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108 | annie vivanti |
Ah! il terrore di far pietà! Era quello il pensiero che, nella immane sciagura, mi torturava di più.
Ero sempre teso in ascolto di quell’atroce parola: «Poveretto!» E l’idea che Rosàlia vedesse negli occhi altrui rivolti su me la compassione, mi metteva in furore; un furore frenetico, tigrino, un furore truculento e omicida. I sospiri repressi, le voci dolci che facevano gli estranei avvicinandosi a me mi facevano impazzire, mi davano la voglia, il bisogno quasi fisico di reagire, di insultare, di percuotere.
Anche Rosàlia, che aveva nel parlarmi una nuova dolcezza di tono, m’inferociva. E un giorno ch’essa, irritata per un nonnulla e scordando per un istante la mia disgrazia, mi aggredì colla voce dura e metallica di un tempo, io avrei pianto di gioia.
Rammento che quella sua ira fu provocata dalla visita di una fanciulla che mi portava dei fiori — una fanciulla di sedici anni: — e i fiori sentivano della sua gioventù, e lei aveva la fragrante freschezza dei suoi fiori.
In quel giorno, allorchè, rimasti soli noi due, Rosàlia fu con me viperina e insolente, io, chiuso nel mio carcere di oscurità, fui felice — profondamente, completamente felice.