agevolarono nella Spagna la vittoria del Principe Nero. [p. 175 modifica]Dopo che sei generazioni di Courtenai ebbero soggiornato in Inghilterra, presero non meno de’ lor compatriotti, in avversione il paese d’onde traevano la propria origine. Nella contesa delle Due Rose, i Conti di Devon essendosi posti dalla parte della Casa di Lancastre, tre fratelli successivamente perirono, o nel campo di battaglia, o sul palco. Enrico VII restituì loro i titoli e i beni; una figlia di Eduardo IV non disdegnò prendere per marito un Courtenai; il figlio di queste nozze, marchese di Exeter, vissuto per certo tempo in favore del proprio cugino Enrico VIII, nel campo dello Stendardo d’Oro ruppe lancia contro il francese Monarca; ma il favore di Enrico VIII era preludio di disgrazia, e la disgrazia, di morte; onde il marchese di Exeter si annovera fra le più illustri ed innocenti vittime della gelosia del tiranno: lo stesso figlio del marchese, Eduardo, morì, in esilio a Padova dopo aver languito lungo tempo prigioniero nella Torre di Londra. Il segreto amore che avea per esso concepito Maria, e che egli non curò forse per un riguardo ad Elisabetta, ha sparsa una vernice romanzesca sulla storia di questo giovine Conte, rinomato per sua avvenenza. Gli avanzi del suo retaggio passarono in diverse famiglie a motivo di parentele di quattro zie del medesimo. I principi che si succedettero nel trono d’Inghilterra fecero rivivere gli onori del suo grado per via di patenti, come se fossero stati legalmente aboliti. Durava intanto un altro ramo secondogenito della Casa di Courtenai, che discendeva da Ugo I, conte di Devon, famiglia, che da Eduardo III ai dì nostri, vale a dire per quattro secoli circa, è sempre rimasta nel suo castello di Powderham. Aumentato di patrimonio per [p. 176 modifica]regali concedimenti, e terre da dissodare ottenute nell’Irlanda, ha riacquistato di recente l’onore di appartenere alle famiglie dei Pari. Ciò nullameno i Courtenai conservano tuttavia la divisa lagrimevole che deplora lo scadimento della lor Casa e l’ingiustizia di un tale destino93. Non si creda però che la dolorosa rimembranza della passata grandezza li tolga al godimento della presente prosperità. Negli Annali dei Courtenai, l’epoca più luminosa è pur quella delle maggiori sciagure per essi; e un dovizioso Pari della Gran Brettagna non dee portare invidia a quegl’imperatori di Costantinopoli che trascorreano l’Europa sollecitando elemosine pel sostegno della propria dignità, per la difesa della loro Capitale.

Note

  1. V. l’originale del Trattato di parteggiamento nella Cronaca di Andrea Dandolo, p. 328-330, e la elezione che ne conseguì, nel Villehardouin (n. 136-140), le Osservazioni del Ducange e il primo libro della Storia di Costantinopoli sotto l’impero de’ Francesi.
  2. Dopo aver parlato di un Elettore francese che avea dato il suo voto al Doge, Andrea Dandolo parente dello stesso Doge ne trova ragionevole l’esclusione. Quidam venetorum, fidelis et nobilis senex usus oratione satis probabili, etc., Orazione che gli scrittori moderni dal Biondi al Le Beau hanno accomodata ciascuno a lor fantasia.
  3. Niceta, p. 384, vano e ignorante, quanto un Greco di que’ tempi doveva esserlo, indica il Marchese di Monferrato come Capo di una potenza marittima λαμπαρδιαν δε οικεισθαι παραλιον, abitava (o governava) la Lombardia marittima. Forse lo ha indotto in errore il tema bisantino della Lombardia situata sulle coste della Calabria.
  4. I Veneziani pretesero che il Morosini si obbligasse con giuramento a non ammettere nel capitolo di S. Sofia, cui spettava il diritto delle elezioni, altri individui fuor de’ Veneziani, e di quelli inoltre che avessero abitato dieci anni in Venezia. Ma ingelosito il Clero della prerogativa che questi arrogavansi, il Papa non la confermò, onde fra sei patriarchi Latini che ebbe Costantinopoli, solamente il primo e l’ultimo furono Veneziani.
  5. Niceta p. 383.
  6. Le lettere d’Innocenzo III somministrano ricchi materiali alla Storia delle istituzioni civili ecclesiastiche dell’impero Latino di Costantinopoli. La più importante di tali lettere (delle quali Stefano Baluzio ha pubblicata la raccolta in due volumi in folio) trovasi nell’opera, Gesta script. rer. ital., Muratori, t. III, part. I, c. 94-105.
  7. Nel Trattato di parteggiamento hanno alterati quasi tutti i nomi proprj. Non sarebbero difficili le correzioni, e una buona Carta corrispondente all’ultimo secolo dell’Impero di Bisanzo sarebbe di grande soccorso alla geografia; ma sfortunatamente d’Anville più non vive.
  8. Il loro stile d’intitolarsi era Dominus quartae partis et dimidiae imperii romani, e così continuarono fino all’anno 1356, in cui Giovanni Dolfino fu eletto Doge (Sanut., p. 430-641). Quanto al governo di Costantinopoli, V. Ducange, Hist. C. P. 1-37.
  9. Il Ducange (Hist. C. P. 11, 6) ha enumerate le conquiste fatte dalla Repubblica o dai Nobili veneziani, le isole di Candia, di Corfù, Cefalonia, Zante, Nasso, Paro, Melos, Andros, Micone, Siro, Ceos-Latn e Lemno.
  10. Bonifazio vendè l’isola di Candia ai 12 agosto dell’anno 1204. V. la transazione in Sanuto p. 533; ma non so comprendere come quest’Isola fosse il patrimonio della madre di Bonifazio, o come questa madre esser potesse la figlia d’un Imperatore di nome Alessio.
  11. Nel 1212, il Doge Pietro Zani inviò nell’isola di Candia una colonia tolta dai differenti rioni di Venezia: ma i nativi Candiotti, per la salvatichezza de’ lor costumi, e per le frequenti ribellioni, poteano essere paragonati ai Corsi sotto il dominio de’ Genovesi; e allorchè io metto in paragone i racconti del Belon, e quelli del Tournefort, non ravviso molte differenze tra la Candia de’ Veneziani, e la Candia de’ Turchi.
  12. Il Villehardouin (n. 159, 160, 173-177) e Niceta (p. 387-394) raccontano la spedizione del Marchese Bonifazio in Grecia. Il secondo ha potuto essere informato di queste particolarità dal suo fratello Michele, arcivescovo di Atene, che ei ne dipinge siccome un eloquente oratore, un uomo di Stato abilissimo, e soprattutto siccome un santo. Dai manoscritti di Niceta, che trovansi nella biblioteca bodleana, avrebbero potuto ritrarsi l’elogio che egli fa di Atene, e la descrizione di Tempe (Fabricius, Bibl. graec., t. VI, p. 405), cose che sarebbero state degne delle indagini del sig. Harris.
  13. Napoli di Romania, o Nauplia, l’antico porto di Argo è tuttavia una Fortezza assai rilevante; giace sopra una penisola circondata di scogli, e gode di un ottimo porto. V. i viaggi di Chandler nella Grecia, p. 227.
  14. Ho mitigata l’espressione di Niceta che si studia di ampliare colle sue tinte la presunzione de’ Franchi (V. de rebus post. C. P. expugnatam 375-384).
  15. Questa città, bagnata dall’Ebro, distante sei miglia da Andrinopoli, a motivo del suo doppio muro ottenne da’ Greci il nome di Didymoteicos, cambiato a poco a poco in quelli di Dimot o Demotica. Ho preferito il nome moderno di Demotica. Fu l’ultima città abitata da Carlo XII soggiornando in Turchia.
  16. Il Villehardouin con tuono di franchezza e di libertà ne dà conto de’ litigi di questi due Principi (n. 146-158). Lo Storico greco (p. 387) non defrauda di lodi il merito e la fama del Maresciallo μεγα παρα Λατινον δυναμενου στρατευμσσι, molto potente fra gli eserciti latini: in ciò dissimile da certi moderni eroi, le imprese de’ quali, sol pe’ loro comentarj son conosciute.
  17. V. la morte di Murzuflo in Niceta (pag. 393), Villehardouin (n. 141-145-163) e Gunther (cap 20, 21). Nè il Maresciallo, nè il frate mostrano la menoma compassione sulla sorte di questo usurpatore o ribelle, benchè condannato ad un supplizio di un genere più nuovo ancora de’ suoi delitti.
  18. La colonna d’Arcadio, che ne’ bassi rilievi raffigura la vittoria di lui, o quella del padre del medesimo Teodosio, vedesi tuttavia a Costantinopoli. Viene descritta, colle sue proporzioni, nelle opere del Gillio (Topograph. IV, 7), dal Banduri (l. I, antiquit. C. P. p. 507 ec.), e dal Tournefort (Viaggio in Levante t. II, lett. 12, p. 231).
  19. La ridicola novella del Gunther intorno la columna fatidica non merita che le si porga attenzione. Ella è però straordinaria cosa, che cinquant’anni prima della conquista de’ Latini, il poeta Tzetze (Chiliad., IX, 277) abbia raccontato il sogno di una matrona, la quale avea veduto un esercito nel Foro, e un uom seduto sulla cima della colonna che battea le mani una contro l’altra e metteva un forte grido.
  20. Il Ducange (Fam. byzant.) ha esaminate, e con accuratezza descritte le dinastie di Nicea, di Trebisonda e d’Epiro, delle quali Niceta vide i primordj, senza però concepirne grandi speranze.
  21. Eccetto alcuni fatti contenuti in Pachimero e Niceforo Gregoras, che noi citeremo in appresso, gli Storici bisantini, non si degnano far parola dell’impero di Trebisonda, o del principato de’ Lazi. Nè manco i Latini ne parlano, se non se ne’ romanzi de’ secoli XIV, XV. Nondimeno l’instancabile Ducange ha scoperto a tale proposito (Fam. byzant. p. 192) due passi autentici negli scritti di Vincenzo di Beauvais (l. XXXI, c. 144) e del protonotario Ogier. (V. Wadding, A. D. 1279 n. 4).
  22. Niceta fa un ritratto de’ Francesi-Latini, ove scorgesi per ogni dove l’impronta dell’astio e del pregiudizio ουδεν των αλλων εθνων εις Αρεος εργα παρασυμβεβλησθαι ηνειχοντο αλλ’ουδε τις των χαριτων η των μουσων παρα τοις βαρβαροις τουτοις επεξενιζετο, και παρα τουτο οιμαι την φυσιν ησαν ανημεροι, και τον χολον ειχον του λογου προτρεχοντα. Non tolleravano che alcun’altra nazione concorresse con essi alle imprese marziali; ma niuna della Grazie o delle Muse aveva ospizio da quei Barbari, ed inoltre erano, io credo, crudeli per natura, e aveano una bile che preveniva il discorso.
  23. Qui incomincio a valermi con fiducia e libertà degli otto libri della Hist. C. P. (sotto l’Impero de’ Francesi) composti dal Ducange come supplimento alla storia del Villehardouin, i quali comunque scritti in barbaro stile, hanno tutto il merito che all’opere classiche e originali appartiene.
  24. Nella risposta che Giovannizio fece al Pontefice, possono vedersi le rimostranze e le querele di questo principe (Gesta In. III, c. 108-109). I Romani amavano Giovannizio, e come il figliuol prodigo lo riguardavano.
  25. I Comani erano un’orda di Tartari o Turcomanni che, nel duodecimo o nel tredicesimo secolo, accampavano sulle frontiere della Moldavia. Trovavansi fra essi un grande numero di Pagani ed alcuni Maomettani. Luigi, Re d’Ungheria, nel 1370, convertì l’intera tribù al Cristianesimo.
  26. Niceta, sia per odio, sia per ignoranza, accagiona di questa rotta la viltà del Doge (p. 383); ma il Villehardouin chiama a parte della propria gloria il suo venerabile amico, qui viels home ère et gote ne vecit, mais mult ere sages et preus et vigueros (n. 193).
  27. La Geografia esatta e il testo originale del Villehardouin (n. 194), mettono Rodosto lontano tre giornate (Trois journées) da Andrinopoli. Ma il Vigenere, nella sua versione, ha sostituito goffamente tre ore; abbaglio che il Ducange non ha corretto ed ha tratti in grossolani equivoci molti moderni, i nomi de’ quali mi piace il tacere.
  28. Il Villehardouin e Niceta (p. 386-416) raccontano il regno e la morte di Baldovino; il Ducange supplisce alle loro ommissioni nelle Osservazioni, e sul finire del suo primo libro.
  29. Dopo avere allontanate tutte le circostanze sospette e improbabili possiamo trar prove pella morte di Baldovino, I. Dall’opinione de’ Baroni che non ne dubitavano (Villehardouin n. 230). II. Dall’affermazione di Giovannizio o Calo-Giovanni che si scusa sul non avere posto in libertà l’imperatore, quia debitum carnis exsolverat cum carcere teneretur (Gesta Innocentii III, c. 109).
  30. Vedasi come raccontino la storia di questo impostore gli scrittori francesi e fiamminghi, nel Ducange (Hist. C. P. III, 9), e le ridicole favole avutesi per vere dai monaci di S. Albano, in Mattia Paris (His. maj., p. 271-272).
  31. Villehardouin (n. 257). Trista conclusione che a me pur duole il citare. Noi perdiamo ad un tempo l’originale della storia di Villehardouin, e i preziosi comentarj del Ducange. Le due lettere di Enrico al Papa Innocenzo III portano qualche schiarimento alle ultime pagine del nostro Autore (Gesta, c. 106, 107).
  32. Il Maresciallo viveva ancora nel 1212; ma è probabile che ei sia morto poco dopo, nè mai tornato in Francia (Ducange, Osservazioni sopra Villehardouin p. 238). Il feudo di Messinopoli, conferitogli da Bonifazio, era l’antica Maximianopolis, fiorente fra le città della Tracia ai giorni di Amiano Marcellino (n. 141).
  33. Il servigio della Chiesa di questo S. Avvocato di Tessalonica era fatto dai Canonici del santo Sepolcro. Essa era famosa per un olio santo che continuamente vi distillava e operava portenti (Ducange, Hist. de Const. II, 4).
  34. Acropolita, c. 17, racconta la persecuzione del Legato, e la tolleranza usata da Enrico (come egli la chiama) κλυδωνα κατεστορεσε, sedò la procella.
  35. V. il regno di Enrico in Ducange (Hist. di C. P. l. I, c. 35-41, l. XI, c. 1-12) che sapeva dalle lettere dei Papi trar grande profitto per la sua Storia. Le Beau (Hist. du Bas-Empire, t. 21, p. 120-122), ha trovate, forse nel Doutremens, alcune leggi di Enrico sul servigio de’ feudi e sulle prerogative imperiali.
  36. Acropolita (cap. 14) afferma che Pietro Courtenai morì di ferro ( εργον μαχαιραε γενεσθαι) stravagante frase che corrisponde all’italiana, divenne fattura della spada; ma le oscure espressioni di questo scrittore danno a credere che prima di una tal morte ei fosse stato prigioniero, ως παντας αρδκν δεσματας ποιησαι συν πασι σαευεσι furon fatti tutti prigionieri con tutte le navi. La Cronaca di Auxerre, paese posto ne’ dintorni di Courtenai, assegna per epoca a questa morte l’anno 1219.
  37. V. quanto si riferisce al regno e alla morte di Pietro di Courtenai nel Ducange (Hist. di C. P. l. II, c. 22-28), che fa deboli sforzi per iscusare Onorio III circa l’indifferenza mostrata sull’infelice destino dell’Imperatore.
  38. Marino Sanuto (Secreta fidelium crucis, l. II, part. IV, c. 18, p. 73) trova sì ammirabile questa scena d’orrore, che la trascrive in margine, siccome bonum exemplum. Nondimeno egli riconosce la donzella per moglie legittima di Roberto.
  39. V. il regno di Roberto nel Ducange (Hist. di Costantinopoli l. III, c. 1-12).
  40. Rex igitur Franciae, deliberatione habita respondit nuntiis, se daturum hominem Syriae partibus aptum; in armis probum (prode), in bellis securum, in agendis providum. Johannem comitem Brennensem (Sanut., Secret. fidel., l. III, part. XI, c. 4, p. 205, Mattia Paris, p. 159).
  41. Il Giannone (Istoria civile, t. II, l. XVI, p. 380-385) parla lungamente intorno al maritaggio di Federico II colla figlia di Giovanni di Brienne, e la doppia unione delle corone di Napoli o di Gerusalemme.
  42. V. Acropolita, c. 27. Lo storico, allor fanciullo, ebbe in Costantinopoli la sua educazione. Aveva undici anni, quando il padre del medesimo per sottrarsi al giogo dei Latini abbandonò ricchi possedimenti, riparando alla Corte di Nicea, ove il figlio di lui ai primi onori venne innalzato.
  43. Filippo Mousches vescovo di Tournai (A. D. 1274-1282) ha composto una spezie di poema, in antico dialetto fiammingo, o piuttosto una cronaca in versi degl’Imperatori di Costantinopoli; e il Ducange in fine alla storia di Villehardouin, (V. p. 224), le imprese di Giovanni di Brienne.

    N’Aie, Ector, Roll’ne Ogiers
    Ne Judas Machabeus li fiers
    Tant ne fit d’armes en estors
    Com fist li rois Jehans cel jors
    Et il defors et il dedans
    La paru sa force et ses sens
    Et li hardiment qu’il avait.

  44. V. il regno di Giovanni di Brienne nel Ducange, Hist. di C. P. l. III, c. 13-26.
  45. V. il regno di Baldovino II fino al momento in cui fu scacciato da Costantinopoli, nel Ducange (Hist. C. P. l. IV, c. 1-34; l. V, c. 1-33).
  46. Mattia Paris racconta le due visite fatte da Baldovino II alla Corte d’Inghilterra (p. 396-637), il ritorno in Grecia armata manu (p. 407), le lettere dello stesso Baldovino e il nomen formidabile, ec. (p. 481); espressione cui non ha posto mente il Ducange (V. l’espulsione di Baldovino p. 850).
  47. Chiamano i teologi soddisfazione le opere penose, fatte con umiltà da’ peccatori, ed imposte dalla Chiesa, in riguardo al fervore de’ penitenti, o ad altre buone opere, ch’ella loro prescrive; queste indulgenze poi sono principalmente date dal Papa anche per eccitare i credenti a certe azioni, od intraprese. Se poi alcune volte si ha fatto uso non conveniente delle indulgenze, sarà cosa da disapprovarsi. (Nota di N. N.)
  48. Luigi IX si oppose, disapprovandola, alla vendita di Courtenai (Ducange l. IV, c. 23). Questa Signoria fa oggidì parte de’ dominj della Corona; ma è stata ipotecata per un certo tempo alla famiglia di Boulainvilliers. Courtenai, giurisdizione di Nemours nell’isola di Francia, è una città che contiene in circa novecento abitanti: vi si vedono tuttavia gli avanzi d’un castello (Mélanges tirés d’une grande Bibliothèque, t. X, l. V, p. 74-77).
  49. Un principe Comano, morto senza battesimo, fu sepolto innanzi alle porte di Costantinopoli, e in compagnia di lui un certo numero di Schiavi e di cavalli vivi.
  50. Sanut., Secret. fidel. crucis, l. IV, c. 18, p. 73.
  51. Non era immaginario quel valore pei credenti. (Nota di N. N.)
  52. È vero che le mummie erano pure un pegno di grande importanza pegli Egizj, ma non doveva farsi questo paragone. (Nota di N. N.)
  53. Il Ducange interpreta col vocabolo vago monetae genus le parole perparus, perpera, hyperperum. Dopo avere consultato un passo del Gunther (Hist. C. P. c. 8, p. 10) mi do a credere che il perpera sia il nummus aureus o la quarta parte d’un marco di argento, circa dieci scellini sterlini; se si fosse inteso di marco di piombo troppo tenue sarebbe stata la somma.
  54. Intorno al trasporto della Santa Corona da Costantinopoli a Parigi, V. Ducange (Hist. C. P., l. IV, c. 11-14, 24-35) e Fleury (Hist. eccl. t. XVII, p. 201-204).
  55. Mélanges tirés d’une grande bibliothèque, t. XLIII, p. 201-205. Il Lutrin di Boileau mostra l’interno, gli uffizj, le consuetudini de’ ministri della Santa Cappella; i comentatori Brossette e Saint-Marc hanno uniti e spiegati molti fatti che alla istituzione della medesima si riferiscono.
  56. Questa cura venne operata ai 24 di Marzo dell’anno 1656 sopra la nipote del celebre Pascal. Quest’uomo di altissimo ingegno, Arnaud e Nicole erano presenti per vedere ed attestare un miracolo che confuse i Gesuiti e salvò Portoreale. (Oeuvres de Racine, t. VI, p. 176-187, nell’eloquente storia di Portoreale).
  57. Se per antidoto s’intende una ragionevole critica intorno ai fatti di questa specie, particolarmente quando non sono stati assoggettati al processo solito a farsi, non sarebbe da condannarsi, bisognava spiegarsi meglio. (Nota di N. N.)
  58. Il Voltaire (Siècle de Louis XIV, c. 37, Oeuvres, t. IX, p. 178, 179) mette il suo studio a distruggere la verità de’ fatti: ma l’Hume (Saggi, vol. II) con maggiore abilità e buon successo impadronendosi della batteria volta il cannone contra i nemici.
  59. Possono vedersi ne’ libri 3, 4, 5 della compilazione del Ducange, le perdite successivamente sofferte dai Latini; ma questo storico si è lasciato sfuggire molte circostanze che si riferiscono alle conquiste de’ Greci, e che giova il rintracciare nella più compiuta storia di Giorgio Acropolita, e ne’ tre primi libri di Niceforo Gregoras, due scrittori della storia bisantina, ai quali è toccata la buona sorte di avere per editori Leone Allazio a Roma, e Giovanni Boivin Membro della Accademia delle iscrizioni a Parigi.
  60. V. Giorgio Acropolita, c. 78, p. 89, 90, edizione di Parigi.
  61. I Greci, vergognando di avere avuto ricorso agli stranieri, dissimularono la Lega coi Genovesi e gli aiuti che ne ricevettero; ma il fatto è provato dalle testimonianze di Giovanni Villani (Cron. l. VI, c. 71), del Muratori (Script. rer. ital. t. XIII, p. 202, 203) e di Guglielmo di Nangis (Annali di S. Luigi, p. 248, nel Joinville del Louvre); tanto Nangis quanto Joinville, stranieri alla disputa, poteano parlare con imparzialità. Urbano IV minacciò i Genovesi di privarli del loro arcivescovo.
  62. Fa d’uopo di non poca diligenza a conciliare le sproporzioni di numero; gli ottocento soldati di Niceta, i venticinquemila di Spandugino (Duc. l. V, c. 24), gli Sciti e i Greci di Acropolita, il numeroso esercito di Michele, quale apparirebbe dalle lettere di Papa Urbano IV (1-129).
  63. Θεληματαριοι, Volontarj. Pachimero ne gl’indica e descrive nel medesimo tempo (l. II, c. 14).
  64. A che ricercare questi Comani ne’ deserti della Tartaria, o anche nella Moldavia? una parte di essa tribù si era sottomessa a Giovanni Vatace, e probabilmente avea posto un vivaio di soldati in qualche deserto della Tracia (Cantacuzeno, l. I, c. 2).
  65. I Latini raccontano brevemente la perdita di Costantinopoli la cui conquista è stata in modo più soddisfacente descritta dai Greci, vale a dire da Acropolita (c. 85), da Pachimero (l. II, c. 26-27), da Niceforo Gregoras (lib. IV, c. 1, 2). V. Ducange, Hist. C. P., l. V, c. 19-27.
  66. V. i tre ultimi libri (l. V-VIII) e le tavole genealogiche del Ducange. Nell’anno 1382, l’Imperatore titolare di Costantinopoli era Giacomo di Bangs Duca di Andria, nel regno di Napoli, figlio di Margherita, figlia di Catterina di Valois, figlia questa di un’altra Catterina, che avea per padre Filippo figlio di Baldovino II (Ducange, l. VIII, c. 37,38). Ignorasi se egli abbia lasciato posterità.
  67. Abulfeda che vide l’ultimo periodo delle Crociate, parla del regno de’ Franchi e di quello de’ Negri, come di cose sconosciute egualmente (Proleg. ad geogr.). Se questo principe della Sorìa non avesse disdegnata la lingua latina, sarebbesi procurati facilmente libri ed interpreti.
  68. I Maomettani così chiamarono, e chiamano i Cristiani cattolici a cagione del culto che prestano alle Immagini, perchè non sanno, che quelli non prestano culto alle Immagini, che riferendosi agli esemplari di esse. (Nota di N. N.)
  69. L’Uezio nell’opera De interpretatione et de claris interpretibus (p. 131-135) dà una contezza succinta e superficiale di queste traduzioni dal latino in greco. Massimo Planude, frate di Costantinopoli (A. D. 1327-1353), ha tradotti i Comentarj di Cesare, il Sogno di Scipione, le Metamorfosi e le Eroidi d’Ovidio (Fabricius, Bibl. graec., t. X, pag. 533).
  70. I mulini a vento, che furono la prima volta inventati nell’Asia Minore, contrada di acqua scarsissima, vennero posti in uso nella Normandia l’anno 1105 (Vie privée des Français, l. I, pag. 42, 43; Ducange. Gloss. lat., l. IV, pag. 474). V. L’Inghilterra, antica traduzione del Boulard, pag. 282.
  71. V. le lamentanze di Ruggero Bacone (Biograph. Britannica, vol. I, pag. 418, edizione di Kippis). Se Bacone, o Gerberto, intendevano alcuni autori greci, potevano riguardarsi come prodigi del loro secolo, nè certamente doveano questo merito proprio al commercio dell’Oriente.
  72. Tal si era l’opinione del grande Leibnitz (Oeuvres de Fontenelle, t. V, p. 458) uno fra i sommi maestri della storia del medio evo. Non citerò che la genealogia da’ Carmelitani, e il miracolo della casa di Loreto, cose che vennero entrambe dalla Palestina.
  73. La credenza de’ Cattolici, contenuta ne’ libri del Nuovo Testamento, e nelle spiegazioni e decisioni intorno ai dogmi, fatte successivamente dai Concilj generali, soltanto fu alcune volte con nuovi vocaboli sviluppata, e meglio determinata: è poi vero che sono venute al tempo delle Crociata dall’Oriente nuove leggende, vite de’ Santi, e si sono introdotte nuove pratiche, e cerimonie; ma ciò nulla ha a fare co’ dogmi già stabiliti molto prima. (Nota di N. N.)
  74. Si è già veduto in più di una nota la sinistra applicazione che de’ vocaboli Idolatra, Idolatria fa il nostro Autore (Nota di N. N.).
  75. Non però intorno ai dogmi fondamentali contenuti nel Vangelo, e svolti dai Concilj. La buona critica, pur troppo poco più recente di un secolo ci ha mostrati gl’inganni corsi in alcune leggende. (Nota di N. N.)
  76. Se fra le nazioni barbare annovero i Saraceni, gli è in rispetto alle loro guerre, o piuttosto correrie nell’Italia e nella Francia, il solo scopo delle quali erano il saccheggio e la devastazione.
  77. Un luminoso raggio di filosofica luce uscito ai dì nostri dal fondo della Scozia, ha arrichita la letteratura di nuove nozioni sull’importante argomento de’ progressi della società in Europa. Procuro un piacere a uno stesso, e adempio un debito di giustizia nel citare i rispettabili nomi di Hume, Robertson e Adamo Smith. V. le due opere di G. Stuart tradotte da B.
  78. Mi sono prevalso senza però limitarmi a questa opera sola della Storia genealogica della nobile ed illustre Casa di Courtenai, composta da Ezra Cleaveland, tutore del Cavaliere Guglielmo di Courtenai, e rettore di Honiton, Oxford, 1735, in folio. La prima parte è tolta da Guglielmo di Tiro, la seconda dalla Storia di Francia del Bouchet; la terza da diverse memorie pubbliche e particolari dei Courtenai della Contea di Devon. Il Rettore di Honiton, si mostra più condotto da gratitudine che da secondi fini, e più da secondi fini che da discernimento.
  79. I primi schiarimenti intorno a questa famiglia è un passo del continuatore di Aimoin, frate di Fleury, scrittore del dodicesimo secolo. V. la sua Cronaca negli storici di Francia, t. XI, p. 276.
  80. Il d’Anville colloca Turbessel, o come viene nominata oggi giorno Telbesher, ad una distanza di ventiquattro miglia dal grande tragetto dell’Eufrate a Zeugma.
  81. Nelle Assise di Gerusalemme (c. 326), i possedimenti di Josselin III, trovansi registrati fra le pertenenze della Corona, compilazione che debb’essere stata eseguita tra gli anni 1153, 1187. La genealogia del medesimo può vedersi nei Lignages d’Outre-mer, c. 16.
  82. L’abate Suger ministro di Stato, racconta in assurdo modo la rapina e la riparazione, nelle sue lettere (144-116), che sono ciò nullameno i migliori Annali del dodicesimo secolo (Duchesne, Scriptor. Hist. Fr. t. IV, p. 530).
  83. Di tante istanze, apologie etc., pubblicate dai Principi di Courtenai, ho veduto soltanto le tre seguenti tutte in 8. De Stirpe et Origine Domus di Courtenai: addita sunt responsa celeberrimorum Europae jurisconsultorum, Parigi, 1607. 2. Représentation du procédé tenu à l’instance faite devant le roi par M. de Courtenai, pour la conservation de l’honneur et dignité de leur maison, branche de la royale maison de France, Parigi 1613. 3. Représentation du subject qui a porté messieurs de Salle et de Franville, de la maison de Courtenai, à se retirer hors du royaume, 1614. Il soggetto di questa era un omicidio, per cui i Courtenai chiedevano, o processo, o grazia; ma che si tenesse verso di loro lo stile che coi Principi del Sangue si praticava.
  84. Il De Thou esprime in questa guisa l’opinione de’ Parlamenti: Principis nomen nusquam in Gallia tributum nisi iis qui per mares e regibus nostris originem repetunt: qui nunc tantum a Ludovico Nono beatae memoriae numerantur: nam Cortinaei et Drocenses, a Ludovico Crasso genus ducentes, hodie inter eos minime recensentur. Distinzione che era un temperamento, anzichè un atto di giustizia. La santità di Luigi IX non potea conferirgli alcuna prerogativa particolare, che lo distinguesse dagli altri discendenti di Ugo Capeto nel patto primitivo che gli univa alla nazione francese.
  85. L’ultimo maschio della Casa di Courtenai, fu Carlo Ruggero, morto senza figli nell’anno 1730; l’ultima femmina, Elena di Courtenai, che sposò Luigi di Baufremont. Il titolo di Principessa del Sangue reale di Francia, le fu tolto con decreto 7 febbraio 1737 del Parlamento di Parigi.
  86. Il fatto singolare quivi accennato trovasi nell’opera Recueil des Pièces interessantes et peu connues (Maestricht 1786, in quattro volumi in 12); e l’editore ignoto cita chi lo narrò avendolo inteso dal labbro medesimo di Elena di Courtenai, marchesa di Beaufremont.
  87. Dugdale (Monasticon anglicanum, vol. 1, pag. 786). Cotesta favola però dovrebbe essere stata architettata prima di Odoardo III. I pietosi scialacquamenti fattisi dalle tre prime generazioni dei Courtenai a favore dell’abbazia di Ford, vennero seguìte da tirannide per una parte, da ingratitudine per l’altra; quando si fu alla sesta generazione i monaci non tennero più registro nè delle nascite, nè degli atti, nè delle morti de’ lor protettori.
  88. Nella Britannia del Cambden ove trovasi l’albero genealogico dei Conti di Devon, leggasi però una espressione che mette in dubbio l’origine regia, e regio sanguine ortos credunt.
  89. Il Dugdale nel suo Baronnage (part. I, p. 634), rimette i leggitori al suo Monasticon. Non avrebbe egli dovuto correggere i registri dell’abbazia di Ford, e togliere di mezzo questo fantasma del principe Floro, distrutto dall’autorità saldissima degli Storici francesi?
  90. Oltre al terzo, che è anche il migliore libro, della storia di Cleaveland, ho consultato il Dugdale, padre della nostra scienza genealogica (Baronnage, part. 1. p. 634-643).
  91. Questa grande famiglia de Ripuariis, Redvers o Rivers finì sotto il regno di Eduardo I in Isabella De Fortibus, famosa erede di un ricco dominio, la quale sopravvisse lungo tempo al fratello e al marito (Dugdale, Baronnage, part. 1, p. 254-257).
  92. V. Cleaveland, p. 142. Alcuni attribuiscono tale epitafio ad un Rivers, conte di Devon; ma questo stile inglese sembra appartenere piuttosto al quindicesimo che al tredicesimo secolo.
  93. Ubi Lapsus! quid feci? Impresa che fu, non v’ha dubbio, adottata dal ramo di Powderham dopo la perdita di Devon. Lo stemma dei Courtenai era da prima uno scudo d’oro con tre cialde vermiglie che sembrano indicare una parentela con Goffredo di Buglione e cogli antichi Conti di Bologna marittima.