Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XVI

Capitolo XVI. Iapigi, Dauni, Peucezi e Messapi

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Capitolo XVI. Iapigi, Dauni, Peucezi e Messapi
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CAPO XVI.


Iapigi, Dauni, Peucezi e Messapi.


Poeti, istorici e geografi, chiamano a un modo Iapigia ora la sola penisola che volge al mare Adriatico, siccome fece Strabone1 ed ora, come Polibio2, tutto il mezzogiorno orientale dell’Italia incominciando dal fiume Frentone sino al Capo di Leuca, che modernamente comprende il promontorio del Gargano, la Puglia, e le due terre di Bari e d’Otranto. La fisica costituzione di quest’ampio paese ne porge dinanzi tre immutabili termini, degni di particolare considerazione, e che dan lume a riconoscere qual fosse lo stato naturale e primitivo della regione: 1°. il grande promontorio del Gargano stesso, le cui alte montagne diramatesi dall’Appennino, e coperte d’antiche foreste battute da venti impetuosi, profondano le lor radici in mare: 2°. la Puglia piana, tra i monti del Sannio e il mare, la quale fu altra volta una grandissima laguna3. 3°. le Murge, o sia i colli petrosi che movendo dalle alpi lucane, dov’è monte Voltore, discendono a destra dell’Ofanto gradatamente sino alla pianura a mare: e di quivi, proseguendo a mezzogiorno, s’internano nella lunga e stretta punta [p. 306 modifica]di terra, che mediante una catena non interrotta di facili e colti monticelli, senza divisione di valli, termina il continente dell’Italia. Per entro tutto questo spazio riconoscevano i Greci in suo linguaggio tre nazioni distinte, Dauni, Peucezi e Messapi: li quali popoli, si ritrovano di poi cognominati dai latini più genericamente sotto il titolo di Appuli e di Calabri. Benchè non possa giustamente determinarsi il confine della penisola Messapia, il più naturale par che fosse quella fila di monticelli, che traversando l’istmo si prolungano dirittamente dal colle tuttora detto Aulone appresso Taranto, fino a Monopoli sul mare Adriatico. I più antichi abitatori cogniti di questa provincia sono chiamati Iapigi-Messapi.  Secondo il racconto d’Erodoto, una mano di Cretesi usciti della patria per vendicare contro Cocalo la morte di Minosse loro re, essendo al ritorno in mare, per tempesta, che venne loro addosso, furono spinti a questa costa nell’Iapigia: dove incendiate le navi, e postevi le abitazioni, edificarono Iria, madre di tutte l’altre città loro; e di più vi cambiarono il nome, pigliando quello d’Iapigi-Messapi4. Altri narravano il fatto molto diversamente: chi voleva i Cretesi qua trasferiti per occasione dell’infausta impresa di Minosse in Sicania5: chi venuti quando essi n’andavano in traccia dello smarrito Glauco6: chi finalmente, trasportando [p. 307 modifica]il successo all’epoca troiana, quali seguaci d’Idomeneo scacciato di Creta, cui s’erano uniti Illirici e Locresi7. Se però questi racconti secondarj di mitologi son da lasciarsi giustamente alla favola, si vuol tuttavolta tener conto della credenza antica per la quale si presupponevano approdati in Iapigia alcun numero di Cretesi; ma troppo lungi andrebbe dal vero chi credesse che questi pochi, esuli o raminghi, fossero gli autori di tutto il popolo dei Messapi e Sallentini. Anzi, adduce non poco dubbio, che venuti per mare eglino fondassero qual metropoli primieramente Iria tanto indentro terra, dov’è la moderna Oria, piuttosto che in acconcio luogo sulla marina: quantunque sia vero, che anche per queste piagge si ritrovassero in allora, come al presente8, stagni, maresi, e terreni paludosi; impedimenti che potevano ostare in prima al collocamento. Con tutto questo non si può non riconoscere nella mentovata tradizione un elemento istorico, ancorchè l’epoca di Minosse sia inviluppata in ogni maniera di favole: ma fin da quel tempo i Cretesi erano usati alle navigazioni; frequentavano ne’ mari della Fenicia e dell’Egitto; e non dubbiamente essi diedero l’essere di fuori anche a colonie del loro sangue; benchè queste non abbiano mai formato insieme uno stato distinto, come le colonie greche dei tempi storici. Diciam dunque, che primi possessori di [p. 308 modifica]questi luoghi si rappresentano gl’Iapigi nelle nostre istorie, genti barbare, le quali occupavano anche i terreni sul golfo di Taranto sin oltre il fiume Bradano e Metaponto9: e se fosse certo quel che narrava Eforo10, aver gl’Iapigi tenuto innanzi agli Achei il luogo dov’era Crotone, si potrebbe credere, che più anticamente possedessero anche una parte dell’Enotria. In ogni modo però si può giustamente dar fede al racconto, che allora quando Falanto pose la sua colonia di Laconi ne’ pingui campi dell’Iapigia, n’espulse di colà i vecchi abitatori, dandovi così principio a Taranto11, circa quarantacinque anni prima della fondazione di Roma12. Bene Strabone13 distingue in queste parti gl’incoli barbari, o sia gl’Iapigi propriamente detti, dai Cretesi: e se pure costoro, gente avventizia, abitarono Iapigia, o il numero scemò grandemente per la narrata, benchè poco credibile migrazione in Macedonia de’ Bottiei14, o piccoli avanzi rimanean di loro a’ tempi storici nella Messapia.

Che Iapigia, Daunia, Peucezia e Messapia, traessero il loro nome da altrettanti Licaonidi, ed i suoi popo[p. 309 modifica]latori dalle colonie arcadiche condottevi da quelli diciassette generazioni avanti la guerra troiana, siccome narravano i mitografi15, non giova più dimostrarne le false voci in tanta luce di scienza critica. E se gli scrittori latini ripetono sino a sazietà queste fole, non perciò son elleno meno favolose ed antistoriche. Pure non senza fondamento di vero parlavasi della venuta di genti stranie in questa parte dell’Italia fino da’ più remoti tempi: e tanto la divolgata leggenda, che Nicandro da Pergamo16 debbe aver tolta da scrittore antico, la qual portava esser Peucezio con Dauno e Iapige passati a’ nostri lidi con moltitudine d’Illirici, quanto il supposto transito d’altri Illirj con Idomeneo ne’ Sallentini, mostrano senza fallo che sotto forma mitologica s’era diffusa e conservata la memoria d’un lontano passaggio di genti illiriche in queste spiagge. Eran dessi, come già dicemmo, principalmente Liburni, che scorrevano per le marine, e messe in volta le popolazioni indigene si stanziavano per la forza in qualunque luogo trovassero comodo riparo17. Che talune generazioni d’Illirici, o d’altri venturieri di vario nome quivi capitati di più lontano, dimorassero oltre il Piceno anche per la riviera della Puglia sino al Capo de’ Sallentini, si è per noi mostrato con bastanti prove: e tuttavia possiamo confermarlo col [p. 310 modifica]nome di monte Liburno, che ritiene tutt’ora una cima al settentrione del Gargano: e per entro al Gargano stesso, benchè prossimi al mare, monte Origone e valle degli Origoni: nelle quali nominazioni pare a noi rinvenire una voce corrispondente ad Orico, città marittima all’altro lato del golfo, e che dai geografi antichi, atteso la sua incerta situazione presso agli Acrocerauni, veniva posta ora nell’Illirico, ora al principio dell’Epiro18; dove quivi medesimo giungevano anticamente gl’Illirj19. Questi però han dovuto essere scacciati dalle marine dell’Adriatico e suoi dintorni non solo dai Piceni, come si disse, ma dai Sanniti-Frentani ancora, tosto che eglino si collocarono tra il fiume Aterno e il Frentone: così pure è credibile assai che altri popoli Osci, Appuli e Calabri20, abbiano a luogo e tempo dato mano con ogni sforzo a sgombrare il paese dagli stranieri.

La Daunia è la più grande e notabil parte della Iapigia. Confinava a settentrione co’ Frentani col mezzo del Frentone, e comprendendo il promontorio del Gargano, si estendeva fino al fiume Ofanto, che scende di su dall’Appennino, e divide col suo rapido e vorticoso [p. 311 modifica]suo corso la regione dei Dauni dalla Peucezia. Non vi ha favola che non si spacciasse intorno al Regno di Dauno e di Diomede per questa contrada; nè v’era città di qualche conto, la quale non si dicesse fondata dal valoroso figlio di Tideo, e non mostrasse sue reliquie per accertarlo. L’additavano sulla riva dell’Ofanto i campi di Diomede, a lui tocchi per dote o per retaggio21: serbavansi in Lucera nel tempio di Minerva i donativi22 e l’armatura dell’eroe23: nè mancavano mille altri segnali del di lui antico impero nella Puglia. Di tal forma tutta la leggenda di Diomede trovava quivi la sua rappresentazione; ancorchè un angolo della Venezia glie ne disputasse in gran parte l’onore24. E sì di vero queste novelle pubblicate per vanto dai greci, che ne avevano piena la lingua ed il petto, s’erano fatte di tante domestiche e locali, che si tenevano dal popolo come una delle glorie più belle della regione. Non ostante ciò, si può avere per fermo, che Diomede non ponesse mai piede in queste parti, ma non potremmo già negare che qualche colonia di Dorici si stanziasse anticamente in Puglia, così come portava la fortuna dei tempi. Nè di certo quei primi Dorici, Achei e Ionj, che venivano per ricovero alla ventura in terra straniera, non miravano a fondarvi regni, ma sì bene [p. 312 modifica]a trovarvi rifugio, posa ed alimento. Quindi è che doveano accomodarsi a’ luoghi, comunque si fossero, dov’ei mettevano a terra: per ciò qui nella Puglia, contrada di maremma, Siponto, le cui rovine son presso a Manfredonia, che di quella nacque, e Salapia, furono dai Greci occupatori del lido edificate in luoghi paludosi e pestilenti: a tal che i suoi abitanti stessi ebbero dipoi necessità lasciar vuota la vecchia Salapia, che dicevasi opra di Diomede, rifacendola dentro terra quattro miglia più distante, e in luogo salubre25. Così oggigiorno si ritrovano nelle stesse situazioni molti terreni infermi, stagni e marosi: massimamente la palude sotto Manfredonia generatavi dall’acque stagnanti del Candelaro, e il lago stesso sul mare, dove sono le saline, detto ancora di Salpi. Arpi, città notabile discosta dalla marina, ha dovuto essere ugualmente fondata dai Dorj. I quali, aspri di natura, possono aver recato in questi luoghi per religione sua propria il rito strano di certe vergini, che passando la vita in celibato vestivano nere vesti, e si tingevano il volto, quasi a modo di furie, con succhi d’erbe di color rosseggiante26. Ma Tianud o Teano, cognominato appulo per distinzione dal Sidicino27; Lucera28 su d’un colle isolato accosto a’ monti del [p. 313 modifica]Sannio; Ascoli o Asclu, avente lo stesso titolo che quel del Piceno29; Canosa alla destra del fiume Ofanto; Venosa, che per la sua situazione in sul confine non poteva ben dirsi se fosse appula o lucana30; e finalmente Gerunio, Erdonea, e alcune altre città non ignobili di pari nominazione osca, e tutte a un modo collocate nelle parti interne, si possono drittamente riconoscere per terre nostrali, venute per la bontà de’ luoghi in istato di città fiorenti.

La Peucezia, regione più ristretta, è di sua natura in parte piana sulla marina dell’Adriatico, e in maggior parte montuosa allato agl’Irpini e Lucani. I Pediculi erano un popolo dei Peucezi31, se pure sotto cotesto nome, di forma italica, non s’asconde la primitiva appellazione degl’incoli. L’alta Acerenza32, Ferento33 o Banzia, comunità di popoli parlanti lingua osca, sedevano al pari nelle montagne: laddove Bari d’origine greca, e primaria città, guardava sopra il mare, come Egnazia, celebrata pel suo gran miracolo di piromanzia, di cui tanto si rideva Orazio34. L’ornamento maggiore dell’estrema penisola detta Messapia, ed anche Sallentina35, regione mirabilmente [p. 314 modifica]bella, era senza dubbio Brindisi, in ogni tempo rinomata per la comodità e sicurezza del suo doppio porto, il quale con voce rappresentativa avea tolto il nome da un vocabolo propio della lingua de’ Messapi36. Il cognome dei Sallentini, popolo distinto, che si ritrova ne’ Fasti trionfali, ha dovuto essere nazionale, come quello di Calabri, più propriamente applicato a coloro che abitavano in sulla spiaggia del mare Adriatico. Nelle scritture dei Greci i Sallentini sono chiamati Cretesi, atteso le tradizioni elleniche di sopra accennate; e ciascun sa con quanta facilità e bonarietà credean gli antichi siffatte cose narrate. Ma, comunque ciò si fosse, sicuro è bene, che la terra dei Sallentini cinta dal mare, e di suolo feracissima, trovavasi per l’energia de’ suoi abitanti, così indigeni, come stranieri, grandemente in fiore. Secondo Strabone37 contavano essi tredici città: ovvero, conforme a un luogo di Varrone38, erano i Sallentini divisi in tre genti o tribù, e dodici terre: il che presuppone un’antica mescolanza e unione di razze sotto forma di popolo giuridicamente collegato. Nè già era monarchico lo stato loro, benchè per uso di lingua si trovi alle volle fatta menzione nelle storie di re [p. 315 modifica]dei Messapi39, Peucezi e Dauni40, i quali, come rettori di popol franco, non potevano essere che i suoi primarj magistrati: e tal era quell’Arta, splendido e liberal principe dei Messapi41, che diede soccorso agli Ateniesi nella loro malagurata spedizione per la Sicilia. Non diversamente dai Sallentini si può presumere che fossero politicamente ordinati gli altri popoli dell’Iapigia42, come altrettanti stati uniti per legamento di concordia; ma però talmente liberi, che ciascuno di loro poteva usare a suo grado il dritto di pace e di guerra. Per la qual cosa adoperandosi gli scaltri Tarantini a disunire i barbari, che sì tanto temevano, riuscirono anche a far collegare insieme Dauni e Peucezi contro a’ Messapi.

Non abbiamo è vero tradizione, nè traccia alcuna del passaggio di colonie sabelle in questa parte orientale del meriggio italico, come nell’altro lato. Ma non può in modo alcuno dubitarsi che anche quivi la gente osca non formasse il pieno della popolazione. La nota indelebile di barbari che Dauni, Peucezi e Messapi, riceverono in ogni tempo dai Greci senza nulla discordanza43, ne dimostra bastantemente ch’e[p. 316 modifica]gli erano tenuti da quelli d’altra nazione e lingua. Nè lieve argomento ne porge altresì la durevole inimicizia di coteste genti contro la stirpe degli Elleni, e principalmente a’ danni dei Tarantini, che ne patirono quella fiera rotta che fiaccò di tanto l’alterigia greca44. E furono di più sì tenaci nell’ira i Messapi, che nè pure la virtù del grande Archita, che di loro avea trionfato sette volte45, bastò a domare i valorosi. Nessuna più conveniente prova può addursi in oltre della parentela delle genti che abitavano insieme l’Iapigia, quanto la lingua loro uniforme, notata sul luogo dal giudizioso Strabone46: la qual lingua popolare non poteva essere altro che l’osca, generalmente parlata dai paesani di tutta l’Italia meridionale: e se per un’antica notizia abbiamo che in Iapigia erano cinque lingue, fra le quali nominatamente l’opica47, si dee credere che elle fossero altrettanti dialetti dell’idioma nazionale usato dalle genti quivi presso stanziate insino all’Umbria. Sicuramente in Apulia parlavasi osco; ed Orazio, appulo egli stesso, chiamava i Canusini bilingui48 perchè [p. 317 modifica]adoperavano, oltre all’idioma natale, favella greca: di che essi avevano meglio d’ogni altri grande opportunità, usando più frequentemente con i Greci dimoranti alla prossima marina. Troppi erano i bisogni che a malgrado degli odi tiravano scambievolmente i nostri popoli italici ed i greci a dimesticarsi infra loro con la frequentazione; e così a favellare alternatamente ora un idioma, ora l’altro: ed in fatti venian gli Osci in particolar modo contrassegnati per questa mescolanza di lingue49. In Banzia, appula o lucana si fosse, parlavasi del pari dai terrazzani lingua osca50: nè diverso era l’idioma locale di Rudia nei Sallentini, patria d’Ennio51. In questa forma di per tutto, dal confine dei Frentani sino all’estremità dell’Italia, ritroviamo diramato l’osco qual favella universale, e affatto propria dei paesani: i quali ancorchè di poi ritenessero più comunemente alla latina il nome di Appuli e di Calabri, serbarono pur sempre l’immutabile impronta del genio e del costume nativo.

Di tal modo gli Appuli possessori d’un aperto e fruttoso piano52, stimavano la pastorizia, quanto gli odierni Pugliesi, sovr’ogni altra industria: e per l’ot[p. 318 modifica]tima qualità e copia delle loro fulgide e molli lane; per le buone razze de’ cavalli: e per grande abbondanza di biade53; sapevano i solleciti Appuli54 trar comodi e ricchezze tali, che ne renderono il paese assai più popoloso e fortunato. Nulla meno diligenti pastori erano i Calabri55: come i loro antichi schietti di costume, semplici ed ospitali56; ma per natura sempre agresti e guerrieri57, e non curanti i pericoli dell’armi, nè le dure fatiche, nè i disagi, sempre che difendessero in comune l’adorata loro libertà. Assai tardi i Romani, che non conobbero la più interna Italia se non per vie sanguinose, ebbero notizia di questi luoghi di mezzogiorno a cagion della guerra sannitica: ne le loro aquile si mostrarono nei Sallentini prima dell’anno 447: il che bastò tuttavolta a cangiare in miserie lo stato per l’innanzi felice della regione. Dove con la servitù novella s’introdussero le sue inseparabili compagne degradazione, inopia e povertà. Tanto che, sì per la caduta, sì pel disfacimento successivo di moltissime terre, e vere città, altre volte potenti d’uomini, non vide quivi Strabone che una contrada esausta, quasi come deserta58.

Note

  1. vi. p. 191.
  2. iii. 88.
  3. Vedi p. 166.
  4. Herodot. vii. 170.
  5. Strabo vi. p. 192.
  6. Athen. xi. 5.
  7. Varro fragm. ant. rer. human. ap. Prob. ad Virgil. ecl. vi. 31.; Fest. v. Sallentini.; Virgil. iii. 400.; Serv. ad h. I.
  8. La Limina presso d’Otranto, S. Nicola, Landenosa ec.
  9. Scylax p. 10.; Strabo vi. p. 191.
  10. Ap. Strabo vi. p. 181.
  11. Ephor. ap. Strab. vi. p. 192.; Aristot. de Rep. v. 7, Diodor. in excerpt. Vat. t. ii. 12. p. ii.; Justin. iii. 4. expugnatis veteribus incolis, sedes ibi constituunt.
  12. Ol. xviii. 2. a. c. 708. Euseb. Chronic. p. 119.
  13. vi. p. 192.
  14. Strabo vi. p. 192. 195.; Plutarch. Thes. et Quaest. Graec. 35.; Conon. Nar. 20.
  15. Nicander ap. Anton. Liber. 31.; Dionys. i. 11; Strabo ix. p. 279.
  16. Ap. Anton. Lib. l. c.
  17. Vedi p. 173.
  18. Plin. iii. 23.; Mela ii. 3.; Scymn. Ch. in Perieg.; Steph. v. Ωρίκος: città greca la dice Scimno, e fondata dai Colchi Plinio.
  19. Vedi p. 179.
  20. Con molta verisimiglianza congettura Niebuhr che la forma osca del nome d’Iapigi fosse Apix, da cui venne Apicus, Apulus. Aggiunte al t. i. p. 34.
  21. Ant. Liberal. 37.; Fest. v. Diomedis campi.
  22. Strabo vi. p. 196.
  23. Auct. de mirabil. p. 1161.
  24. Strabo v. p. 149. vi. p. 196.
  25. Vitruv. I. 4; Cicer. Agrar. ii. 27.
  26. Lycophr. v. 1151-58.; Timaeus ap. Tzetz. ad h. l.
  27. Vedi p. 289, n. 72.
  28. Con forma osca probabilmente chiamata lufkrinum; come Nucera nufkrinum: (vedi p. 283, n. 48.): le sue medaglie con leggenda latina hanno lovceria.
  29. Vedi p. 205.
  30. Horat. ii. sat. i. 34.
  31. Strabo vi. p. 195.; Plin. iii. 11.
  32. Bene chiamata da Orazio: celsae nidum Acherontiae.
  33. Ferentium abbiamo pure negli Ernici. Vedi p. 228.
  34. i. sat. 5. 97-101. cf. Plin. ii. 107.
  35. Strabo vi. p. 194.
  36. Τῇ Μεσσαπίᾳ γλώττῃ Βρέντιον ἡ κεφαλὴ τοῦ ἐλάφου καλεῖται Strabo vi. p. 195.; Seleucus, Glossarium ap. Steph. v. Βρεντήσιον. Nome che le venne dalla figura del porto, il quale, come si vede in tutti i portolani, rassomiglia molto a una testa di cervio.
  37. vi. p. 194.
  38. Vedi p. 140, n. 125.
  39. Thucyd., vii. 33.; Pausan. x. 13.
  40. Strabo vi. p. 194
  41. Polemon. et Dem. Phaler. ap. Athen. iii. 25. p. 108.
  42. Per una notizia di Plinio (iii. 11), benchè congiunta a circostanze favolose, i Pedicoli o Peucezi contavano parimente nella loro terra tredici comuni.
  43. Polyb. x. 1.; Dionys. vii. 3. 4.; Pausan. x. 10. 10.; Diodor. passim.; Tzetz. ad Lycophr. 603.; Similmente Tucidide nella rassegna dell’esercito ateniese contro Siracusa, pone gl’Iapigi nel numero dei barbari ausiliari, vii. 57.
  44. Ol. lxxvi. 4. an. di R. 281. Herodot. vii. 170.; Diodor. xi. 52.
  45. Diogen. Laert. viii. 82.; Aelian. Var. hist. vii. 14.
  46. vi. p. 197.
  47. Scylax. p. ii. cum not. Gronov.
  48. Horat. i. sat. 10. et 30. et Vet. Interp. ad h. l.
  49. γλώσσας συνέμιξαν. Eudoxus vi. terrae periodi ap. Steph. v. Ὀπικοί.
  50. Vedi sopra p. 304.
  51. Gell. xvii. 17.
  52. Italia plana ac mollia. Sallust. fragm. hist. ap. Serv. iii. 522.
  53. Strabo vi. p, 194. 196.; Plin. viii. 48.
  54. Impiger Appulus. Horat. iii. od. 16. 26.
  55. Aestuosa grata Calabriae armenta. Horat. i. od. 31. 5.; Columel. vii. 2.
  56. Horat. i. ep. 7.
  57. Agrestium populorum. Horat. iii. od. 30. 11. Militaris Daunia. Idem. i. od. 22. 13.
  58. Strabo vi. p. 194. 197.