Sorella di Messalina/Parte terza/XVIII
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XVIII.
— Io conobbi Rosàlia (da voi si fa chiamare Raimonda?...) quattro anni fa.
Io allora ci vedevo.
La trovai al letto d’agonia di un giovane ch’era stato mio compagno di scuola: Angelo Silvani. Forse ne avete sentito parlare: era quel violinista che si avvelenò, così drammaticamente, durante un suo concerto... tra un pezzo e l’altro... Ricordate? Tutti i giornali ne parlarono.
Non so perchè egli volle quella fine orribile e sensazionale. Non so perchè Rosàlia si trovasse presente alla sua agonia. Essa non me l’ha mai detto. So che, vedendola per la prima volta a quel capezzale di moribondo, ella non mi piacque; la trovai quasi brutta, insignificante, trascurabile.
La sera che Angelo spirò eravamo in molti vicino a lui. Ella d’un tratto diede un urlo e mi cadde svenuta ai piedi. Mio padre ed io la portammo a casa sua; e all’indomani andammo a chiedere sue nuove. Io vi tornai l’indomani ancora, e i giorni susseguenti.
Probabilmente ero anch’io, agli occhi suoi, un essere nullo, insignificante, trascurabile. Certo non avevo alcuna qualità speciale e impressionante; non ero nè molto brillante, nè molto bello, nè molto ricco. Ero come tanti; ero come tutti. Ero giovane, null’altro. Studiavo legge senza eccellere; facevo della musica mediocre; scrivevo dei brutti versi. Ero insomma un giovinotto qualunque.
Come avvenne che quella donna si accorgesse di me, si incapricciasse di me? Non lo so. So che d’improvviso mi trovai afferrato da lei, ammaliato da lei, dominato da lei. Ella mi vinse, mi cinse, mi avvinse a lei con subdole arti, con sortilegi malefici. Versò alle mie labbra il filtro delle più raffinate lusinghe, delle più ricercate perversità...
Ed io, pur ribellandomi, pur riluttante, pur non amandola — anzi, detestandola quasi! — divenni suo schiavo, cosa sua.
Ed io, pur ribellandomi, pur riluttante, mai, nè un giorno, nè un’ora, nè un attimo di felicità.
Era una tortura la sua passione. La sua ferocia, la sua gelosia, financo la sua lussuria, così macabra e morbosa, mi martoriavano la carne e lo spirito. Essa era un’amante spaventosa, mostruosa.
Aveva sopratutto la fissazione, l’ossessione continua della sua età, del suo declinare fisico a raffronto della mia giovinezza.
La mia giovinezza! era per lei un delitto. Pur essendo la fonte unica della sua passione per me, ella la odiava e la temeva.
— Come sei giovane! come sei giovane! — sospirava in un singulto, carezzandomi la fronte. — Che meraviglia!... — E poi, abbassando la voce: — E che orrore! ah, che orrore!...
E si abbatteva su me con una frenesia in cui vi era quasi dell’odio.
Era costantemente preoccupata della sua apparenza, del suo aspetto di fronte a me.
— Non guardarmi, non guardarmi! — esclamava sovente, quando io rivolgevo gli occhi a lei. — Vorrei che tu non mi vedessi!
E soggiungeva piano: — Vorrei che tu... non ci vedessi!
Questa idea divenne una manìa, una fissazione. Non volle ricevermi che di sera. Ci incontravamo quasi sempre nelle tenebre. Se arrivavo di giorno ella teneva chiuse le imposte e abbassate le tende; poi, anche di sera velava di rosso cupo i lumi; o li spegneva.
Io ne soffrivo. Aborrivo tutto quel buio.
— Anch’io, anch’io — esclamava lei — lo aborro! Vorrei vederti, vorrei guardarti! Vorrei bere con gli occhi la tua bellezza... Ma tu, tu non devi vedere il mio triste volto sfiorito!
Talvolta mi implorava, umile e lusinghiera: — Tieni chiusi i tuoi occhi, ed io lascerò entrare la luce. Ma tu, tieni chiusi gli occhi...
Ed io, docile, chiudevo gli occhi.
Allora la udivo spalancare finestre e imposte; poi sentivo su di me fisso e intenso il suo sguardo: pareva che mi bruciasse, che mi lambisse come una fiamma.
— Ah! come sei bello! come sei bello! — E si avventava sulla mia bocca con una furia di passione, togliendomi il fiato, bevendomi l’alito con lunghi singhiozzanti respiri.
Allora se io schiudevo le palpebre, subito su di esse si abbatteva la sua mano, la sua mano fresca e leggera, ma inesorabile. E sentivo nella sua bocca il rauco singulto:
— No! no! Tu non devi guardarmi! Vorrei spegnere il tuo sguardo perchè non mi vedessi più.
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Talvolta ella m’inebriava non solo della sua perversa e raffinata lascivia, ma ancora di liquori strani, di bevande esotiche e sconosciute, di droghe stupefacenti od eccitanti. E a me pareva di vivere di una vita chimerica, inverosimile, rimossa dall’elementare esistenza quotidiana. Mi pareva di raggiungere altezze di lussuria e abissi di depravazione riservati a pochi esseri umani, privilegiati ed eccezionali.
Un giorno fui invitato da un amico, Ignazio Weill, ad una festa in casa sua. Weill era stato anch’egli, come Silvani, mio compagno di scuola e d’università; laureati, io in legge e lui in medicina, ci eravamo da qualche anno perduti di vista. Da studenti lo chiamavamo «Ignis» o «Ignatius... Fatuus», perchè ogni momento ci annunciava qualche sua idea straordinaria, qualche sua «trovata luminosa» che poi per lo più si spegneva nel nulla.
Ed ecco che dopo aver vagabondato un paio d’anni per l’Europa e l’America egli ricompariva tra noi e invitava gli amici di un tempo all’inaugurazione di un lussuoso alloggio e di uno studio magnifico in Piazza Cavour.
Egli annunciò che avremmo veduto anche una installazione misteriosa e speciale in cima alla sua casa, una specie di «Roof-garden» all’americana.
«Vedrai, caro Scotti», mi diceva nel suo biglietto d’invito, «vedrai gli splendori di questa mia nuovissima idea luminosa!».
E aggiungeva un poscritto:
«Porta teco amici... e amiche!».
Alla sera fissata Rosàlia dichiarò che sarebbe venuta con me. Questo mi stupì, poichè di solito non voleva uscire; nè le piaceva vedermi in compagnia d’altri. Ella, come la maggior parte delle donne innamorate, aveva creato intorno a me il completo isolamento.
Non vi era che Pierino Alessi, un innocuo giovane, mezzo esaltato, mezzo deficiente, che fosse ammesso talvolta ai nostri incontri. Anche a questa festa egli si accompagnò a noi.
Rosàlia in quella sera fu bella come io non l’avevo veduta mai. Non so a quali arti avesse ricorso, o se era soltanto la passione e l’allegrezza, — e un meraviglioso vestito tutto a squame d’argento — che la trasfiguravano così. Certo è che la nostra entrata nelle sale di Weill fu trionfale.
Già ferveva il frastuono e la giocondità; un’orchestrina pseudo-boema strepitava inascoltata tra le risa e i clamori.
Weill, lungo, magro, un po’ spiritato, ci diede con esuberanza il benvenuto.
Vi erano poche donne, e me ne rallegrai per Rosàlia che le detestava cordialmente.
Si cenò in un frastuono di conversazione allegra; e sul finire avevamo tutti bevuto troppo, fumato, parlato e riso troppo.
Weill, seduto a capo tavola, si lanciò in una lunga dissertazione scientifico-poetica a cui nessuno diede ascolto; già, eravamo esaltati ed eccitati dai vini, dalle sigarette drogate e dalla nostra esuberanza stessa.
Tentando di vincere il frastuono, egli ci spiegò che mancava all’umanità un rimedio universale, un vero antidoto contro tutti i mali. Ora, questo specifico miracoloso, lui, la Germania e l’America insieme, l’avevano trovato.
Naturalmente, l’idea era sua; i tedeschi l’avevano concretata e applicata, e gli americani l’avevano sfruttata.
Mercè questa scoperta non solo egli diventava milionario, ma l’Italia, ma l’umanità intera si prostrerebbe ai suoi piedi in una frenesia di ammirazione e di riconoscenza.
— E sapete di che cosa si tratta? Sapete che cos’ho, io, imprigionato quassù sotto al tetto? Il sole! In una lampada a mercurio in quarzo io ho fabbricato... il sole artificiale!
Noi urlammo ed applaudimmo. Ed egli continuò:
— Voi sapete della scoperta di Erlangen... avrete pur sentito parlare di Erlangen...
— Sì, sì! — gridammo noi, che non sapevamo se Erlangen fosse una persona o un paese.
— Ebbene, voi sapete che a Erlangen oggi si esperimenta coi raggi Roentgen portati alla potenza di trecento mila volts, e che si scioglie un tumore in tre giorni invece che in sei mesi. Ebbene, quei raggi, come d’altronde anche quelli del radium, non hanno che un’azione puramente locale. Ma i miei raggi, i miei portentosi raggi ultra-violetti, agiscono su tutto l’organismo! Io posso con essi guarire ogni morbo che affligge l’umanità.
— Ed ora — terminò con voce stentorea — à la tour de Nesle!... A miracol mostrare!... Venite, venite a vederla, questa mia ultima sublime idea luminosa!
Lo seguimmo sul pianerottolo e su per le scale, ridendo sgangheratamente, inciampando e barcollando. Rosàlia stretta al mio braccio rideva, rideva anche lei, bella e sguaiata, colla bocca aperta e gli occhi socchiusi.
— Silenzio! — comandò Weill, fermandosi davanti a una grande porta chiusa.
Indi, con ampio gesto, ne spalancò i due battenti.
Buio completo!
Noi scoppiammo in rinnovate risa. Bella! Bella l’idea luminosa di Weill!...
Ma ecco da un angolo, e poi da un altro, e poi da tutte le parti un subitaneo crepitìo e scintillìo! Ecco, nel nero dello stanzone, accendersi di qui, di là, da tutte le parti, dei lumi color di rosa, d’un rosa violaceo, tenero, meraviglioso. Per un attimo parve che le quattro pareti della stanza fiorissero di rose fiammeggianti, raggiassero di rubini incandescenti.
Stupiti, trattenevamo il respiro.
Poi le luci rosate si spensero d’improvviso, e la banale luce elettrica, bianca, cruda e sgargiante ricomparve.
Noi profani ascoltammo allora le spiegazioni dell’amico: le rose accese erano i raggi ultra-violetti dello spettro solare; questi raggi, dosati con precisione, avevano la facoltà di distruggere ogni bacillo, e quindi di guarire ogni male. Applicando a qualsiasi parte inferma del nostro corpo per pochi minuti i tubetti di vetro traverso i quali passava il raggio miracoloso, la guarigione, dopo poche applicazioni, era compiuta.
— Avete la tosse? — gridò Weill, — applicate al petto questa placca di vetro! — E staccò dalla parete un vetro foggiato come una cassetta quadrata e leggermente concava, vi fece brillare la luce rosata e se l’applicò allo sparato della camicia.
— Avete una gastralgia? — Staccò un’altra placca di vetro più grande e se la poggiò sull’epigastro. — Avete un raffreddore? — Due sottili tubetti di vetro s’illuminarono della tenue luce calda ed egli se li introdusse nelle nari. — Vi cadono i capelli? — Accese sopra alla sua testa una grande cappa tonda di luce rosata. — Mettetevi qui sotto per sette od otto minuti ogni giorno, e in un mese avrete una chioma da Assalonne. Avete tumori? escrescenze? cancri? Coi raggi ultra-violetti estremi tutto si guarisce.
Noi, ridendo, ma pure colpiti dalle sue asserzioni, giravamo, accendendo qua e là nei tubi di vetro la luce miracolosa.
— Attenti! — urlò Weill. — Non toccate! Non fissate a lungo gli occhi in quella luce! Vi accecherebbe.
Impressionati ci ritraemmo. Indi felicitando Weill, con applausi, scherzi e risa, ridiscendemmo le scale e tornammo giù alla musica, alle bevande, al fumo e al profumo della grande sala a pian terreno.
Vi ritrovammo Pierino Alessi che non si era staccato dal pianoforte e lo schernimmo, rimproverandogli la sua inerzia e incredulità. Ma egli, scettico e indolente, crollò le spalle; e continuò a modulare le sue barocche dissonanze finchè l’orchestra boema, avendo cenato, rientrò e affogò coll’assordante «jazz» le querule note del pianista.
Poi Lo Cursio suonò l’oboe, Clerici diede un’audizione di tamburo, Marchesini ululò dei canti negri e la piccola Ralli, la greca amica di Weill, eseguì la sua famosa «Danza di Tanagra», fra gli scroscianti applausi della baraonda.
Rosàlia rideva come gli altri e con gli altri; ma era impallidita e la sua bellezza di poc’anzi si era spenta.
Io conoscevo quell’improvviso spegnersi della bellezza sul suo volto di donna non più giovane! Appariva stanca e rilassata. Sulle guancie le si erano scavati due solchi, gli occhi s’erano infossati, e anche il collo pareva smagrito. Sembrava tutta improvvisamente avvizzita e sgualcita.
Con un sorriso forzato rivolse a Weill quel suo volto dolente.
— E il vostro rimedio miracoloso? Guarisce anche il male... del tempo?
— Del tempo? Ma il tempo non esiste! — rise Weill. — È una convenzione; è una relatività. Noi c’infischiamo del tempo e dello spazio! L’unica dimensione che ancora va abolita è... la distanza...
E cingendo la vita alla danzante Ralli la trasse violentemente a sè e la baciò sulla bocca.
Rosàlia si volse a me che le stavo accanto, e mi guardò. Era pallidissima. Il suo volto era contorto in uno spasimo; i suoi occhi fiammeggiavano in una specie di frenesia.
Io che la conoscevo, compresi quello sguardo: ella non avrebbe voluto ch’io vedessi quel bacio! L’idea che, in mia presenza, un’altra donna all’infuori di lei potesse accendere il desiderio di un uomo, chiunque egli fosse, la rendeva convulsa, folle, disperata.
...Ella mi fissava, ansante, con quella furia di passione che pur rendendola più conturbevole la imbruttiva.
Quasi mi leggesse in viso tale pensiero, ella allungò d’un tratto la mano, e col suo gesto così noto, mi coprì gli occhi:
— Non guardarmi! non guardarmi! — singhiozzò.
Io le afferrai il polso, e allontanando dalle mie palpebre quelle sue dita febbrili, gliele baciai e le morsi, ebbro ed aberrato.
— Ah! — fece ella in un singulto che si perdette nel clamore che ci attorniava, — vorrei, vorrei... non so che cosa vorrei!... Ma mi pare che darei la vita perchè tu non mi vedessi più, mai più! E perchè tu non vedessi... — i suoi sguardi si fermarono su Ralli, ridente e riversa tra le braccia di Weill — ah! soprattutto perchè tu non vedessi mai nessun’altra donna!
Io l’ascoltavo smarrito, titubante, con la testa in fiamme. Non so che cosa essa volesse dire, non so che cosa io volessi fare. Certo ero ubbriaco, ero completamente ubbriaco.
— Tu vorresti... vorresti?... — balbettai. E tacqui.
Come un’eco uscì dalla sua bocca anelante e aperta:
— E tu?... Vorresti?... vorresti?...
Un immenso brivido mi scosse. Le afferrai il gracile polso.
— Dillo! dillo il tuo pensiero! Spaventosa e iniqua creatura!... dillo... dillo ciò che vuoi... dillo ciò che tu pensi!
Ella taceva, fissandomi colle pupille dilatate. Un fiotto vermiglio le correva sotto la pelle. Era tornata bella; era tornata subitamente meravigliosa e magnifica.
— Io farò tutto ciò che vuoi. Capisci? Tutto ciò che vuoi!
Ella ebbe un singulto estatico.
— Ah, se fosse vero! Se tu mi amassi... fino a quel punto!
Come colpito dalla folgore compresi. Mi volsi e mi guardai intorno. Vidi Alessi; s’era rimesso al pianoforte e tempestava degli accordi stonati, il capo gettato all’indietro e gli occhi chiusi.
Io lo afferrai pel braccio. Non connettevo, non ragionavo... delle idee confuse e folli mi turbinavano nel cervello. Sentivo che, da solo, non avrei osato...
— Alessi! vieni, — gridai, e il singulto dell’ubbriachezza mi rompeva la voce. — Vieni a vedere le meraviglie di Weill!
Lo trascinai fuori e su per le scale. Barcollavamo e inciampavamo ad ogni passo, ebbri qual’eravamo tutti e due. Io gli stringevo il braccio come in una morsa, gridando delle parole insensate e sconnesse.
— Il rimedio... il rimedio a tutti i mali... vieni! vedrai!...
Giunti all’ultimo pianerottolo spinsi con violenza il battente della grande porta, e il laboratorio si aprì davanti a noi, nero come una caverna.
Brancicando, con mosse confuse, cercai gli interruttori della luce mentre coll’altra mano attanagliavo il braccio magro di Alessi.
Questi si divincolava gemendo: — Cosa fai? cosa fai? Lasciami andare!
Abbandonai il suo braccio. Avevo trovato l’interruttore e fatto scattare la luce elettrica. La rispensi subito. Avevo scorto gli altri interruttori — quelli della luce rosa!
Li girai.
Ed ecco raggiare nel vasto vano, di qua, di là, da tutte le pareti, quelle stelle color di viola rosato, a un tempo dolci e violenti.
Traversai barcollante e precipitoso la stanza. Sentivo il pavimento sollevarsi e abbassarsi in ondate alterne sotto ogni mio passo. Mi lanciai verso il fondo della sala verso la grande placca che Weill aveva acceso per la prima... Ardeva, ora, appeso alla parete, il gigantesco ciclame incandescente; brillava di un fuoco vivido e soave, che mi faceva pensare a un torrente di rubini sciolti nel latte.
Lo staccai dal muro tenendolo nelle mani, quel portentoso e spaventevole gioiello.
— Eccolo, Alessi, eccolo il rimedio a tutti i mali!... Il male degli occhi, sai qual’è? È la vista! La vista delle cose belle che ci stordiscono, la vista delle cose laide che ci disgustano, la vista delle cose tristi, delle cose triviali, delle cose nefande!...
Urlavo così, fissando nel fulgore cremisi i miei occhi sbarrati. Ora nelle mie pupille si accendevano sprazzi di rosa... s’infiggevano pugnalate di rosa... il mondo era un immenso incendio rosa!...
E adesso intorno al rosa appariva un cerchio viola, d’un viola cupo, d’un viola folle, d’un viola non mai veduto!... Ed ora mille altri colori balenavano saettavano sprizzavano intorno a me. Ero circondato di fuoco multicolore, di fuoco verde, di fuoco bianco, di fuoco nero... e traverso tutto questo balenìo questo lampeggìo questo sfolgorìo policromo, sempre delle pugnalate di rosa mi si figgevano nelle pupille...
D’improvviso tornai in me. Con un urlo volli distogliere lo sguardo da quella voragine rosata; non potevo; le mie pupille erano inchiodate, avvitate a quel rutilante braciere.
Sentii Alessi che gridava: — Cosa fai? Vieni via, vieni via!
L’universo turbinò...
Udii delle grida, degli urli, udii... non so che cosa...
Caddi in avanti, prono, colla faccia in quel barbaglio rosa, colla faccia sulla lastra accesa... spezzandola!
(Alberto ascoltava inorridito. Avrebbe voluto non udir più; avrebbe voluto non vivere più.
Lontano nella notte un cane abbaiò ed ululò nell’alto silenzio della campagna deserta.
E Adriano riprese il suo racconto.)
— Quasi prima ch’io riavessi il senso di esistere, ebbi il senso del dolore. Era un dolore atroce, lancinante, al capo, alla fronte, alle tempia.
E accanto al senso del dolore vi era il senso della paura: una paura frenetica, delirante... non sapevo di che.
Ma ecco — fluttuante, scomposta, sconnessa, come lacerata in mille brandelli — mi ritornò la memoria.
I raggi.... la placca di vetro... Rosàlia... Weill... l’ultra-violetto estremo... Alessi... i raggi... i miei occhi!...
I miei occhi!... Ora li aprirei.
I miei occhi!... Ora m’accorgevo che tutto il dolore — quel terribile dolore, quel senso atroce di schianto come se mi si frantumassero le ossa della fronte! — era nei miei occhi.
Adesso li aprirei.
Ma ecco di nuovo il senso di terrore... un terrore mostruoso che mi prendeva alla gola, soffocandomi.
Con un urlo mi rizzai a sedere, stesi le braccia — sbarrai le palpebre...
E vidi! Vidi.
Nella penombra della camera — la camera di Rosàlia — delle figure, delle ombre stavano intorno a me. C’era Weill, e mio padre, e degli sconosciuti... e Rosàlia... Stesi la mano a lei; ella si precipitò verso di me e cadde a ginocchi accanto al letto.
Gli altri sparirono; svanirono come spazzati via in una nebbia. Non rimase che Rosàlia... e il dolore. Il dolore, lancinante, trafiggente, nelle mie tempia e nelle mie pupille.
— Iddio! Iddio, siete buono! — gridava Rosàlia, singhiozzando e ridendo e baciandomi la fronte, i capelli, le mani. — Adriano ci vede! Adriano mi vede! Dimmi, dimmi, Adriano, che mi vedi!
— Sì! sì... ti vedo! — sospiravo affranto.
Ma lei non si calmava; tutta scossa da brividi e singhiozzi, col volto vicino al mio, mi serrava le tempia tra le mani.
— Guarda! — ansava, — guarda tutto, guarda tutto! Guarda fuori, guarda il cielo!
— Dimmi che vedi! che vedi! — E cingendomi col braccio, mi sollevava perchè io vedessi dalle finestre aperte la chiazza azzurra del cielo.
Smarrito, angosciato imploravo:
— Lasciami riposare. Non agitarmi! non agitarti così!...
Ma lei insisteva, tutta scossa da un brivido che io non comprendevo:
— Guarda!... guarda tutto!...
E se appena io mi assopivo, esausto, ella si slanciava su me con un grido:
— No! Non dormire, non dormire! Non chiudere gli occhi!
Io non comprendevo quel suo terrore; non sapevo perchè mi guardasse con quell’aria stralunata; non sapevo che cosa ella temesse ancora.
Così passarono delle ore. O dei giorni? o dei secoli? Non lo so. Weill e un altro dottore non vollero ch’io m’alzassi. Erano sempre al mio capezzale, scrutandomi con sguardi inquieti.
Io non comprendevo il perchè della loro inquietudine. Ormai stavo bene; appena qualche rara fitta di dolore alle tempia e all’occipite, un vago dolore indeterminato mi rammentava l’orrenda follìa di quella sera...
Una notte — la sesta o settima, forse — m’addormentai tardi. Ma quando mi svegliai era notte ancora; notte fitta. Tuttavia sentivo qualcuno — certo era Rosàlia — muoversi pianamente nella camera. Il suo passo leggero mi aveva forse destato?
— Rosàlia, sei tu?
— Sono io. Adriano!... — La sua voce era un ansito, rauco, irriconoscibile.
— Che fai?
Un silenzio.
— Rispondi. Che cosa fai, così nel buio?
Ancora silenzio.
E dentro di me e intorno a me qualcosa di orrendo, di indescrivibile, che mi fece gelare il sangue.
Con un urlo scattai a sedere sul letto.
— Accendi!
La mia voce era un ruggito.
Allora in quel buio Rosàlia si mise a strillare. Strillava come una creatura che si sgozza. Ed io, seduto nel letto, cogli occhi spalancati fissi nel nulla, sentivo dei brividi di gelo percorrermi a ondate il corpo, increspandomi le carni.
Lei non cessava dal pazzesco stridìo. Sentii le porte che si aprivano; dei passi affrettati; la voce di Weill, altre voci...
— Accendete! accendete! accendete! — urlavo smaniando, cercando colle braccia, con le mani, colle unghie di lacerare il buio che era intorno a me e ch’io sentivo avvolgermi, avvilupparmi come tanti fluttuanti brandelli di stoffa nera. Quel buio, come una cosa molle, morbida, mostruosa s’addensava intorno a me, a me solo... Sì! Io solo ero nel buio. Al di là dei mille drappi neri che mi circondavano, gli altri erano nella luce, gli altri ci vedevano, gli altri si vedevano... gli altri mi vedevano!
Vedevano i miei gesti scomposti, le mie braccia, le mie mani brancicanti... Atroce pensiero! Vedevano la mia faccia convulsa, frenetica. Dovevo essere orribile a vedersi, irrigidito e grottesco, colla bocca spalancata, con gli occhi sbarrati e spenti...
(Alberto, ascoltando le parole del giovane si sentì irrigidire e gelare anch’egli. Anch’egli aveva la bocca aperta e gli occhi spalancati nel buio della notte ancor fitta.
E cercava d’imaginarsi che cosa sarebbe il rimanere in quella tenebra per sempre. Anch’egli si figurava quel buio come un viluppo misterioso, come una muraglia morbida di brandelli neri fluttuanti intorno a lui; anch’egli s’imaginava di dibattersi in quell’ombra molle e mostruosa, mentre al di là, dove egli non era, dov’egli non avrebbe mai più potuto giungere, gli altri si muovevano nella luce. Gli altri lo guardavano, lo vedevano... Tremendo pensiero!
Cercò e trovò le mani fredde e magre dello sventurato; le trasse a sè; in un singhiozzo irrefrenabile si chinò a baciarle. Le mani gelide e umidicce si ritrassero lentamente dalle sue.
E la voce bassa e vibrante riprese a narrare).
— Weill voleva tirarsi una rivoltellata. Io glielo vietai.
Egli, seduto sul mio letto, sorreggendomi col braccio intorno alle mie spalle, colla sua guancia bagnata di lagrime appoggiata al mio viso, mi spiegò che i raggi ultra-violetti producevano sulla retina e sul nervo ottico delle profonde lesioni. Quella sorgente luminosa così intensa e penetrante provocava l’emorragia del fondo oculare, la paralisi delle cellule e la loro morte. Tuttavia queste lesioni non si esplicavano fulmineamente, bensì dopo un periodo di latenza più o meno lungo. Così per alcuni giorni non se ne avvertiva la gravità. Non accadeva nulla. Indi, d’improvviso — al quinto o sesto giorno — ecco... come in un soffio!... la vista si spegneva. Il nervo ottico era distrutto.
Mentre egli mi narrava questo, Rosàlia, nella sua molle vestaglia serica, stava allungata sul letto accanto a me, avvinghiata a me. Io sentivo il suo corpo, dalla punta dei piedi alla spalla, rannicchiata nell’incavo del mio braccio; il suo viso nascosto nel mio collo. E l’appassionato abbraccio di Weill e l’intenso contatto della donna mi toglievano la paura, mi davano un caldo senso di conforto e di protezione.
— Weill! se sei pietoso, fammi morire così! — supplicavo. — Dammi un veleno... fammi morire così, senza ch’io lo sappia!
Allora Rosàlia prorompeva in lacrime, e Weill mi baciava, piangendo, la fronte e le guance.
E piangevo anch’io, spaurito e disperato. Ma non triste; non veramente triste. Sentivo l’amore e la pietà di quei due esseri fiammeggiarmi intorno con tale potente intensità, da non lasciar luogo al dolore.
La donna era tutto il giorno stretta a me. La passione e l’estasi la abbatterono nelle mie braccia in un parossismo di amore, in una frenesia di sacrificio.
— Ah! ti amo, ti amo, ti amo! — gridava cento volte al giorno — Che cosa posso fare perchè tu comprenda quanto ti amo!
Fu un’epoca meravigliosa. Io non rimpiangevo nulla. Tutto il giorno (per me era sempre giorno... e sempre notte!) sentivo la presenza di Rosàlia, la sua carezza sul mio braccio, sul mio collo, sul mio viso. Appena movevo o stendevo la mia mano incontravo la mano sua, o la sua bocca che mi baciava, o sentivo sotto le dita i morbidi capelli di quella creatura abbattuta e prona accanto a me...
Venne il giorno in cui potei alzarmi dal letto.
Mi aggirai nel mio mondo di tenebre; andai tastoni, barcollando e brancolando, per la casa.
Poi m’avventurai nel giardino.
Poi per le strade.
Avevo paura, avevo terribilmente paura. Paura di ogni rumore, e il mondo pareva pieno di spaventosi fragori nuovi ch’io non avevo percepito mai! Avevo paura di cadere; paura di sbattere il viso contro un ostacolo; paura di mettere il piede in fallo; paura di attirare l’attenzione, di essere stravagante, di essere ridicolo, di essere compassionevole.
Ah! il terrore di far pietà! Era quello il pensiero che, nella immane sciagura, mi torturava di più.
Ero sempre teso in ascolto di quell’atroce parola: «Poveretto!» E l’idea che Rosàlia vedesse negli occhi altrui rivolti su me la compassione, mi metteva in furore; un furore frenetico, tigrino, un furore truculento e omicida. I sospiri repressi, le voci dolci che facevano gli estranei avvicinandosi a me mi facevano impazzire, mi davano la voglia, il bisogno quasi fisico di reagire, di insultare, di percuotere.
Anche Rosàlia, che aveva nel parlarmi una nuova dolcezza di tono, m’inferociva. E un giorno ch’essa, irritata per un nonnulla e scordando per un istante la mia disgrazia, mi aggredì colla voce dura e metallica di un tempo, io avrei pianto di gioia.
Rammento che quella sua ira fu provocata dalla visita di una fanciulla che mi portava dei fiori — una fanciulla di sedici anni: — e i fiori sentivano della sua gioventù, e lei aveva la fragrante freschezza dei suoi fiori.
In quel giorno, allorchè, rimasti soli noi due, Rosàlia fu con me viperina e insolente, io, chiuso nel mio carcere di oscurità, fui felice — profondamente, completamente felice.
Ed era felice anche lei. Me lo diceva mille volte al giorno:
— Sono felice!... felice!... felice!
E, passato il primo urto, il primo schianto di orrore, ella mi amava con una passione meravigliosa, una frenesia che mi sconvolgeva e mi rapiva.
— Tu non ami che me, — singhiozzava sul mio cuore; — tu non vedi che me... perchè tu mi vedi, è vero che mi vedi? Io sono vestita così... — E mi descriveva la sua veste, la sua pettinatura, i suoi ornamenti.
Ma presto non ve ne fu più bisogno. Io sentivo esattamente quale veste indossava, ne indovinavo financo il colore. Intuivo se ella era pallida, se aveva gli occhi bistrati, se le sue labbra erano smorte o ritoccate col carminio. E volevo che fosse bella; volevo che si facesse bella per me.
— Fàtti elegante, non trascurarti! — la ammonivo. — Pèttina meglio questi bei capelli. Voglio che tu sia bella! bella come ti ricordo... bella come quando ti vedevo.
E per un po’ di tempo fu così. Rosàlia si curava, si adornava, si profumava, per me, per me solo, per deliziare la mia mente e la mia imaginazione, per ammaliare i miei sensi che la percepivano quasi più acutamente che non quando la vedevo.
Ma poi, poco a poco, senza mostrarsi meno tenera divenne più trascurata. Sentivo sotto alle mie dita la sua chioma scarmigliata; era discinto il suo corpo che si avviticchiava a me; e la udivo girare per la casa in pianelle, strascicando con passo negligente quei piedini ch’io ricordavo sempre elegantemente stretti negli arcuati stivaletti dai tacchi Louis-quinze.
Ormai essa non si dava la pena di acconciarsi che per uscire; oppure... quando veniva Weill.
Già. Weill, che nei primi giorni era sempre in casa mia, sempre angosciato e ansioso al mio fianco, aveva poi gradualmente diradato le sue visite. Ma ecco che ora tornava più sovente. Giungeva a tutte le ore, improvviso e inaspettato... O ero solo io che non l’aspettavo?
Notavo che Rosàlia smetteva bruscamente di leggermi o di parlarmi per correre a far toeletta. Cessava il rumore delle strascicanti pianelle, e per la casa risonava nuovamente il tichettìo dei tacchi alti, alitava il suo profumo d’Origan di Coty; ed io, toccandole con mano leggera il capo, le sentivo i capelli serici rassettati in morbidi ondeggiamenti...
E dopo un poco arrivava Weill.
(Adriano tacque per alcuni istanti. Alberto non osava nè muoversi nè fiatare).
— Due mesi più tardi Weill si tirò un colpo di rivoltella al cuore.
Lasciò una lettera in cui diceva:
«Ho orrore di me... Ho orrore di tutti... e della vita... Adriano, addio. Perdona!»
Morì dopo quattro giorni di agonia all’ospedale. Rosàlia ed io accorremmo al suo capezzale, ma dopo il primo giorno — sia per desiderio di lui, sia per divieto dei medici — non fummo più ammessi alla sua presenza.
Da allora in poi sparì dalla mia casa il profumo dell’Origan, e ritornò il suono strascicante delle pianelle.
(Adriano sostò nuovamente.
E di nuovo il cane abbaiò lugubre e lontano nel gran silenzio della campagna. Un lieve fruscio e crepitìo sui rami annunciò che cadeva la pioggia.
La voce del narratore si fece più bassa).
— Poco a poco subentrò... in lei? in me? chi può dirlo?... un altro sentimento. La stanchezza? Il disamore? No. Qualcosa di più profondo e di più fosco.
La passione, quella grande auto-demolitrice, agonizzava; e negli intervalli tra un frenetico abbraccio e l’altro, nei nostri cuori entrò un nuovo più cupo visitatore: l’odio!
Sì; l’odio.
Nel buio delle nostre notti insonni, nelle lunghe silenziose giornate, lo sentimmo penetrare in noi, acquattarsi nel fondo delle nostre anime.
Io sentivo nascere in me un’oscura selvaggia esecrazione di lei, di lei cui dovevo la mia sciagura. E in lei — io lo sentivo! — saliva, torbida marea, un lento, subdolo orrore di me.
E questo orrore ch’ella provava — l’orrore di me, di sè, l’orrore delle sue giornate, l’orrore delle sue notti — io lo sentivo; e la odiavo con cupa silenziosa ferocia.
Di notte, a fianco l’uno dell’altro, restavamo lì, muti nel buio, come due belve in agguato... E i nostri abbracci erano più parossistici, più furiosi, poichè in essi ruggiva la nostra oscura crudeltà, la nostra occulta brama di reciproco annientamento.
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Questo durò fino a un anno fa... o due anni fa? Non lo so. Ho perso la nozione del tempo. Da allora in poi tutto è mutato.
Rosàlia lasciò improvvisamente la mia casa.
Ora viene ogni tanto a trovarmi. Resta con me qualche giorno, calma e indifferente.
Quando essa arriva, torna con lei nella mia casa il profumo dell’Origan, il ticchettio dei tacchi... I suoi capelli sono serici e ondulati...
Ed io sono stanco di vivere.