Scola della Patienza/Parte terza/Capitolo III
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CAP. III.
Come l’afflittioni s’hanno da sopportare costantemente.
§. 1.
Quello, ò Christiani miei, che perseverarà fino al fine, questo sarà salvo. Qui perseveraverit usque ad finem, hic salvus erit.1 In quanti modi, e come gagliardamente fù tentata nella croce la costanza di Christo? Poiche gli dicevano: Si rex Israel, si filius Dei est descendat nunc de Cruce, et credimus ei. S’egli è il Rè d’Israele, s’egli è figlio di Dio, scenda adesso dalla croce, e gli crederemo. Mà come molto elegantemente dice S. Gio. Chrisostomo: Ideo de Cruce non descenderat, quia filius Dei erat: Cui non difficile descendere de patibulo, qui potuit resurgere de Sepulchro. Anzi perciò non ne volle scendere, perche era figliuolo di Dio, à cui non sarebbe stato difficile il scendere della Croce, già che potè risorgere dal sepolcro Sed quia patientiam docebat (di S. Agostino) Ideo potentiam differebat.2 Mà perche insegnava la patienza differiva la potenza. Li figliuoli di Dio sono costanti, nè finiscono prima di dire: il Consummatum est.
E’ stato permesso di pregare Iddio giusto in questa forma: Pater transeat a me calix iste: Signore di gratia fate ch’io non beva questo calice; Mà vi bisogna sempre aggiungere Verumtamen, non mea, sed tua voluntas fiat. Ma quando pure vi piacesse altrimente, sia fatta la volontà vostra non la mia. Se così volete Signor mio, io mi beverò tutto questo amarissimo calice fino al fondo.
Tocca all’orefice il sapere quando hà da stare l’oro nel fuoco, ne si cava di là, se non è prima ben purgato. Così apunto: Non est nostrum nosse tempora vel momenta, quae pater posuit in sua potestate. Non tocca à noi sapere i tempi, e i momenti, che Dio s’hà riservato per se. Noi siamo l’oro, Dio è l’orefice; l’oro all’hora si cavarà dal fuoco, quando parrà all’orefice.
E vedete vn poco di gratia l’ostinatissima costanza di molti in cose vili, e transitorie. Quante volte si sente dire: Non cesso, non mi fermo, voglio finire quello, che hò incominciato, ne voglio ad ogni modo vedere il fine: O Cesare, ò niente, ò vincere, ò morire: Non mi quietarò mai, finche non faccia quello; E questi sono essempi dì Costanza?
Da che dunque nasce, che nella scuola della Patienza manchi sì presto, e così facilmente la nostra Costanza? Uno dice, non posso più sopportare questo: Di pure; Non voglio più sopportarlo: Potressi, se vorressi. Ma si come i cavalli si stancano in vn viaggio longo, così ne i mali, che durano assai si stanca ancora la nostra patienza. Anzi quello, ch’è peggio, alle volte à pena ci toccano i mali, che ci arrendiamo, lasciamo l’impresa, e non facciamo più niente. Variamo ogni giorno il giuditio, e lo voltiamo, e andiamo spartendo la vita con diversissimi propositi.
Perciò prudentemente avvertisce Seneca, mentre dice: Ante omnia haec cura, ut constes tibi. Maius est, ut proposita custodias quam ut honesta proponas. Sed plerisque vita per lusum agitur: iudicia nostra non tantum prava, sed et laevia sunt. Fluctuamus aliudque ex alio comprehendimus: petita reliquimus, relicta repetimus: alterna inter cupiditatem nostram, et poenitentiam vices sunt. Non proponit sibi quod velit, nec si proposuit, perseverat in eo, sed transilit: nec tantum mutat, sed redit, et in ea, quae deseruit, ac damnavit revolvitur.3 Prima d’ogn’altra cosa procura d’esser costante nelle cose tue. E più a mantenere le cose, che si sono proposte, che proporne altre di nuove, benche siano honorate. Ma molti passano la vita come per giuoco: li nostri giuditij non solamente sono mali, ma leggieri ancora. Andiamo sempre ondeggiando, e hor vogliamo una cosa, hora un’altra: lasciamo le cose incominciate, ripigliamo le lassate, e vanno sempre alternando tra di loro il desiderio nostro, e ’l pentimento. Niuno si propone prima quello, ch’egli vuole, ò se pur lo propone, non dura in quel proposito, mà se ne passa subito a un’altro. Ne muta solamente, mà torna, e si riduce di nuouo a quelle cose, che prima haveva lasciate, e riprovate. Sta dunque saldo in quello, che hai incominciato, e persevera nella Patienza. Tu sai pure ciò, che dice l’ Ecclesiastico: Stultus ut Luna mutatur.4 Il pazzo si muta sempre come la Luna. Hà una grande infermità chi è così Lunatico.
Note
§. 2.
S. Agostino non senza ragione si maraviglia, ch’essendo Iddio tanto amico del Patriarcha Giacob, gli celasse per tanto tempo, che Gioseppe suo figlio era vivo. Se ne stava il buon Vecchio molto mesto per causa del figlio, ch’ei si pensava,che fusse stato lacerato dalle fiere. Nè Dio si degnò mai di mitigar questo suo dolore ne pur con una minima parolina, Che volse dir questo? Volse Dio tentare, e far prova della costanza di Giacob; e però gli raddoppiò anche il dolore quando gli fece levare il suo dilettissimo Beniamino. E con quante altre, prove tentò Dio la costanza dell’istesso Gioseppe? Haveva questi già compito li dicisette anni, quando fu venduto da li fratelli; servì poi dieci anni; fù spesso dalla sua Padrona con mille carezze tentato a peccare; ma egli con tanta costanza ricusò l’invito, che nè con minaccie, nè con lagrime; nè con preghiere potè esser vinto;, e se ne stette fermo, e immobile nel proposito della pudicitia. Indi fù messo nella prigione de’ malfattori, dove se ne stette un’anno col coppiero, e col fornaro del Rè. Dopo d’esserne stati cavati quei due; egli se ne stette per due altri anni in quella prigione con maravigliofa costanza di bontà, e di patienza; percioche commettendo tutta a Dio la sua innocenza, nè si curò di difendersi, nè di scoprir la cosa, come era passata: ma sopportò costantemente quella prigionia, consolandosi solamente in pensare, che Dio era più potente di quei, che ’l tenevano in prigione; la cui vigilantissima providenza egli provò poi molto bene . Imperoche dopo d’esser stato tre anni in prigione, come si è detto, fù menato innanzi a Faraone, e da quello fatto Vicerè di tutto l’Egitto. Et essendo egli all’hora di trent’anni dell’età fua, durò per altri anni ottanta in governar l’Egitto in sommo grado di dignità, e come la prima persona dopò quella del Rè; poiche questo è il costume di Dio, dar sempre maggiore la marcede di quello, che siano i meriti, e il premio: assai maggior della fatica.
Et eccoti com’è grande l’eccellenza d’una patiente costanza. Laonde, qualunque tù ti sij stà pur saldo, e sij fedele fino alla morte, e ti sarà data la corona della vita Esto fidelis usque ad mortem; et dabitur tibi corona vitae.1
Confideriamo un poco la natura di tutte le cose: Che giova imparare un’arte senza poter mai far mostra di quello, che s’hà imparato? Perche ti metti a correre, se ti fermi prima di giugnere alla meta? Perche vai alla scuola della Patienza se non pensi di perseverare? Non sa niente colui, che dopò haver speso alcuni pochi giorni, ò settimane, ò mesi nella scuola della Patienza; dando alla fine nell’impatienza, dica: Io sono andato assai alla scuola, non posso più sentire queste canzone; da hora innanzi sarò a mio modo, nè sarò più così attaccato. Tiemmi pur lontani questi discepoli da questa scuola: perche vi spendono il dinaro in darno; e benche imparino molte cose non sanno però niente. Indarno cominciano, perche poi non durano Manca loro costanza. Che ti giova incominciare, se tù non vuoi finire? Dei perfecta sunt opera. 2 Le opere di Dio sono perfette. Il Ré Salomone percio fù tanto lodato, non perche cominciò a fabricare il Tempio, mà perche lo finì . Aedificavit Salomon Domum, et consummavit eam.3 Fabricò Salomone il Tempio, e lo finì di tutto punto.
Christo patientissimo Maestro in questa Scuola, non si cura d’haverci per discepoli coloro, che cominciano con un grande sforzo, osservano per qualche tempo le regole, danno qualche speranza di profitto, e sono commodamente industriosi; ma poi a poco a poco si vanno infiacchendo, lasciano la scuola, si danno alla poltronaria, e alla fine ritornano all’impatienza antica. Andatevene pur via poltroni, ne voi altri inconstanti vi ci accostate. Qui non si spedisce il privilegio d’eruditione a nessuno, se non si porta così bene, che di lui meritatamente si possa dire: Cursum consummavit. Egli hà finito il corso.
La lettione del consummatum est è l’ultima, che si legge in questa scuola, e chi non ha imparato questa, hà perduto il tempo in venir à questa Scuola. Quell’Angelo dell’Apocalisse così ci avvisa: Tene quod habes, ut nemo accipiat Coronam tuam.4 Tieni stretto, conservati bene quello, che tù hai, accioche niun’altro ti levi la Corona. Dichiara questo elegantemente S. Basilio in quell’Oratione nella quale loda tanto la costanza di quei Quaranta Martiri, che al tempo di Licinio Imperatore, vicino alla città di Sebaste in Armenia furono esposti nudi di notte al sereno in tempo d’inverno all’aria fredda, accioche vi lasciassero la vita. Gridavano tutti unitamente: combattiamo pure allegramente, e finiamo la nostra carriera, che dopo il corso n’haveremo le corone. Fù questa voce confermata da celeste visione; poiche vegliando uno della guardia vede venir dal Cielo alcuni Angeli con trentanove Corone per ripartirle frà quei Santi Martiri. Quivi egli cominciò in questo modo a dire fra se stesso. Questi Christiani son quaranta, e dov’è la quadragesima Corona? Mentre egli và così discorrendo dentro di se stesso; uno di quel beato numero, troppo amico della vita non potendo sopportar quel tormento, se ne passò in un bagno caldo quì vicino. Ah delicato martire, che fai? Fuggi la morte? Anzi in questo medesimo luogo, dove tù pensi fuggirla, quì la troverai. Imperoche non potendo sopportare quella repentina mutatione da quel freddo al caldo, di là a poco quel meschino spirò l’anima. O misero disgratiato, e infelice, diede nello scoglio di Scilla mentre cerca di fuggir Cariddi; hebbe paura di dolori brevissimi, e cascò negli eterni, e perche non hebbe la costanza, e perdè la patienza sen’andò all’ Inferno a quegli eterni tormenti. Ma tutti quegl’altri perseverarono costantemente fino all’ultimo spirito, e furono degni della corona perche furono pieni di perseveranza.
Note
§. 3.
Vi furono alcuni, che una volta fecero questa dimanda a quel filosofo Cinico: Dinne, di gratia Diogene, per quale cagione, essendo tù così vecchio habiti ancora in cotesta tua botte? perche non lasci hormai andare così stretta filosofia? Ai quali così egli rispose: Voi altri siete huomini ridicoli. S’io corro nello stadio m’ho forse da fermare essendo più vicino alla meta, e lasciar, che un’altro mi passi, e mi pigli il premio? anzi voglio correr più forte hora, che mai. Hor perche noi ancora non habbiamo simili pensieri? Che cosa più pazza si può trovare, che stancarsi, quando siamo più vicini al fine? Che lasciar di correre, quando già ci avviciniamo alla meta? O passi graviora! Dabit Deus bis quoque finem.3 State forti voi, che havete patito cose maggiori, perche Dio darà presti fine ancora a queste altre minori.
Ma molto più saviamente di Diogene fece S. Francesco d’Assisi, il quale dopo esser vissuto religiosissimamente per lo spatio di molti anni morto a se stesso, vedendosi alla fine d’essere vicino all’ultima lotta, che doveva fare con la morte; disse. Incipiamus, o fratres, servire Domino Deo nostro, quia usque nunc parum profecimus.4 Cominciamo, fratelli miei a servire al nostro Signor Iddio, perche fin’hora habbiamo fatto poco profitto.
Perciò Costantemente Christiani Costantemente s’ha da tirar innanzi l’incominciato, e quel poco viaggio, che ci resta, s’ha da fare allegramente. E per far questo, due cose in particolare ci aiuteranno grandemente.
La prima è l’accusatione di se stesso. In tutte le cose, che noi patiamo, confessiamoci per rei. Ogn’uno dica per se: Meritatamente patisco questo: Io per me giustissimamente sono afflitto. Iustus es, Domine, et rectum iuducium tuum.5 Siete giusto Signore, e il vostro giuditio è retto, buono, e santo. Disse benissimo S. Agostino: Iudicia Dei plerumque occulta, numquam tamen iniusta. I giuditij di Dio molte volte sono occulti, mà non sono mai ingiusti. Sino à tanto, che non ci crediamo d’esser innocenti, e di patire à torto, sempre ci scopriamo d’haver poca patienza, e d’esser incostanti.
I fratelli del Vicerè d’Egitto, è cosa certa, che non erano spie, come loro si apponeva, haveano ancora pagato fedelissimamente tutto il prezzo del frumento, che havevano comprato; non havevano rubato altrimente la coppa di quel Signore, e nondimeno professandosi per rei dissero: Merito haec patimur, quia peccavimus in fratrem nostrum, idcirco venit super nos ista tribulatio. 6 Meritatamente patimo queste cose, perche peccammo gravemente contra il nostro fratello, e perciò ci viene questa tribolatione. Imitiamoli, di gratia ancor noi, e diciamo: Meritatamente patimo queste cose, anchorche ò per sospetto, ò per fraude, ò per errore ò per mensogna ci si apponghino, e di quelle ne siamo innocenti. Nondimeno meritatamente le patiamo, e siamo degni di patirne mille volte peggiori. E se tu mi dirai, che in questa cosa sei accusato a torto, e che ne sei del tutto netto, e innocente. Sia quel che si voglia, che importa? Dirai tù forse di non lo meritare? Ricordati, di gratia, che sono più di trenta, ò quaranta anni, che tù facesti il tal peccato, e non ne hai ancor pagato la pena; Hor eccoti l’esattore, che ti vien a trovare, e vuol’essere pagato. E se bene tù non hai colpa alcuna nella cosa, che t’appongono, fusti però molto ben colpevole di quell’altra, che facesti, e non hai ancora pagato. Però ti venne adesso questa tribulatione. Adunque mangia adesso di quel pane, che all’hora t’impastasti.
Note
§. 4.
Quando già se ne stava su le porte di Betulia l’inimico, e per tutta quanta la città non si sentiva altro che pianto, e gran lamento; La castissima vedova Giuditta uscita in publico per consolar quei poveri afflitti, e dar loro buona speranza, disse: Nos ergo non ulciscamur nos pro his, quae patimur: sed reputantes peccatis nostris haec ipsa supplicia minora esse, flagella Domini, quibus quasi servi corripimur, ad emendationem, et non ad perditionem nostram evenisse credamus.2 Noi dunque non ci vendichiamo per queste cose, che patiamo: mà stimando, che questi istessi supplicij siano assai minori de i nostri peccati, crediamo, che li flagelli del Signore, co i quali come tanti servi siamo castigati, ci sono venuti per nostra emendatione, e non per nostra rovina.
Per tanto, quando siamo afflitti ò castigati non diamo mai la colpa ad altri, mà à noi stessi, e confessiamo d’esser castigati da Dio assai meno di quello, che meritiamo; poiche Dio secondo il suo costume dà la pena sempre minor della colpa, e anche nell’Inferno, come dicono i Teologi citra condignum punit; castiga sempre meno di quello, che i peccati meritano. Quindi è che Giob con grandissima sapienza desiderava, e diceva. Utinam Deus loqueretur tecum, ut intelligeres, quod multo minora exigaris ab eo, quam mereretur iniquitas tua3 O piacesse à Dio di parlare teco, accioche tù intendessi, ch’ei ti dimanda molto meno di quello, che haveria meritato il tuo peccato. Tù ti sei scordato di molti tuoi peccati, mà non se n’è già scordato Iddio, qui patiens est redditor.4 il quale aspetta con grande patienza a castigartene; ed essige molto meno di quello, che tù gli devi. Chi dunque si ritrova spesso in qualche travaglio, dica spesso: Io hò peccato, e meritamente ne son punito: Meritamente patisco queste cose; e mi è dimandato meno assai di quello, ch’io merito per i miei peccati: sono castigati assai leggiermente, merito assai più gravi castighi. E questa è quella prima cosa, che dicemmo aiutar la Costanza l’Accusatione di se stesso.
L’altra cosa è la consideratione della divina volontà, e providenza. Tutte le cose, che noi patiamo, le patiamo perche così vuole Iddio, il quale non solo previdde ab aeterno, mà volse ancora, che ciascuno cadesse in quelle miserie, e in quelle pene, mà non in quelle colpe, nelle quali egli de fatto cascò. Per tanto separiamo la colpa dalla pena, leviamo via il delitto dall’afflittione, e s’haverà da dire; che sicome il giustissimo Iddio non è l’autore d’alcun peccato; così egli è, come dicono i Teologi, la causa principale positiva, ed effettiva di tutte l’afflittioni, e di tutte le pene. Non vuole Iddio, mà permette, che commetta la colpa, la quale spesse volte è causa di molte miserie, e pene; mà commessa ch’è la colpa vuole ancora, perche egli è giusto, che le si dia la pena.
Tutte le miserie adunque, e tutte le calamità, che ci vengono, ci vengono, da Dio, dalla sua volontà, e dalla sua providenza. Iddio è quello, che vuole (e intendiamo bene questo punto) che siamo afflitti da tutti questi mali, che ci travagliano e Ideo quisquis es debes velle haec pati , cum scias ex decreto Dei fieri.5 Perciò qualunque tù ti sij, devi contentarti di patir volentieri queste cose, sapendo che questa è la volontà di Dio. Questo amantissimo padre allieva i suoi figliuoli severamente.
Occorre talvolta, che molti fanciulli (massime quando si pensano star sicuri dalla serla) se ne stanno per le piazze giuocando; quando inaspettatamente viene una persona honorata, e pigliandone uno per l’orecchie lo tira fuori della compagnia delli altri. Ogn’uno, che vede questo, subbito pensa, che senz’alcun dubio quel tale sia il padre di quel fanciullo: si mena via il suo figliuolo senza curarsi de gl’altri. Così interviene spesse volte à noi altri, i quali mentre stiamo giuocando, ciarlando, e burlando, siamo dal nostro ottimo padre tirati per l’orecchie fuori del giuoco, il quale turba i nostri giuochi con l’afflittioni; E quello, che ci tira per l’orecchie non è persona incognita, nè aliena, mà è padre. Imperoche il Signore (come si è detto mille volte) castiga quello, ch’egli ama, e flagella ogn’uno, che si piglia per figlio. Che se non state sotto la disciplina, adunque siete figli bastardi, e non legitimi.
Note
§. 5.
Girolamo Cardano, huomo di varia eruditione dice costare per esperienza, che la dolcezza del mosto si può mantenere a questo modo. Si dolium (dic esso) intus, et extra pice Oppilatum dulci vino, licet faeculento impleatur, et mersum flumine morgatur, anno integro nil decedet dulcetudini, quam picis calor, et aquae frigus defendunt'.1 Se una botte bene impeciata dentro, e fuori s’empie di vino benche feccioso, o vero di mosto, e si metta in un fiume sott’acqua per un’anno intiero non perderà niente di dolcezza, essendo difeso dal caldo della pece, e dal freddo dell’acqua.
Non altrimente fa Iddio con noi, poiche ci mette nell’acque delle calamità, accioche non ci guastiamo, ne diventiamo aceto. E’ certo, che in questa acqua si trovava posto quel Rè, che gridava: Libera me ab ijs, qui oderunt me, et de profundis aquarum.2 Liberatemi Signore da quei, che mi vogliono male, e dal profondo dell’acque. Ma quando egli fù cavato fuori da queste acque, se ne congratulò seco stesso dicendo: Misit de summo, et accepit me, et assumpsit me de aquis multis.3 Mandò dal Cielo a liberarmi, e mi cavò fuori dal profondo dell’acque.
Lodovico Blosio Abbate Lerinense disse a questo proposito una cosa, che a me pare si dovesse scriver à lettere d’oro. Le parole di questo divotissimo scrittore son queste. Quidam amicorum Dei ait: Quem Deus donis potioribus exornare, sublimiterque transformare decrevit, eum non blande, et molliter levare, sed totum in mare amaritudinis immergere consuevit.4 Dice un’amico di Dio, che quegli, che Dio ha determinato d’arricchire de’ suoi doni, e inalzarlo a grado d’eminente Santità, non è solito lavarlo molle, e delicatamente, ma immergerlo tutto in un mare d’amaritudini, e d’afflittioni. Nota questo, Christiano mio, e notalo bene: Tù hai da esser lavato, non già con vino odorifero, ò con acqua rosa, mà si bene immerso tutto in un salsissimo, e amarissimo mare. E questo bagno t’ha apparecchiato fin dall’eternità il tuo amatissimo Padre.
Laonde ogni cosa, allegra sia, ò malinconica, buona ò trista si deve accettare dalla mano di Dio. Et a questo modo s’ha da procedere costantissimamente fino al fine. Quanti salmi scrisse David con questa inscrittione, ò con questo titolo: Psalmus usque in finem; che si doveva cantare tutto dal principio alla fine. Nella Scuola della Patienza non habbiamo incominciato a cantare ne comedie ne canzonelle allegre; mà si bene pianti, e meste lamentationi, le quali noi cantiamo pessimamente se non le cantiamo fino al fine. Non ci mancarà mai da patire.
E’ verissimo quel detto: Una tentatione, seu tribulatione recedente alia superavit: et semper aliquid ad patiendum habebimus: Sed, et priore adhuc durante conflictu, alii plures supervenient, et insperate. 5 Partendosi una tentatione ò una tribulatione ne sopraviene un’altra: e sempre haveremo qualche cosa da patire, anzi mentre ancora dura la prima battaglia, ne sopraverranno molte altre, e all’improvviso. E così le lamentationi s’hanno a cantare talmente, che se n’ha da vedere il fine. La canzona della Patienza s’ha da cantare tutta fino al fine.
Il premio si promette a quei che cominciano; mà si da à quei che perseverano. Giuda Iscariote cominciò benissimo; mà finì pessimamente; si loda il suo incominciamento, mà si biasima il suo fine. L’incominciare è di molti; il finire, di pochi. E per parere di S. Gregorio, la virtù dell’opera buona è la perseveranza, la quale sola si corona, in darno si fa bene, se si lascia prima di morire.
S. Bernardo eccitandoci à questo dice: Prorsus absque perseverantia, nec qui pugnat, victoriam, nec palmam victor consequitur. Senza la perseveranza, ne chi combatte può havere la vittoria; nè il vincitore la palma. Il vigore delle forze consiste nella perfettione delle virtù. La perseveranza è sorella della Patienza. Leva la perseveranza, nè la servitù haverà la sua mercede, nè il beneficio la sua gratitudine, nè la fortezza la sua lode. Il Demonio và sempre insidiando la perseveranza, la quale egli sà, che sola fra le virtù è coronata, poiche il fine, e non la pugna è quello che corona. Loda la felicità del navigante, mà quando sarà giunto al porto. E’ poco l’haver pigliato la croce in spalla, se non la porti fino al fine. Vae his, quae perdiderunt sustinentiam.6 Guai a quei, che hanno perduto la patienza. Sù dunque, Christiani, forte, e costantemente, accioche non ci si habbia poi à cantar quel verso: Coepisti melius quam definis: Ultima primis dedecori sunt. Cominciaste meglio di quel che voi finite: il fine fa vergogna al principio. S. Paolo partendosi da quei di Mileto, che lo piangevano, dice liberamente: Vincula, et tribulationes Hierosolymis me manent: sed nihil horum vereor, nec facio animam meam praetiosiorem, quam me, dummodo consummem cursum meum.7 In Gerusalemme mi sono già apparecchiate prigioni, e tribolationi diverse: mà io non mi curo niente di questo, purche io finisca la mia carriera. Seguitiamo la voce di chi ci guida, e cantiamo insieme. Ogn’uno dica per se. Habbisi pure à comprar il Cielo per qualsivoglia prezzo, e con qualsivoglia spesa, e con ogni possibil travaglio: M’odij pure, mi perseguiti, mi travagli, e stratij chiunque vuole: carichino pure sopra di me tutti i mali, che piacerà a Dio mandarmi: Ch’io sono pronto, e apparecchiato a fare, e patire ogni cosa, purchè io finisca la mia carriera, purchè io possa dire al fine: Consummatum est. Perche sò benissimo, che à questo mio travaglio corrisponderà un’abbondantissimo, e sempiterno frutto.
Note
- ↑ [p. 703 modifica]Cardan. l. 13. de subtilit.
- ↑ [p. 703 modifica]Ps. 68. 15.
- ↑ [p. 703 modifica]Ps. 17. 17.
- ↑ [p. 704 modifica]Blos. Inst. spir. c. 8.
- ↑ [p. 704 modifica]Thom. de Kemp. l. 3. c. 13. n. 3. et l. 3. c. 20. num. 3.
- ↑ [p. 704 modifica]Eccl. c. 2. 16.
- ↑ [p. 704 modifica]Act. c. 20. 23. et 24.