Storia della colonna infame/Capitolo IV
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IV.
Il Verri, spogliando i libri parrocchiali di San Lorenzo, trovò che l’infelice barbiere poteva avere anche tre figlie; una di quattordici anni, una di dodici, una che aveva appena finiti i sei. Ed è bello il vedere un uomo ricco, nobile, celebre, in carica, prendersi questa cura di scavar le memorie d’una famiglia povera, oscura, dimenticata: che dico? infame; e in mezzo a una posterità, erede cieca e tenace della stolta esecrazione degli avi, cercar nuovi oggetti a una compassion generosa e sapiente. Certo, non è cosa ragionevole l’opporre la compassione alla giustizia, la quale deve punire anche quando è costretta a compiangere, e non sarebbe giustizia, se volesse condonar le pene de’ colpevoli al dolore degl’innocenti. Ma contro la violenza e la frode, la compassione è una ragione anch’essa. E se non fossero state che quelle prime angosce d’una moglie e d’una madre, quella rivelazione d’un così nuovo spavento, e d’un così nuovo cordoglio a bambine che vedevano metter le mani addosso al loro padre, al fratello, legarli, trattarli come scellerati; sarebbe un carico terribile contro coloro, i quali non avevano dalla giustizia il dovere, e nemmeno dalla legge il permesso di venire a ciò.
Chè, anche per procedere alla cattura, ci volevano naturalmente degl’indizi. E qui non c’era nè fama, nè fuga, nè querela d’un offeso, nè accusa di persona degna di fede, nè deposizion di testimoni; non c’era alcun corpo di delitto; non c’era altro che il detto d’un supposto complice. E perchè un detto tale, che non aveva per sè valor di sorte alcuna, potesse dare al giudice la facoltà di procedere, eran necessarie molte condizioni. Più d’una essenziale, avremo occasion di vedere che non fu osservata; e si potrebbe facilmente dimostrarlo di molt’altre. Ma non ce n’è bisogno; perchè, quand’anche fossero state adempite tutte a un puntino, c’era in questo caso una circostanza che rendeva l’accusa radicalmente e insanabilmente nulla: l’essere stata fatta in conseguenza d’una promessa d’impunità. “A chi rivela per la speranza dell’impunità, o concessa dalla legge, o promessa dal giudice, non si crede nulla contro i nominati,” dice il Farinacci1. E il Bossi: “si può opporre al testimonio che quel che ha detto, l’abbia detto per essergli stata promessa l’impunità... mentre un testimonio deve parlar sinceramente, e non per la speranza d’un vantaggio... E questo vale anche ne’ casi in cui, per altre ragioni, si può fare eccezione alla regola che esclude il complice dall’attestare... perchè colui che attesta per una promessa d’impunità, si chiama corrotto, e non gli si crede2”. Ed era dottrina non contradetta.
Mentre si preparavano a visitare ogni cosa, il Mora disse all’auditore: Oh V. S. veda! so che è venuta per quell’unguento; V. S. lo veda là; et aponto quel vasettino l’haueuo apparecchiato per darlo al Commissario, ma non è venuto a pigliarlo; io, gratia a Dio, non ho fallato. V. S. veda per tutto; io non ho fallato: può sparagnare di farmi tener legato. Credeva l’infelice, che il suo reato fosse d’aver composto e spacciato quello specifico, senza licenza.
Frugan per tutto; ripassan vasi, vasetti, ampolle, alberelli, barattoli. (I barbieri, a quel tempo, esercitavan la bassa chirurgia; e di lì a fare anche un po’ il medico, e un po’ lo speziale, non c’era che un passo.)
Due cose parvero sospette; e, chiedendo scusa al lettore, siam costretti a parlarne, perchè il sospetto manifestato da coloro, nell’atto della visita, fu quello che diede poi al povero sventurato un’indicazione, un mezzo per potersi accusare ne’ tormenti. E del resto c’è in tutta questa storia qualcosa di più forte che lo schifo.
In tempo di peste, era naturale che un uomo, il quale doveva trattar con molte persone, e principalmente con ammalati, stesse, per quanto era possibile, segregato dalla famiglia: e il difensor del Padilla fa questa osservazione dove, come vedremo or ora, oppone al processo la mancanza d’un corpo di delitto. La peste medesima poi aveva diminuito in quella desolata popolazione il bisogno della pulizia, ch’era già poco. Si trovaron perciò in una stanzina dietro la bottega, duo vasa stercore humano plena, dice il processo. Un birro se ne maraviglia, e (a tutti era lecito di parlar contro gli untori) fa osservare che di sopra vi è il condotto. Il Mora rispose: io dormo qui da basso, et non vado di sopra.
La seconda cosa fu che in un cortiletto si vide un fornello con dentro murata una caldara di rame, nella quale si è trovato dentro dell’acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una materia viscosa gialla et bianca, la quale, gettata al muro, fattone la prova, si attaccava. Il Mora disse: l’è smoglio (ranno): e il processo nota che lo disse con molta insistenza: cosa che fa vedere quanto essi mostrassero di trovarci mistero. Ma come mai s’arrischiarono di far tanto a confidenza con quel veleno così potente e così misterioso? Bisogna dire che il furore soffogasse la paura, che pure era una delle sue cagioni.
Tra le carte poi si trovò una ricetta, che l’auditore diede in mano al Mora, perchè spiegasse cos’era. Questo la stracciò, perchè, in quella confusione, l’aveva presa per la ricetta dello specifico. I pezzi furon raccolti subito; ma vedremo come questo miserabile accidente fu poi fatto valere contro quell’infelice.
Nell’estratto del processo non si trova quante persone fossero arrestate insieme con lui. Il Ripamonti dice che menaron via tutta la gente di casa e di bottega; giovani, garzoni, moglie, figli, e anche parenti, se ce n’era lì3.
Nell’uscir da quella casa, nella quale non doveva più rimetter piede, da quella casa che doveva esser demolita da’ fondamenti, e dar luogo a un monumento d’infamia, il Mora disse: io non ho fallato, et se ho fallato, che sij castigato; ma da quello Elettuario in puoi, io non ho fatto altro; però, se hauessi fallato in qualche cosa, ne domando misericordia.
Fu esaminato il giorno medesimo, e interrogato principalmente sul ranno che gli avevan trovato in casa, e sulle sue relazioni col commissario. Intorno al primo, rispose: signore, io non so niente, et l’hanno fatto far le donne; che ne dimandano conto da loro, che lo diranno; et sapeuo tanto io che quel smoglio vi fosse, quanto che mi credessi d’esser oggi condotto prigione.
Intorno al commissario, raccontò del vasetto d’unguento che doveva dargli, e ne specificò gl’ingredienti; altre relazioni con lui, disse di non averne avute, se non che, circa un anno prima, quello era venuto a casa sua, a chiedergli un servizio del suo mestiere.
Subito dopo fu esaminato il figliuolo; e fu allora che quel povero ragazzo ripetè la sciocca ciarla del vasetto e della penna, che abbiam riferita da principio. Del resto, l’esame fu inconcludente; e il Verri osserva, in una postilla, che “si doveva interrogare il figlio del barbiere su quel ranno, e vedere da quanto tempo si trovava nella caldaia, come fatto, a che uso; e allora si sarebbe chiarito meglio l’affare. Ma,” soggiunge, “temevano di non trovarlo reo.” E questa veramente è la chiave di tutto.
Interrogarono però su quel particolare la povera moglie del Mora, la quale alle varie domande rispose che aveva fatto il bucato dieci o dodici giorni avanti; che ogni volta riponeva del ranno per certi usi di chirurgia; che per questo gliene avevan trovato in casa; ma che quello non era stato adoprato, non essendocene stato bisogno.
Si fece esaminare quel ranno da due lavandaie, e da tre medici. Quelle dissero ch’era ranno, ma alterato; questi, che non era ranno; le une e gli altri, perchè il fondo appiccicava e faceva le fila. “In una bottega d’un barbiere,” dice il Verri, “dove si saranno lavati de’ lini sporchi e dalle piaghe e da’ cerotti, qual cosa più naturale che il trovarsi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo varii giorni d’estate?4”
Ma in ultimo, da quelle visite non risultava una scoperta; risultava soltanto una contradizione. E il difensore del Padilla ne deduce, con troppo evidente ragione, che “dalla lettura dell’istesso processo offensiuo, non si vede constare del corpo del delitto; requisito e preambolo necessario, acciò si venga a Reato, atto tanto pregiudiciale, e danno irreparabile.” E osserva che, tanto più era necessario, in quanto l’effetto che si voleva attribuire a un delitto, il morir tante persone, aveva la sua causa naturale. “Per i quali giuditii incerti”, dice, “quanto fosse necessario venire all’esperienza, lo ricercauano le maligne costellationi, et li pronostici de’ Matthematici, quali nell’anno 1630 altro non concludevano che peste, e finalmente il veder tante città insigni della Lombardia, et Italia rimanere desolate, et dalla peste distrutte, in quali non si sentirno pensieri, nè timori di onto.” Anche l’errore vien qui in aiuto della verità: la quale però non n’aveva bisogno. E fa male il vedere come quest’uomo, dopo aver fatto e questa e altre osservazioni, ugualmente atte a dimostrar chimerico il delitto medesimo, dopo avere attribuito alla forza de’ tormenti le deposizioni che accusavano il suo cliente, dica in un luogo queste strane parole: “conuien confessare, che per malignità de’ detti nominati, et altri complici, con animo ancor di sualigiare le case, et far guadagni, come il detto barbiere, al fol. 104, disse, si mouessero a tanto delitto contro la propria Patria.”
Nella lettera d’informazione al governatore, il capitano di giustizia parla di questa circostanza così: “Il barbiero è preso, in casa di cui si sono trovate alcune misture, per giudicio de periti, molto sospette.” Sospette! È una parola con cui il giudice comincia, ma con cui non finisce, se non suo malgrado, e dopo aver tentati tutti i mezzi per arrivare alla certezza. E se ognuno non sapesse, o non indovinasse quelli ch’erano in uso anche allora, e che si sarebbero potuti adoprare, quando si fosse veramente pensato a chiarirsi sulla qualità velenosa di quella porcheria, l’uomo che presiedeva al processo ce l’avrebbe fatto sapere. In quell’altra lettera rammentata poco sopra, con la quale il tribunale della Sanità aveva informato il governatore di quel grande imbrattamento del 18 di maggio, si parlava pure d’un esperimento fatto sopra de’ cani, “per accertarsi se tali ontuosità erano pestilentiali o no”. Ma allora non avevan nelle mani nessun uomo sul quale potessero fare l’esperimento della tortura, e contro il quale le turbe gridassero: tolle!
Prima però di mettere alle strette il Mora, vollero aver dal commissario più chiare e precise notizie; e il lettore dirà che ce n’era bisogno. Lo fecero dunque venire, e gli domandarono se ciò che aveva deposto era vero, e se non si rammentava d’altro. Confermò il primo detto, ma non trovò nulla da aggiungerci.
Allora gli dissero che ha molto dell’inuerisimile che tra lui et detto barbiero non sia passata altra negotiatione di quella che ha deposto, trattandosi di negotio tanto graue, il quale non si commette a persone per eseguirlo, se non con grande et confidente negotiatione, et non alla fugita, come lui depone.
L’osservazione era giusta, ma veniva tardi. Perchè non farla alla prima, quando il Piazza depose la cosa in que’ termini? Perchè una cosa tale chiamarla verità? Che avessero il senso del verisimile così ottuso, così lento, da volerci un giorno intero per accorgersi che lì non c’era? Essi? Tutt’altro. L’avevan delicatissimo, anzi troppo delicato. Non eran que’ medesimi che avevan trovato, e immediatamente, cose inverisimili che il Piazza non avesse sentito parlare dell’imbrattamento di via della Vetra, e non sapesse il nome de’ deputati d’una parrocchia? E perchè in un caso così sofistici, in un altro così correnti?
Il perchè lo sapevan loro, e Chi sa tutto; quello che possiamo vedere anche noi è che trovaron l’inverisimiglianza, quando poteva essere un pretesto alla tortura del Piazza; non la trovarono quando sarebbe stata un ostacolo troppo manifesto alla cattura del Mora.
Abbiam visto, è vero, che la deposizion del primo, come radicalmente nulla, non poteva dar loro alcun diritto di venire a ciò. Ma poichè volevano a ogni modo servirsene, bisognava almeno conservarla intatta. Se gli avessero dette la prima volta quelle parole: ha molto dell’inuerisimile; se lui non avesse sciolta la difficoltà, mettendo il fatto in forma meno strana, e senza contradire al già detto (cosa da sperarsi poco); si sarebbero trovati al bivio, o di dover lasciare stare il Mora, o di carcerarlo dopo avere essi medesimi protestato, per dir così, anticipatamente contro un tal atto.
L’osservazione fu accompagnata da un avvertimento terribile. Et perciò se non si risoluerà di dire interamente la verità, come ha promesso, se gli protesta che non se gli seruarà l’impunità promessa, ogni volta che si trovi diminuta la suddetta sua confessione, et non intiera di tutto quello è passato tra di lui et il suddetto Barbiero, et per il contrario, dicendo la verità se gli seruarà l’impunità promessa.
E qui si vede, come avevamo accennato sopra, cosa potè servire ai giudici il non ricorrere al governatore per quell’impunità. Concessa da questo, con autorità regia e riservata, con un atto solenne, e da inserirsi nel processo, non si poteva ritirarla con quella disinvoltura. Le parole dette da un auditore si potevano annullare con altre parole.
Si noti che l’impunità per il Baruello fu chiesta al governatore il 5 di settembre, cioè dopo il supplizio del Piazza, del Mora, e di qualche altro infelice. Si poteva allora mettersi al rischio di lasciarne scappar qualcheduno: la fiera aveva mangiato, e i suoi ruggiti non dovevan più esser così impazienti e imperiosi.
A quell’avvertimento, il commissario dovette, poichè stava fermo nel suo sciagurato proposito, aguzzar l’ingegno quanto poteva, ma non seppe far altro che ripeter la storia di prima. Dirò a V. S.: due dì avanti che mi dasse l’onto, era il detto Barbiero sul corso di Porta Ticinese, con tre d’altri in compagnia; et vedendomi passare, mi disse: Commissario, ho un onto da darui; io gli dissi: volete darmelo adesso? lui mi disse di no, et all’hora non mi disse l’effetto che doueua fare il detto onto; ma quando me lo diede poi, mi disse ch’era onto da ongere le muraglie, per far morire la gente; nè io gli dimandai se lo haueua provato. Se non che la prima volta aveva detto: lui non mi disse niente; m’imagino bene che detto onto fosse velenato; la seconda: mi disse ch’era per far morire la gente. Ma senza farsi caso d’una tal contradizione, gli domandano chi erano quelli che erano con detto Barbiero, et come erano vestiti.
Chi fossero, non lo sa; sospetta che dovessero essere vicini del Mora; come fossero vestiti, non se ne rammenta; solo mantiene che è vero tutto ciò che ha deposto contro di lui. Interrogato se è pronto a sostenerglielo in faccia, risponde di sì. È messo alla tortura, per purgar l’infamia, e perchè possa fare indizio contro quell’infelice.
I tempi della tortura sono, grazie al cielo, abbastanza lontani, perchè queste formole richiedano spiegazione. Una legge romana prescriveva che “la testimonianza d’un gladiatore o di persona simile, non valesse senza i tormenti5.” La giurisprudenza aveva poi determinate, sotto il titolo d’infami, le persone alle quali questa regola dovesse applicarsi; e il reo, confesso o convinto, entrava in quella categoria. Ecco dunque in che maniera intendevano che la tortura purgasse l’infamia. Come infame, dicevano, il complice non merita fede; ma quando affermi una cosa contro un suo interesse forte, vivo, presente, si può credere che la verità sia quella che lo sforzi ad affermare. Se dunque, dopo che un reo s’è fatto accusatore d’altri, gli s’intima, o di ritrattar l’accusa, o di sottoporsi ai tormenti, e lui persiste nell’accusa; se, ridotta la minaccia ad effetto, persiste anche ne’ tormenti, il suo detto diventa credibile: la tortura ha purgato l’infamia, restituendo a quel detto l’autorità che non poteva avere dal carattere della persona.
E perchè dunque non avevan fatta confermare al Piazza ne’ tormenti la prima deposizione? Fu anche questo per non mettere a cimento quella deposizione, così insufficiente, ma così necessaria alla cattura del Mora? Certo una tale omissione rendeva questa ancor più illegale: giacchè era bensì ammesso che l’accusa dell’infame, non confermata ne’ tormenti, potesse dar luogo, come qualunque altro più difettoso indizio, a prendere informazioni, ma non a procedere contro la persona6. E riguardo alla consuetudine del foro milanese, ecco quel che attesta il Claro in forma generalissima: “Affinchè il detto del complice faccia fede, è necessario che sia confermato ne’ tormenti, perchè, essendo lui infame a cagion del suo proprio delitto, non può essere ammesso come testimonio, senza tortura; e così si pratica da noi: et ita apud nos servatur7”.
Era dunque legale almeno la tortura data al commissario in quest’ultimo costituto? No, certamente: era iniqua, anche secondo le leggi, poichè gliela davano per convalidare un’accusa che non poteva diventar valida con nessun mezzo, a cagion dell’impunità da cui era stata promossa. E si veda come gli avesse avvertiti a proposito il loro Bossi. “Essendo la tortura un male irreparabile, si badi bene di non farla soffrire in vano a un reo in casi simili, cioè quando non ci siano altre presunzioni o indizi del delitto8.”
Ma che? facevan dunque contro la legge, a dargliela, e a non dargliela? Sicuro; e qual maraviglia che chi s’è messo in una strada falsa, arrivi a due che non son buone, nè l’una nè l’altra?
Del resto, è facile indovinare che la tortura datagli per fargli ritrattare un’accusa, non dovette esser così efficace come quella datagli per isforzarlo ad accusarsi. Infatti, non ebbero questa volta a scrivere esclamazioni, a registrare urli nè gemiti: sostenne tranquillamente la sua deposizione.
Gli domandaron due volte perchè non l’avesse fatta ne’ primi costituti. Si vede che non potevan levarsi dalla testa il dubbio, e dal cuore il rimorso che quella sciocca storia fosse un’ispirazion dell’impunità. Rispose: fu per l’impedimento dell’aqua che ho detto che haueuo beuuta. Avrebbero certamente desiderato qualcosa di più concludente; ma bisognava contentarsi. Avevan trascurati, che dico? schivati, esclusi, tutti i mezzi che potevan condurre alla scoperta della verità: delle due contrarie conclusioni che potevan risultare dalla ricerca, n’avevan voluta una, e adoprato, prima un mezzo, poi un altro, per ottenerla a qualunque costo: potevan pretendere di trovarci quella soddisfazione che può dar la verità sinceramente cercata? Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder quella che si desidera.
Calato dalla fune, e mentre lo slegavano, il commissario disse: Signore, vi voglio un puoco pensar sino a dimani, et dirò poi quello d’auantaggio, che mi ricorderò, tanto contro di lui, quanto d’altri.
Mentre poi lo riconducevano in carcere, si fermò, dicendo: ho non so che da dire; e nominò come gente amica del Mora, e pochi di buono, quel Baruello, e due foresari9, Girolamo e Gaspare Migliavacca, padre e figlio.
Così lo sciagurato cercava di supplir col numero delle vittime alla mancanza delle prove. Ma coloro che l’avevano interrogato, potevano non accorgersi che quell’aggiungere era una prova di più che non aveva che rispondere? Eran loro che gli avevan chiesto delle circostanze che rendessero verisimile il fatto; e chi propone la difficoltà, non si può dir che non la veda. Quelle nuove denunzie in aria, o que’ tentativi di denunzie volevan dire apertamente: voi altri pretendete ch’io vi renda chiaro un fatto; come è possibile, se il fatto non è? Ma, in ultimo, quel che vi preme è d’aver delle persone da condannare: persone ve ne do; a voi tocca a cavarne quel che vi bisogna. Con qualcheduno vi riuscirà: v’è pur riuscito con me.
Di que’ tre nominati dal Piazza, e d’altri che, andando avanti, furon nominati con ugual fondamento, e condannati con ugual sicurezza, non faremo menzione, se non in quanto potrà esser necessario alla storia di lui e del Mora (i quali, per essere i primi caduti in quelle mani, furono riguardati sempre come i principali autori del delitto); o in quanto ne esca qualcosa degna di particolare osservazione. Omettiamo pure in questo luogo, come faremo altrove, de’ fatti secondari e incidenti, per venir subito al secondo esame del Mora; che fu in quel giorno medesimo.
In mezzo a varie domande, sul suo specifico, sul ranno, su certe lucertole che aveva fatto prender da de’ ragazzi, per comporne un medicamento di que’ tempi (domande alle quali soddisfece come un uomo che non ha nulla da nascondere nè da inventare), gli metton lì i pezzi di quella carta che aveva stracciata nell’atto della visita. La riconosco, disse, per quella scrittura che io strazziai inauertentamente; et si potranno li pezzetti congregar insieme, per veder la continenza, et mi verrà ancora a memoria da chi mi sij stata data.
Passaron poi a fargli un’interrogazione di questa sorte: in che modo, non hauendo più che tanta amicitia con il detto Commissario chiamato Gulielmo Piazza, come ha detto nel precedente suo esame, esso Commissario con tanta libertà gli ricercò il suddetto vaso di preseruatiuo; et lui Constituto, con tanta libertà et prestezza, si offerse di darglielo, et l’interpellò di andarlo a pigliare, come nell’altro suo esame ha deposto.
Ecco che torna in campo la misura stretta della verisimiglianza. Quando il Piazza asserì per la prima volta, che il barbiere, suo amico di bon dì e bon anno, con quella medesima libertà e prestezza, gli aveva offerto un vasetto per far morire la gente, non gli fecero difficoltà; la fanno a chi asserisce che si trattava d’un rimedio. Eppure, si devono naturalmente usar meno riguardi nel cercare un complice necessario a una contravvenzion leggiera, e per una cosa in sè onestissima, che a cercarlo, senza necessità, per un attentato pericoloso quanto esecrabile: e non è questa una scoperta che si sia fatta in questi due ultimi secoli. Non era l’uomo del secento che ragionava così alla rovescia: era l’uomo della passione. Il Mora rispose: io lo feci per l’interesse.
Gli domandano poi se conosce quelli che il Piazza aveva nominati; risponde che li conosce, ma non è loro amico, perchè son certa gente da lasciarli fare il fatto suo. Gli domandano se sa chi avesse fatto quell’imbrattamento di tutta la città; risponde di no. Se sa da chi il commissario abbia avuto l’unguento per unger le muraglie: risponde ancora di no.
Gli domandan finalmente: se sa che persona alcuna, con offerta de danari, habbi ricercato il detto Commissario ad ontar le muraglie della Vedra de’ Cittadini, et che per così fare, li habbi poi dato un vasetto di vetro con dentro tal onto. Rispose, chinando la testa, e abbassando la voce (flectens caput, et submissa voce): non so niente.
Forse soltanto allora cominciava a vedere a che strano e orribil fine potesse riuscire quel rigirío di domande. E chi sa in che maniera sarà stata fatta questa da coloro, che, incerti, volere o non volere, della loro scoperta, tanto più dovevano accennar di saperne, e mostrarsi anticipatamente forti contro le negative che prevedevano. I visi e gli atti che facevan loro, non li notavano. Andaron dunque avanti a domandargli direttamente: se lui Constituto ha ricercato il suddetto Gulielmo Piazza Commissario della Sanità ad ongere le muraglie lì a torno alla Vedra de’ Cittadini, et per così fare se gli ha dato un vasetto di vetro con dentro l’onto che doueua adoperare; con promessa di dargli ancora una quantità de danari.
Esclamò, più che non rispose: Signor no! maidè10 no! no in eterno! far io queste cose? Son parole che può dire un colpevole, quanto un innocente; ma non nella stessa maniera.
Gli fu replicato, che cosa dirà poi quando dal suddetto Gulielmo Piazza Commissario della Sanità, gli sarà questa verità sostenuta in faccia.
Di nuovo questa verità! Non conoscevan la cosa che per la deposizione d’un supposto complice; a questo avevan detto essi medesimi, il giorno medesimo, che, come la raccontava lui, haueua molto dell’inuerisimile; lui non ci aveva saputo aggiungere neppure un’ombra di verisimiglianza, se la contradizione non ne dà; e al Mora dicevano francamente: questa verità! Era, ripeto, rozzezza de’ tempi? era barbarie delle leggi? era ignoranza? era superstizione? O era una di quelle volte che l’iniquità si smentisce da sè?
Il Mora rispose: quando mi dirà questo in faccia, dirò che è un infame, et che non può dire questo, perchè non ha mai parlato con me di tal cosa, et guardimi Dio!
Si fa venire il Piazza, e, alla presenza del Mora, gli si domanda, tutto di seguito, se è vero questo e questo e questo; tutto ciò che ha deposto. Risponde: Signor sì, che è vero. Il povero Mora grida: ah Dio misericordia! non si trouarà mai questo.
Il commissario: io sono a questi termini, per sostentarui voi.
Il Mora: non si trouarà mai; non prouarete mai d’esser stato a casa mia.
Il commissario: non fossi mai stato in casa vostra, come vi son stato; che sono a questi termini per voi.
Il Mora: non si trouarà mai che siate stato a casa mia.
Dopo di ciò, furon rimandati, ognuno nel suo carcere.
Il capitano di giustizia, nella lettera al governatore, più volte citata, rende conto di quel confronto in questi termini: "Il Piazza animosamente gli ha sostenuto in faccia, esser vero ch’egli riceuè da lui tale unguento, con le circostanze del luogo e del tempo." Lo Spinola dovette credere che il Piazza avesse specificate queste circostanze, contradittoriamente col Mora; e tutto quel sostenere animosamente si riduceva in realtà a un Signor sì, che è vero.
La lettera finisce con queste parole: "Si vanno facendo altre diligenze per scoprire altri complici, o mandanti. Fratanto ho voluto che quello che passa fosse inteso da V.E., alla quale humilmente bacio le mani, et auguro prospero fine delle sue imprese." Probabilmente ne furono scritte altre, che sono perdute. In quanto all’imprese, l’augurio andò a vòto. Lo Spinola, non ricevendo rinforzi, e disperando ormai di prender Casale, s’ammalò, anche di passione, verso il principio di settembre, e morì il 28, mancando sull’ultimo all’illustre soprannome di prenditor di città, acquistato nelle Fiandre, e dicendo (in ispagnolo): m’han levato l’onore. Gli avevan fatto peggio, col dargli un posto a cui erano annesse tante obbligazioni, delle quali pare che a lui ne premesse solamente una: e probabilmente non gliel avevan dato che per questa.
Il giorno dopo il confronto, il commissario chiese d’esser sentito; e, introdotto, disse: il Barbiero ha detto ch’io non sono mai stato a casa sua; perciò V.S. esamini Baldassar Litta, che sta nella casa dell’Antiano, nella Contrada di S. Bernardino, et Stefano Buzzio, che fa il tintore, et sta nel portone per contro S. Agostino, presso S. Ambrogio, li quali sono informati ch’io sono stato nella casa et bottega di detto Barbiero.
Era venuto a fare una tal dichiarazione, di suo proprio impulso? O era un suggerimento fattogli dare da’ giudici? Il primo sarebbe strano, e l’esito lo farà vedere; del secondo c’era un motivo fortissimo. Volevano un pretesto per mettere il Mora alla tortura; e tra le cose che, secondo l’opinione di molti dottori, potevan dare all’accusa del complice quel valore che non aveva da sè, e renderla indizio sufficiente alla tortura del nominato, una era che tra loro ci fosse amicizia. Non però un’amicizia, una conoscenza qualunque; perchè, "a intenderla così," dice il Farinacci, "ogni accusa d’un complice farebbe indizio, essendo troppo facile che il nominante conosca il nominato in qualche maniera; ma bensì un praticarsi stretto e frequente, e tale da render verisimile che tra loro si sia potuto concertare il delitto11.” Per questo avevan domandato da principio al commissario, se detto Barbiero è amico di lui Constituto. Ma il lettore si rammenta della risposta che n’ebbero: amico sì, buon dì buon anno. L’intimazione minacciosa fattagli poi, non aveva prodotto niente di più; e quello che avevan cercato come un mezzo, era diventato un ostacolo. È vero che non era, nè poteva diventar mai un mezzo legittimo nè legale, e che l’amicizia più intima e più provata non avrebbe potuto dar valore a un’accusa resa insanabilmente nulla dalla promessa d’impunità. Ma a questa difficoltà, come a tante altre che non risultavano materialmente dal processo, ci passavan sopra: quella, l’avevan messa in evidenza essi medesimi con le loro domande; e bisognava veder di levarla. Nel processo son riferiti discorsi di carcerieri, di birri e di carcerati per altri delitti, messi in compagnia di quegl’infelici, per cavar loro qualcosa di bocca. È quindi più che probabile che abbiano, con uno di questi mezzi, fatto dire al commissario, che la sua salvezza poteva dipendere dalle prove che desse della sua amicizia col Mora; e che lo sciagurato, per non
dir che non n’aveva, sia ricorso a quel partito, al quale non avrebbe mai pensato da sè. Perchè, quale assegnamento potesse fare sulla testimonianza de’ due che aveva citati, si vede dalle loro deposizioni. Baldassare Litta, interrogato se ha mai visto il Piazza in casa o in bottega del Mora, risponde: signor, no. Stefano Buzzi, interrogato se sa che tra il detto Piazza et Barbiero vi passi alcuna amicitia, risponde: può essere che siano amici, et che si salutassero; ma questo non lo saprei mai dire a V.S. Interrogato di nuovo se sa che il detto Piazza sia mai stato in casa o bottega del detto Barbiero, risponde: non lo saprei mai dire a V.S.
Vollero poi sentire un altro testimonio, per verificare una circostanza asserita dal Piazza nella sua deposizione; cioè che un certo Matteo Volpi s’era trovato presente, quando il barbiere gli aveva detto: ho poi da darvi un non so che. Questo Volpi, interrogato su di ciò, non solo risponde di non ne saper nulla, ma, redarguito, aggiunge risolutamente: io giurarò che non ho mai visto che si siano parlati insieme.
Il giorno seguente, 30 di giugno, fu sottomesso il Mora a un nuovo esame; e non s’indovinerebbe mai come lo principiassero.
Che dica per qual causa lui Constituto, nell’altro suo esame, mentre fu confrontato con Gulielmo Piazza Commissario della Sanità, ha negato a pena hauer cognitione di lui, dicendo che mai fu in casa sua, cosa però che in contrario gli fu sostenuta in faccia; et pure, nel primo suo esame mostra d’hauere piena sua cognitione, cosa che ancor depongono altri nel processo formato; il che ancora si conosce per vero dalla prontezza sua in offerirli, et apparecchiarli il vaso di preseruatiuo, deposto nel suo precedente esame.
Risponde: è ben vero che detto Commissario passa da lì spesso dalla mia bottega; ma non ha prattica di casa mia, nè di me.
Replicano: che non solo è contrario al suo primo esame, ma ancora alla depositione d’altri testimonij...
Qui è superflua qualunque osservazione.
Non osaron però di metterlo alla tortura sulla deposizion del Piazza, ma che fecero? ricorsero all’espediente degl’inverisimili; e, cosa da non credersi, uno fu il negar che faceva d’avere amicizia col Piazza, e che questo praticasse in casa sua; mentre asseriva d’avergli promesso il preservativo! L’altro che non rendesse un conto soddisfacente del perchè aveva fatta in pezzi quella scrittura. Chè il Mora seguitava a dire d’averlo fatto senza badarci, e non credendo che una tal cosa potesse importare alla giustizia; o che temesse, povero infelice! d’aggravarsi confessando che l’aveva fatto per trafugar la prova d’una contravvenzione, o che infatti non sapesse ben render conto a sè stesso di ciò che aveva fatto in que’ primi momenti di confusione e di spavento. Ma sia come si sia, que’ pezzi gli avevano: e se credevano che in quella scrittura ci potesse esser qualche indizio del delitto, potevan rimetterla insieme, e leggerla come prima: il Mora stesso gliel aveva suggerito. Anzi, chi mai crederà che non l’avessero già fatto?
Intimaron dunque al Mora, con minaccia della tortura, che dicesse la verità su que’ due punti. Rispose: già ho detto quello che passa intorno alla scrittura; et puole il Commissario dir quello che vole, perchè dice un’infamità, perchè io non gli ho dato niente.
Credeva (e non doveva crederlo?) che questa fosse in ultimo la verità che volevan da lui; ma no signore; gli dicono che non se gli ricerca questa particolarità, perchè sopra di essa non s’interroga, nè si vole per adesso altra verità da lui, che di sapere il fine perchè ha scarpato (stracciato) la detta scrittura, et perchè ha negato et neghi che il detto Commissario sia stato alla bottega sua, mostrando quasi di non hauer cognitione di lui.
Non si troverebbe, m’immagino, così facilmente un altro esempio d’un così sfrontatamente bugiardo rispetto alle formalità legali. Essendo troppo manifestamente mancante il diritto d’ordinar la tortura per l’oggetto principale, anzi unico, dell’accusa, volevano far constare ch’era per altro. Ma il mantello dell’iniquità è corto; e non si può tirarlo per ricoprire una parte, senza scoprirne un’altra. Compariva così di più, che non avevano, per venire a quella violenza, altro che due iniquissimi pretesti: uno dichiarato tale in fatto da loro medesimi, col non voler chiarirsi di ciò che contenesse la scrittura; l’altro, dimostrato tale, e peggio, dalle testimonianze con cui avevan tentato di farlo diventare indizio legale.
Ma si vuol di più? Quand’anche i testimoni avessero pienamente confermato il secondo detto del Piazza su quella circostanza particolare e accessoria; quand’anche non ci fosse stata di mezzo l’impunità; la deposizion di costui non poteva più somministrare nessun indizio legale. "Il complice che varia e si contradice nelle sue deposizioni, essendo perciò anche spergiuro, non può fare, contro i nominati, indizio alla tortura.... anzi nemmeno all’inquisizione.... e questa si può dire dottrina comunemente ricevuta dai dottori.12"
Il Mora fu messo alla tortura!
L’infelice non aveva la robustezza del suo calunniatore. Per qualche tempo però, il dolore non gli tirò fuori altro che grida compassionevoli, e proteste d’aver detta la verità. Oh Dio mio! non ho cognitione di colui, nè ho mai hauuto pratica con lui, et per questo non posso dire.... et per questo dice la bugia che sia praticato in casa mia, nè che sia mai stato nella mia bottega. Son morto! misericordia, mio Signore! misericordia! Ho stracciato la scrittura, credendo fosse la ricetta del mio elettuario.... perchè voleuo il guadagno io solamente.
Questa non è causa sufficiente, gli dissero. Supplicò d’esser lasciato giù, che direbbe la verità! Fu lasciato giù, e disse: La verità è che il Commissario non ha pratica alcuna meco. Fu ricominciato e accresciuto il tormento: alle spietate istanze degli esaminatori, l’infelice rispondeva: V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò: la risposta di Filota a chi lo faceva tormentare, per ordine d’Alessandro il grande, "il quale stava ascoltando pur anch’esso dietro ad un arazzo13": dic quid me velis dicere14; e la risposta di chi sa quant’altri infelici.
Finalmente, potendo più lo spasimo che il ribrezzo di calunniar sè stesso, che il pensiero del supplizio, disse: ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al Commissario. V. S. mi lasci giù, che dirò la verità.
Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del birro, come al Piazza l’immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso con una tortura illegale, come nel primo con un’illegale impunità. L’armi eran prese dall’arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e a tradimento.
Vedendo che il dolore produceva l’effetto che avevan tanto sospirato, non esaudiron la supplica dell’infelice, di farlo almeno cessar subito. Gl’intimarono che cominci a dire.
Disse: era sterco humano, smojazzo (ranno; ed ecco l’effetto di quella visita della caldaia, cominciata con tanto apparato, e troncata con tanta perfidia); perchè me lo domandò lui, cioè il Commissario, per imbrattare le case, et di quella materia che esce dalla bocca dei morti, che son sui carri. E nemmen questo era un suo ritrovato. In un esame posteriore, interrogato doue ha imparato tal sua compositione, rispose: diceuano così in barbarìa, che si adoperaua di quella materia che esce dalla bocca de’ morti... et io m’ingegnai ad aggiongervi la lisciuia et il sterco. Avrebbe potuto rispondere: da’ miei assassini, ho imparato; da voi altri e dal pubblico.
Ma c’è qui qualche altra cosa di molto strano. Come mai uscì fuori con una confessione che non gli avevan richiesta, che avevano anzi esclusa da quell’esame, dicendogli che non se gli ricerca questa particolarità, perché sopra di essa non s’interroga? Poichè il dolore lo strascinava a mentire, par naturale che la bugia dovesse stare almeno ne’ limiti delle domande. Poteva dire d’essere amico intrinseco del commissario; poteva inventar qualche motivo colpevole, aggravante, dell’avere stracciata la scrittura; ma perchè andar più in là di quello che lo spingevano? Forse, mentre era sopraffatto dallo spasimo, gli andavan suggerendo altri mezzi per farlo finire? gli facevano altre interrogazioni, che non furono scritte nel processo? Se fosse così, potremmo esserci ingannati noi a dir che avevano ingannato il governatore col lasciargli credere che il Piazza fosse stato interrogato sul delitto. Ma se allora non abbiam messo in campo il sospetto che la bugia fosse nel processo, piuttosto che nella lettera, fu perché i fatti non ce ne davano un motivo bastante. Ora è la difficoltà d’ammettere un fatto stranissimo, che ci sforza quasi a fare una supposizione atroce, in aggiunta di tante atrocità evidenti. Ci troviam, dico, tra il credere che il Mora s’accusasse, senza esserne interrogato, d’un delitto orribile, che non aveva commesso, che doveva procacciargli una morte spaventosa, e il congetturar che coloro, mentre riconoscevan col fatto di non avere un titolo sufficiente di tormentarlo per fargli confessar quel delitto, profittassero della tortura datagli con un altro pretesto, per cavargli di bocca una tal confessione. Veda il lettore quel che gli pare di dovere scegliere.
L’interrogatorio che succedette alla tortura fu, dalla parte de’ giudici, com’era stato quello del commissario dopo la promessa d’impunità, un misto o, per dir meglio, un contrasto d’insensatezza e d’astuzia, un moltiplicar domande senza fondamento, e un ometter l’indagini più evidentemente indicate dalla causa, più imperiosamente prescritte dalla giurisprudenza.
Posto il principio che "nessuno commette un delitto senza cagione"; riconosciuto il fatto che "molti deboli d’animo avevan confessato delitti che poi, dopo la condanna, e al momento del supplizio, avevan protestato di non aver commessi, e s’era trovato infatti, quando non era più tempo, che non gli avevan commessi," la giurisprudenza aveva stabilito che "la confessione non avesse valore, se non c’era espressa la cagione del delitto, e se questa cagione non era verisimile e grave, in proporzion del delitto medesimo15." Ora, l’infelicissimo Mora, ridotto a improvvisar nuove favole, per confermar quella che doveva condurlo a un atroce supplizio, disse, in quell’interrogatorio, che la bava de’ morti di peste l’aveva avuta dal commissario, che questo gli aveva proposto il delitto, e che il motivo del fare e dell’accettare una proposta simile era che, ammalandosi, con quel mezzo, molte persone, avrebbero guadagnato molto tutt’e due: uno, nel suo posto di commissario; l’altro, con lo spaccio del preservativo. Non domanderemo al lettore se, tra l’enormità e i pericoli d’un tal delitto, e l’importanza di tali guadagni (ai quali, del resto, gli aiuti della natura non mancavan di certo), ci fosse proporzione. Ma se credesse che que’ giudici, per esser del secento, ce la trovassero, e che una tal cagione paresse loro verisimile, li sentirà essi medesimi dir di no, in un altro esame.
Ma c’era di più: c’era contro la cagione addotta dal Mora una difficoltà più positiva, più materiale, se non più forte. Il lettore può rammentarsi che il commissario, accusando sè stesso, aveva addotta anche lui la cagione da cui era stato mosso al delitto; cioè che il barbiere gli aveva detto: ungete... et poi venete da me, che hauerete una mano, o come disse nel costituto seguente, una buona mano de danari. Ecco dunque due cagioni d’un solo delitto: due cagioni, non solo diverse, ma opposte e incompatibili. È l’uomo stesso che, secondo una confessione, offre largamente danari per avere un complice; secondo l’altra, acconsente al delitto per la speranza d’un miserabile guadagno. Dimentichiamo quel che s’è visto fin qui: come sian venute fuori quelle due cagioni, con che mezzi si siano avute quelle due confessioni; prendiam le cose al punto dove sono arrivate. Cosa facevano, trovandosi a un tal punto, de’ giudici ai quali la passione non avesse pervertita, offuscata, istupidita la coscienza? Si spaventavano d’essere andati (foss’anche senza colpa) tanto avanti; si consolavano di non essere almeno andati fino all’ultimo, all’irreparabile affatto; si fermavano all’inciampo fortunato che gli aveva trattenuti dal precipizio; s’attaccavano a quella difficoltà, volevano scioglier quel nodo; qui adopravan tutta l’arte, tutta l’insistenza, tutti i rigiri dell’interrogazioni; qui ricorrevano ai confronti; non facevano un passo prima d’aver trovato (ed era forse cosa difficile?) qual de’ due mentisse, o se forse mentissero tutt’e due. I nostri esaminatori, avuta quella risposta del Mora: perchè lui hauerebbe guadagnato assai, poichè si sarian ammalate delle persone assai, et io hauerei guadagnato assai con il mio elettuario, passarono ad altro.
Dopo ciò, basterà, se non è anche troppo, il toccar di fuga, e in parte, il rimanente di quel costituto.
Interrogato, se vi sono altri complici di questo negotio, risponde: vi saranno li suoi compagni del Piazza, i quali non so chi siano. Gli si protesta che non è verisimile che non lo sappi. Al suono di quella parola, terribile foriera della tortura, l’infelice afferma subito, nella forma più positiva: sono li Foresari et il Baruello: quelli che gli erano stati nominati e così indicati, nel costituto antecedente.
Dice che il veleno lo teneva nel fornello, cioè dove loro s’erano immaginati che potesse essere; dice come lo componeva, e conclude: buttavo via il resto nella Vedra. Non possiam tenerci qui di non trascrivere una postilla del Verri. "E non avrebbe gettato nella Vetra il resto, dopo la prigionia del Piazza!"
Risponde a caso ad altre domande che gli fanno su circostanze di luogo, di tempo e di cose simili, come se si trattasse d’un fatto chiaro e provato in sostanza, e non ci mancassero che delle particolarità; e finalmente, è messo di nuovo alla tortura, affinchè la sua deposizione potesse valer contro i nominati, e segnatamente contro il commissario. Al quale avevan data la tortura per convalidare una deposizione opposta a questa in punti essenziali! Qui non potremmo allegar testi di leggi, nè opinioni di dottori; perchè in verità la giurisprudenza non aveva preveduto un caso simile.
La confessione fatta nella tortura non valeva, se non era ratificata senza tortura, e in un altro luogo, di dove non si potesse vedere l’orribile strumento, e non nello stesso giorno. Eran ritrovati della scienza, per rendere, se fosse stato possibile, spontanea una confessione forzata, e soddisfare insieme al buon senso, il quale diceva troppo chiaro che la parola estorta dal dolore non può meritar fede, e alla legge romana che consacrava la tortura. Anzi la ragione di quelle precauzioni, la ricavavano gl’interpreti dalla legge medesima, cioè da quelle strane parole: "La tortura è cosa fragile e pericolosa e soggetta a ingannare; giacchè molti, per forza d’animo o di corpo, curan così poco i tormenti, che non si può, con un tal mezzo, aver da loro la verità; altri sono così intolleranti del dolore, che dicon qualunque falsità, piuttosto che sopportare i tormenti16". Dico: strane parole, in una legge che manteneva la tortura; e per intendere come non ne cavasse altra conseguenza, se non che "ai tormenti non si deve creder sempre," bisogna rammentarsi che quella legge era fatta in origine per gli schiavi, i quali, nell’abiezione e nella perversità del gentilesimo, poterono esser considerati come cose e non persone, e sui quali si credeva quindi lecito qualunque esperimento, a segno che si tormentavano per iscoprire i delitti degli altri. De’ nuovi interessi di nuovi legislatori la fecero poi applicare anche alle persone libere; e la forza dell’autorità la fece durar tanti secoli più del gentilesimo: esempio non raro, ma notabile, di quanto una legge, avviata che sia, possa estendersi al di là del suo principio, e sopravvivergli.
Per adempir dunque una tale formalità, chiamarono il Mora a un nuovo esame, il giorno seguente. Ma siccome in tutto dovevan metter qualcosa d’insidioso, d’avvantaggioso, di suggestivo, così, in vece di domandargli se intendeva di ratificar la sua confessione, gli domandarono se ha cosa alcuna d’aggiongere all’esame et confessione sua, che fece hieri, doppo che fu ommesso di tormentare. Escludevano il dubbio: la giurisprudenza voleva che la confessione della tortura fosse rimessa in questione; essi la davan per ferma, e chiedevan soltanto che fosse accresciuta.
Ma in quell’ore (direm noi di riposo?) il sentimento dell’innocenza, l’orror del supplizio, il pensiero della moglie, de’ figli, avevan forse data al povero Mora la speranza d’esser più forte contro nuovi
tormenti; e rispose: Signor no, che non ho cosa d’aggiongerui, et ho più presto cosa da sminuire. Dovettero pure domandargli, che cosa ha da sminuire. Rispose più apertamente, e come prendendo coraggio: quell’unguento che ho detto, non ne ho fatto minga (mica), et quello che ho detto, l’ho detto per i tormenti. Gli minacciaron subito la rinnovazion della tortura; e ciò (lasciando da parte tutte l’altre violente irregolarità) senza aver messe in chiaro le contradizioni tra lui e il commissario, cioè senza poter dire essi medesimi se quella nuova tortura gliel’avrebbero data sulla sua confessione, o sulla deposizion dell’altro; se come a complice, o come a reo principale; se per un delitto commesso ad istigazione altrui, o del quale era stato l’istigatore; se per un delitto che lui aveva voluto pagar generosamente, o dal quale aveva sperato un miserabile guadagno.
A quella minaccia, rispose ancora: replico che quello che dissi hieri non è vero niente, et lo dissi per li tormenti. Poi riprese: V.S. mi lasci un puoco dire un’Aue Maria, et poi farò quello che il Signore me inspirarà; e si mise in ginocchio davanti a un’immagine del Crocifisso, cioè di Quello che doveva un giorno giudicare i suoi giudici.
Alzatosi dopo qualche momento, e stimolato a confermar la sua confessione, disse: in conscienza mia, non è vero niente. Condotto subito nella stanza della tortura, e legato, con quella crudele aggiunta del canapo, l’infelicissimo disse: V.S. non mi stij a dar più tormenti, che la verità che ho deposto, la voglio mantenere. Slegato e ricondotto nella stanza dell’esame, disse di nuovo: non è vero niente. Di nuovo alla tortura, dove di nuovo disse quello che volevano; e avendogli il dolore consumato fino all’ultimo quel poco resto di coraggio, mantenne il suo detto, si dichiarò pronto a ratificar la sua confessione;
non voleva nemmeno che gliela leggessero. A questo non acconsentirono: scrupolosi nell’osservare una formalità ormai inconcludente, mentre violavan le prescrizioni più importanti e più positive. Lettogli l’esame, disse: è la verità tutto.
Dopo di ciò, perseveranti nel metodo di non proseguir le ricerche, di non affrontar le difficoltà, se non dopo i tormenti (ciò che la legge medesima aveva creduto di dover vietare espressamente, ciò che Diocleziano e Massimiano avevan voluto impedire!17) pensaron finalmente a domandargli se non aveva avuto altro fine che di guadagnar con la vendita del suo elettuario. Rispose: che sappia mi, quanto a me, non ho altro fine.
Che sappia mi! Chi, se non lui, poteva sapere cosa fosse passato nel suo interno? Eppure quelle così strane parole erano adattate alla circostanza: lo sventurato non avrebbe potuto trovarne altre che significassero meglio a che segno aveva, in quel momento, abdicato, per dir così, sè medesimo, e acconsentiva a affermare, a negare, a sapere quello soltanto, e tutto quello che fosse piaciuto a coloro che disponevan della tortura.
Vanno avanti, e gli dicono: che ha molto dell’inuerisimile che, solamente per hauer occasione il Commissario di lavorare assai, et lui Constituto di vendere il suo elettuario habbino procurato, con l’imbrattamento delle porte, la destruttione et morte della gente; perciò dica a che fine, et per che rispetto si sono mossi loro duoi a così fare, per un interesse così legiero.
Ora vien fuori quest’inverisimiglianza? Gli avevan dunque minacciata e data a più riprese la tortura per fargli ratificare una confessione inverisimile! L’osservazione era giusta, ma veniva tardi, diremo anche qui; giacchè il rinnovarsi delle circostanze medesime, ci sforza quasi a usar le medesime parole. Come non s’erano accorti che ci fosse inverisimiglianza nella deposizione del Piazza, se non quando ebbero, su quella deposizione, carcerato il Mora; così ora non s’accorgono che ci sia inverisimiglianza nella confession di questo, se non dopo avergli estorta una ratificazione che, in mano loro, diventa un mezzo sufficiente per condannarlo. Vogliam supporre che realmente non se n’accorgessero che in questo momento? Come spiegheremo allora, come qualificheremo il ritener valida una tal confessione, dopo una tale osservazione? Forse il Mora diede una risposta più soddisfacente che non fosse stata quella del Piazza? La risposta del Mora fu questa: se il Commissario non lo sa lui, io non lo so; et bisogna che lui lo sappia, et da lui V.S. lo saprà, per essere stato lui l’inuentore. E si vede che questo rovesciarsi l’uno sull’altro la colpa principale, non era tanto per diminuire ognuno la sua, quanto per sottrarsi all’impegno di spiegar cose che non erano spiegabili.
E dopo una risposta simile, gl’intimarono che per hauer lui Constituto fatto la suddetta compositione et unguento, di concerto del detto Commissario, et a lui doppo dato per ontare le muraglie delle case, nel modo et forma da lui Constituto et dal detto Commissario, deposto, a fine di far morire la gente, sicome il detto Commissario ha confessato d’hauere per tal fine eseguito, esso Constituto si fa reo d’hauer procurato in tal modo la morte della gente, et che per hauer così fatto, sij incorso nelle pene imposte dalle leggi a chi procura et tenta di così fare.
Ricapitoliamo. I giudici dicono al Mora: come è possibile che vi siate determinati a commettere un tal delitto, per un tal interesse? Il Mora risponde: il commissario lo deve sapere, per sè, e per me: domandatene a lui. Li rimette a un altro, per la spiegazione d’un fatto dell’animo suo, perchè possan chiarirsi come un motivo sia stato sufficiente a produrre in lui una deliberazione. E a qual altro? A uno che non ammetteva un tal motivo, poichè attribuiva il delitto a tutt’altra cagione. E i giudici trovano che la difficoltà è sciolta, che il delitto confessato dal Mora è diventato verisimile; tanto che ne lo costituiscono reo.
Non poteva esser l’ignoranza quella che faceva loro vedere inverisimiglianza in un tal motivo; non era la giurisprudenza quella che li portava a fare un tal conto delle condizioni trovate e imposte dalla giurisprudenza.
Note
- ↑ Quæst. XLIII, 192. V. Summarium.
- ↑ Tractat. var., tit. De oppositionibus contra testes; 21.
- ↑ Et si consanguinei erant, pag. 87.
- ↑ Oss. § IV.
- ↑ Dig. Lib. XXII, tit. V, De testibus; I, 21, 2.
- ↑ V. Farinacci, Quæst. XLIII, 134, 135.
- ↑ Op. cit. Quæst. XXI, 13.
- ↑ Op. cit. tit. De indiciis et considerationibus ante torturam; 152.
- ↑ Arrotini di forbici per tagliar l’oro filato. L’esserci una professione a parte per quell’industria secondaria, fa vedere come fiorisse ancora la principale.
- ↑ Antica interiezion milanese, corrispondente al toscano madiè, "particella usata dagli antichi, alla provenzale", dice la Crusca. Significava in origine mio Dio; ed era una delle tante formole di giuramento, entrate per abuso nel discorso ordinario. Ma in questo caso quel Nome non sarebbe stato nominato in vano.
- ↑ Quæst. XLIII, 172-174.
- ↑ Farinacci, Quaest. XLIII; 185, 186.
- ↑ Plutarco, Vita d’Alessandro; traduzione del Pompei.
- ↑ Q. Curtii, VI, 11.
- ↑ Farinacci, Quaest. L. 31; LXXXI; 40; LII, 150, 152.
- ↑ Res est (quaestio) fragilis et periculosa, et quae veritatem fallat. Nam plerique, patientia sive duritia tormentorum, ita tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit, alii tanta sunt impatientia, ut quovis mentiri quam pati tormenta velint. Dig., Lib. XLVIII, tit. XVIII, 1, I, 23.
- ↑ Nel rescritto citato sopra, alla pagina 766.