Scola della Patienza/Parte prima/Capitolo I

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CAP. I.

Che sorte di pene, ò che sorte de Croci s’ha à patire nella Scuola della Patienza


V
I fù una volta una Quercia molto antica, mà tutta quanta fracassata, e rotta, che si mise à parlare con una Canna, e cominciò il suo ragionamento dalla propria rovina; poiché la malignità della Fortuna, e i casi avversi la fecero eloquente. Mirami un poco, diceva, ò mia vicina, e vedrai un specchio di calamità. A pena hò ritenuto la metà dell’esser mio, e sono, come tu vedi, tutta schiantata, e miseramente lacerata. Così mi hanno trattato i fratelli d’Eolo. Mà di qual cosa, di [p. 2 modifica]gratia mi devo più maravigliare? ò che tu sij così sana, e intiera, ò che io sia così lacerata, e guasta? Le forze tue, ò Canna, non sono uguali alle mie, e gl’occhi istessi certificano, ch’io sono più forte, e robusta, che non sono ò cento, ò mille canne insieme. Nondimeno, quando i Venti, e i Turbini impetuosamente mi battono, le mie forze non vi sono per niente, poichè sono svelta, rotta, lacerata, e miseramente gettata per terra. Mà tù ti burli della furia de i venti, combatti à ventre vuoto, e sempre vinci, e sola trionfi. Noi che siamo gl’Aiaci, siamo sempre superati e vinti. Come dunque và questa cosa? La Canna, che havea imparato à tacere, l’ascoltò, mentre disse, senza mai interromperla. Mà poi alla fine à pena così rispose. Non è, disse, di che tu deva maravigliarti, ò mia ottima Vicina; La tua forza è la tua rovina. Se tù fos[p. 3 modifica]si men robusta, saresti più sana, e intiera. Tù ti fidi (e sia ciò detto con tua pace) della tua robustezza, resisti al vento, e così sei vinta. Hai un nemico, che non sà cedere, e dalle forze ostili piglia sempre più animo, e se gl’aggiungono forze ogni volta, che con più valorosi combatte, e hà tanto più sicura, e certa la vittoria, quanto è più difficile pugna. Di qui è, che ’l vento atterra le più alte, e forti quercie, e si ride della sciocchezza di quelle, che in darno gli fanno resistenza. Io, essendo molto ben consapevole della fiacchezza mia, gli cedo, e vi sarà tal giorno, che ben seicento volte farogli riverenza con profondo inchino. Ne mi è cosa grave per conservarmi la vita, adorar anche mille volte al giorno, se tante bisognasse, un si potente nemico. Per tanto non s’hà da trattar qui con le forze, mà con la destrezza. [p. 4 modifica]

Così è à punto: non sono sicure le forze, dove manca il consiglio ò la destrezza. Il Vento della calamità tutti incontra, senza perdonar à nessuno, ò buono sia, ò cattivo, che tutti in questo mena uguali. E chi è quello, che non senta mai qualche cosa contraria? Molti però sono dalle Avversità ammaestrati, e sollevati al cielo; e non pochi, che sono da quelle vinti, vengono trabalzati all’Inferno. La cosa dunque sta in questo, non quanto sentiamo di contrario, mà nel modo che il sopportiamo.

Anderanno talvolta ad un’istessa Scuola ducento scolari, mà non tutti riescono Apollini: molti ne riportano il lauro, mà pochi sono i Febi. Dalle scuole alcuni passano alla militia, altri imparano per tener la taverna, altri per essercitar la mercantia, altri escono dalla scuola Beccamorti, ò Sagrestani, ò Contatori; altri finalmente misu[p. 5 modifica]ratori di frumento, e rusticani mietitori. E così non importa quello, che tu t’impari, mà sì bene il profitto, che fai nelle cose, che tù impari. E perchè varia è la sorte di quei, che imparono, diverso ancora è il lor profitto. A quelli manca l’ingegno, à questi il dinaro, ò l’industria; e così nè questi, ne quelli diventano dotti.

L’istesso quasi occorre nella scuola della Patienza, ò per dir meglio nella scuola di Christo. Diversa è qui la diligenza, ò la negligenza di quei, che imparano, e di qui è che il profitto ancora è totalmente diverso. Nondimeno è bellissima cosa quella, e propria solamente di questa Scuola, che ognuno vi fa qualche profitto, eccetto quegli che non vuole. Qui vi è ingegno, e dinari per tutti purchè lo scolaro porti seco un animo pronto, e desideroso d’imparare. L’industria solamente qui può fa[p. 6 modifica]re ogni cosa. E la peggior cosa che qui possa ritrovarsi, è solamente il non volere imparare.

Mà che libri s’hanno quì di bisogno? E che volumi s’hanno da usare in questa Scuola? Fù lodevole usanza degli antichi, dare à gl’invitati una lista prima, che si mettessero à tavola, ò mandarla ancora loro sin’alla casa, nella quale erano notate per ordine tutte le vivande, che vi dovevano essere. Et avvisavano ciascuno de i convitati in questo modo. Haverete queste, e queste imbandigioni, e vi saranno portate tante, e tali vivande, in tanto numero, e con tale ordine. Perciò se vi fusse qualche cosa fra le prime vivande, che non fosse così à proposito per il vostro gusto, ò per il vostro stomaco, andate trattenendo l’appetito, e conservate il luogo per le cose migliori. E così stimarono per cosa ben fatta, che si sapesse da i convitati ciò che [p. 7 modifica]lor dovea dare il Padre di famiglia.

Non sarà di minor giovamento nella Scuola della Patienza, il sapere con quali calamità e miserie sia solito Iddio essercitare i miseri mortali. E la Prima cosa, che hà da far il buon discepolo è il cercar di sapere, che libri s’hanno a leggere. Giob da questi istessi affanni essercitato diceva: Librum scribat ipse qui iudicat, ut in numero meo portem illum.1 Desiderava questo Santo, che se gli mettessero in una lista tutte le cose che havea da patire, essendo egli molto bene apparecchiato à portar volontieri questo peso.

Adunque prima d’ogn’altra cosa facciamo questa, e riduciamo tutte le sorti d’afflittioni che comunemente si chiamano Croci, e dividiamole in alcune determinate classi.

Note

  1. Iob. c. 3. 1 v. 35. Colui che giudica mi scriva il libro, acciocche io me lo porti sopra le mie spalle.

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§. 1.


T
Utte le sorti di pene, d’afflittioni, e di travagli, che si trovano in questo mondo, si possono ridurre alle dieci classi d’affanni che seguono. Poiche Iddio hà nella Scuola della Patienza le seguenti cose. Prima Le Verghe 2. Le Saette. 3. Le Facelle. 4. La Corona di strame. 5. Le Bacchette. 6 Li Ceppi, e le Catene. 7. I nodosi Bastoni. 8 Il Mantello. 9 Le Sferze. 10 Il Sacco. Dichiariamo adesso brevemente queste cose, riserbandoci di trattar poi di ciascuna più copiosamente al suo luogo.

1. Le Verghe significano le infermità, e li dolori: Le malattie sono quasi innumerabili, e ciascuna partecipa qualche poco d’amarezza, che le viene dal timore della morte. Con queste Verghe ci andiamo mettendo in ordine per morire; poichè le infermità sono [p. 9 modifica]ordinariamente la strada, per la quale si va alla morte. L’infermità han differito la morte à molti, e il parer loro, che morivano, diede lor la vita. Poiche la Virtù hà il suo luogo ancor nel letto.

2. Le Saette rappresentano l’afflittioni d’animo, le sollecitudini, i pensieri noiosi, le amarezze, le malinconie, i timori, le suspicioni, e li affanni: L’ansiose punture de’ scrupoli; gl’impeti delli allettamenti, e delle tentationi, gl’occulti rimordimenti della conscienza; l’onde, e le tempeste delle sollecitudini. Poichè come disse il Profeta Isaia: Sagittae Domini acutae, et omnes arcus eius extenti. 1 Le saette del Sign. sono acute; e hà sempre tutti li suoi archi parati.

3. Le Facelle significano la Povertà; la quale diversamente affligge i poveri mortali: secondo la diversità del modo che hanno le afflittioni domestiche. S’abbrugia [p. 10 modifica]tal volta una carta unta di sevo, e posta nella scarpa d’uno, che dorme: altre volte vien messa una candela sottile sotto un dito: alle volte si riscalda tanto la stufa, che ti pare un caldissimo bagno: altre volte ti è tolta qualche cosa, che ti era carissima, e vien gettata nel fuoco: e così assai è afflitto quegli, le cui delizie s’abbrugiano. Et à questo modo gli huomini sogliono esser essercitati dalla Povertà.

4. La Corona di strame è segno di burla: di beffe, e di dispregio. Et appena si trova cosa in questa Scuola, che così affliga, e dia tanto fastidio à molti de scolari, quanto fà questa corona di burla, il quale supplicio però occorre spesso. Poiche per tutto, come disse Giob: Deridetur iusti simplicitas. 2 E ne’ Proverb. Ambulans recto itinere; et timens Deum despicitur ab eo, qui infami graditur via. 3 Vien burlata, e derisa la semplicità del [p. 11 modifica]Giusto; e chi camina alla buona, e teme Dio, vien dispregiato da chi và per la mala strada.

Da queste quattro sorte di pene vien compreso quasi tutto quello, che noi patiamo: Perche, ò il corpo, ò l’anima, ò i beni del corpo, ò dell’anima vengono afflitti. E perciò abbiamo assegnato le Verghe, le Saette, le Facelle, e la Corona di strame. Mà queste miserie di nuovo le dividiamo in altre.

5. Dalle Bacchette vengono significate le quotidiane miserie, come sono la fame, la sete, il caldo, il freddo, l’habitatione incommoda, il vestir male, l’andar, e l’aspettar in vano. E si come il mastro di Scuola tien sempre la bacchetta in mano, e non la lascia quasi mai, e con quella hora percuote un scolare, hora un’altro; à questo dà sù le mani, à quello su ’l capo; così rare volte stanno gl’huomini senza queste quotidiane miserie; e [p. 12 modifica]non ti manca mai ciò che manco vorresti.

6. I Ceppi, e le Catene sono le miserie proprie di ciascuno stato, Ciascuno è legato dalla sorte di vivere che piglia: mà uno più stretto dell’altro. Il matrimonio è un strettissimo legame, e veramente ch’è una catena di ferro, anzi di diamante, che niuno è bastante à romperla, fuor che la Morte. Molte volte i maritati non patiscono ne fame, ne sete, ne sono infermi; mà stanno male insieme, e un dice all’altro: non posso viver teco, ne senza te. Legato veramente fù colui che disse: Uxorem duxi Et ideo non possum venire. 4 Io hò pigliato moglie, sono incatenato, e perciò non posso venire.

7. I nodosi Bastoni, ovvero i Scorpioni sono quelle calamità, che sono communi à molti; com’è l’Heresia, la Peste, la Tirannide,la Guerra, gl’Incendi, la Carestia, [p. 13 modifica]l’Inondationi de’ fiumi, e l’oppressione de’ poveri. Senti il lamento dell’Ecclesiaste. Verti me ad alia (disse egli) et vidi calumnias, quae sub sole geruntur, et lacrymas innocentium, et neminem conlatorem: nec posse resistere eorum violentia cunctorum auxilio destitutos. Et laudavi magis mortuos, quam viventes, et feliciorem utroque iudicavi, qui necdum natus est, nec vidit mala quae sub sole fiunt. 5 Mi rivolsi poi all’altre cose, e veddi i torti che si fanno sotto il sole, le lagrime de gl’innocenti, e che non vi è chi li consoli, e che da tutti abandonati non possono resistere alla violenza di chi li opprime. E lodai più i morti, che i vivi, è stimai più felice chi non era ancor nato, ne havea veduto i mali, che si fanno sotto il Sole.

8. Per il mantello intendiamo quelle miserie che da noi stessi ci [p. 14 modifica]procuriamo, come sono le nostre opinioni, ò sospetti, co’ i quali noi stessi ci mettiamo in croce, e miseramente ci affligiamo. E cosa frequentissima il tagliar le proprie vigne, e caricar se stesso de’ mali, ò veri siano, ò finti. Si lamenta Giob contra se stesso, e dice: Factus sum mihimetipsi gravis. 6 Sono fatto grave à me stesso. Et in vero che ciascuno tanto è misero, quanto si crede d’essere.

9. Le Sferze sono le afflittioni che ci vengono dagli altri; come sono quelle che ci vengono dalla lingua; tali sono le calunnie, le villanie, le detrattioni, i rinfacciamenti, e tutte l’ingiurie che si fanno con parole. A questo capo io riduco, quando da qualcuno si nega ad un’altro quello, che sommamente desiderava; ò se gli comanda quello che in niun modo voleva. E le botte di queste Sferze sono tali, che subito fanno alzare la [p. 15 modifica]carne, e ne cavano il sangue. Ma ci consola S. Gregorio mentre dice: Nunc foris per flagella tundimur, ut intus in templum Dei postmodum sine disciplinae percussione reformemur. 7 Siamo adesso percossi con flagelli di fuori, per essere poi riformati di dentro in tempio di Dio senza verun colpo di disciplina.

10. Il Sacco finalmente significa un Cumulo, e un’aggregato di molti mali insieme. Si dimanda tal volta à un ammalato che parte del corpo gli doglia. Tutte, risponde, poich tutto quanto mi doglio da capo à piedi. Di questa maniera molte volte ci tormenta un cumulo de’ mali, il Demonio c’insulta, gl’huomini ci sono contrarij, Iddio non ci consola, stiamo male di corpo, e d’animo, e tutto ciò, che vediamo teniamo, che ci sia contrario. D’un’huomo tale non dirò male, ch’è nel sacco, e fi[p. 16 modifica]no al collo;, e quando verrà la morte il finirà di metter tutto nel sacco, e lo cacciarà di vita. Di ciascuna di queste afflittioni trattaremo più à longo un poco appresso.

Che se Iddio ti desse potestà d’eleggere, e così ti comandasse: Horsù eleggiti tu la croce, che per te giudichi più conveniente: ò d’esser flagellato dalle lingue, ò afflitto dalla povertà, e consumato dalle malatie, ò trafitto dalle malinconie, ò coronato di una corona di strame, e di disprezzo. Chi saria quello, che con David, e con Susanna non dicesse: Angustiae sunt mihi undique, coarctor nimis? 8 Ahi che mi vedo tra l’uscio, e ’l muro, ahi che troppo son ristretto. Sarebbe cosa da non potersi mai risolvere: penso però che alla fine così tù il pregaresti: Signore, se mi volete fare un beneficio da Rè, come voi sete, liberatemi, e fatemi esente da tutte le [p. 17 modifica]molestie, e da tutte le miserie.

O come c’inganniamo di grosso! e come, se stasse à noi turbaressimo tutto quanto l’ordine dell’Universo. Siamo entrati in questo mondo, dove si vive con queste leggi, che siamo sempre apparecchiati à patir ogni cosa. Nasciamo disuguali, mà moriamo uguali; tutto quello, che si frapone fra il giorno del nascere, e quello del morire, egl’è necessario, che passi con molti travagli: E così ti bisogna patir dolori, e sete, e fame, e invecchiarti; e se per sorte ti toccasse à viver qualche poco più di tempo fra gl’huomini, bisogna che alla fine tu t’amali, e perdi qualche cosa, e che alfin tu muoia. E questa è la legge di quei, che vivono.

Note

  1. [p. 39 modifica]Isa. c. 5. v. 28.
  2. [p. 39 modifica]Iob. 12. 4.
  3. [p. 39 modifica]Prov. 14 2.
  4. [p. 39 modifica]Luc. 14.20
  5. [p. 39 modifica]Eccles. 4.1.2,3
  6. [p. 39 modifica]Iob. 7.20.
  7. [p. 39 modifica]S. Greg.
  8. [p. 39 modifica]Dan. c. 13. 22. 2. Reg. c. 24.14.

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§. 2.

È
Cosa occulta, mà del tutto pazza, il persuadersi di passar la vita senza molestia alcuna. V’ingannate ò mortali, v’ingannate à partito; Poiche Per multas tribulationes oportet nos intrare in Regnum Dei. 1 Bisogna che noi entriamo nel regno di Dio per mezzo di molte tribulationi; E come fù detto: Nonne haec oportuit pati Christum, et ita intrare in gloriam suam? 2 Non fù egli necessario, che Christo patisse, e così entrasse nella gloria sua? Per qual cagione vilissimi membri hanno d’haver miglior conditione di quello, ch’ebbe il lor capo? E prima d’ogn’altra cosa si deve sapere, che la strada del Cielo non è molle, e delicata, ne di bei roseti, ò dilettevoli arbori ornata; mà si bene aspra, e sassosa, ne può essere in modo alcuno da tenero, e delicato piè calcata. Certamente che [p. 19 modifica]Dio non è solito à trattar i suoi sì delicatamente. Ma il Vescovo di Bona, la gemma de’ prelati S. Agostino, volendoci quì consolare, dice Flagellat nos Deus in istis laboribus, et erudit nos. Tota ista miseria generis humani, in qua gemit mundus, noveritis fratres, quia dolor medicinalis est non sententia poenalis. Videte, quia dolor ubique, ubique metus, ubique necessitas, ubique labores. 3 Iddio in questi travagli ci flagella, e ci ammaestra: E sappiate fratelli, che tutta questa miseria del genere humano, nella quale sta gemendo il mondo, è un dolore medicinale, e non sentenza penale. Vedete che da per tutto vi è dolore, da per tutto vi è timore, per tutto necessità, e travagli. L’istesso testifica l’Ecclesiaste, dicendo: Cuncti dies eius doloribus et aerumnis pleni sunt. 4 Tutti i giorni dell’huomo sono pieni d’affanni. E [p. 20 modifica]quel Savio discepolo di S. Agostino dice: Qualitercunque ordinavero de pace mea, non potest esse sine bello, et dolore vita mea. 5 In qual si voglia modo che io ordinerò della mia quiete, non può star senza guerra, e dolore la vita mia. E che luogo si può giamai trovar così nascosto, nel quale non entri qualche calamità? Che sorte di Vita si trova così quieta, così ben munita, e elevata che non vi sia sempre qualche dolore che la disturbi? Quocunque te abdideris (dice Seneca) mala humana circumstrepent. Multa extra sunt, quae circumeunt nos, quò aut fallant, aut urgeant, multa intus, qua etiam in media solitudine exestuant. 6 In qualunque luogo tu ti nasconderai, ti si faranno sentire l’humane miserie. Molte cose sono di fuori, che d’ogni intorno ci circondano, ò per ingannarci ò per stringerci. E molte ve [p. 21 modifica]ne sono di dentro, che ancora nel mezo della solitudine ci fanno sudare. Non vi è, nè si trovò mai al mondo cosa veruna senza qualche lamento; si come non me ne dirai alcuna così misera, e travagliata, che in qualch’un’altra più misera di lei non trovi il suo conforto. Questa vita è piena d’affanni, e molestata da varij casi dai quali niuno si ritrova, che ottenga lunga pace, à pena qualche volta vi è un poco di tregua. Non è cosa delicata il vivere. Siamo entrati in una longa strada, è necessario, che spesso sdruccioliamo, molte volte cadiamo, e spesso ci stanchiamo. Per questi travagli habbiamo da fare questo aspro, e duro viaggio. Non vi è luogo alcuno, dove la pace, e l’allegrezza stia sicura. Per tutto si trova qualche cosa che ci disturbi: facciamo pur ciò che vogliamo, perche così si vive in questo mondo. [p. 22 modifica]

Considerate meco, vi prego, l’ordine di tutte le cose. Non si trova nel mondo cosa tanto eccellente, che non habbia sempre à canto il suo contrario. Che cosa è fra gl’huomini di più copioso, e honorato guadagno dell’Agricoltura? E nondimeno un solo mal tempo ne portò via tal volta tutto il frutto, che dalla terra si sperava. Et è verissimo quel detto: Qui observat ventum nunquam seminat, et qui considerat nubes, nunquam metet. 7 Chi osserva il vento, non semina mai, e chi considera le nuvole, non mieterà mai. Che cosa è più bella, e più maravigliosa del Sole? E pure questo hà le sue macchie, viene spesso ricoperto di nuvole, ogni giorno vien seppellito dalla terra, e patisce ancor egli le sue ecclissi, e mancamenti di lume. Che cosa è più necessaria dell’aria, che ci mantiene? E pure in un’anno solo, anzi in un mese, seicento, e mille [p. 23 modifica]volte si muta: poiche hora è humida, hora secca; ora serena, hora torbida; hora sana, hora nociva, hor sottile, e hora grossa, come appunto quella di Beotia. Nobilissimo liquore è il vino, è vero, mà quanta feccia tiene in fondo? à pena il potria bere chi pensasse al Torchio: E poi quanti sono i danni che ogni giorno nascono dal Vino? La Birra, ò la Cervosa, che alla gola dei molti sà una manna, per il più si fà d’acqua immondissima. Al Macello si vende la carne, mà insieme con l’ossa. Gl’Arbori più belli producono ancor loro frutti nani, immaturi, verminosi, di poca durata, e duri. Le Città più vaghe, e belle, non mancano di vilissime casuccie, e ignobili tugurij. I Palazzi più adorni hanno oscurissime ritirate, e nascondigli; e le più artificiose fabbriche non sono sempre esenti da tutti gli incommodi. Ci rivolgiamo forse al Cielo? [p. 24 modifica]à pena vi è un giorno senza nuvole, e dopo un grandissimo sereno segue una gravissima tempesta: Non soffiano sempre i medesimi venti;, e spesse volte dopo i Favoni sereni, e gli Zefiri soavi seguono gl’Austri piovosi, e gl’Aquiloni gelati. Ne si trova oglio senza fondiglia, ne frumento senza gioglio. E quante sporchezze si trovano in un huomo, ancorche bellissimo? E quante volte si cangia il giorno? Veramente che: Nunquam in eodem statu permanet. 8 Non stà mai in un medesimo stato. Mà che altro vai cercando ò huomo? poichè Dio, etiam in Angelis suis reperit pravitatem. 9 Ritrovò macchia ne gl’Angeli suoi. Per tutto vi è qualche Avversario, per tutto vi è qualche nemico. Non vi è cosa, che sia d’ogni parte beata. E poi noi vogliamo ogni giorno buon tempo, e ch’ogni cosa ci passi quietamente, e ci riesca [p. 25 modifica]secondo il nostro desiderio? Questa è sciocchezza di chi s’insogna, e non di chi veglia. Tutte le opere di natura ci richiamano da questo, e ci dicono, che da per tutto vi sta nascosto il suo nemico. E l’istesso si può vedere nelle cose morali.

Note

  1. [p. 47 modifica]Act. 14. 21.
  2. [p. 47 modifica]Luc 24. 26.
  3. [p. 47 modifica]Aug. tom. 8 in Ps. 138. circa med.
  4. [p. 47 modifica]Eccl. c. 2. 23.
  5. [p. 47 modifica]Thom. de Kemp. lib. 3 c. 12 lege tot. cap.
  6. [p. 47 modifica]Sen. ep. 82. init. et consol. Ad Polyb. c. 33.
  7. [p. 47 modifica]Eccl. c. 11. 4.
  8. [p. 47 modifica]Iob. c. 15.2
  9. [p. 47 modifica]Id. cap. 4. 18.

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§. 3.


A
Ppena si trova un libro, che non habbia qualche errore, ò neo, ò dal proprio Autore, ò da chi lo stampa. E dove si trova honore senza qualche peso, e gravezza? E se vi manca gravezza, non vi sarà vero honore. E dove si trova un’adunanza d’huomini in cui non vi sia qualche tristo? E dov’è [p. 26 modifica]un’huomo così santo in cui non vi sia cosa alcuna da poter riprendere? Che pranzo, ò che Cena si trova, che non habbia qualche mescolanza d’aceto? S’io mangio assai, e mi riempio; mi sento aggravato, e vorrei haver mangiato manco. S’io trattengo l’appetito, e mi tempero, già la povera gola patisce. E di questa maniera sta sempre vicina al Carnevale la Quaresima, e alla Pasqua la Settimana santa. Al tempio dell’honore stà attaccato quello della fatica, e da questo si passa in quello; E così ubi uber, ibi tuber: Ubi mel ibi fel. E dov’è il latte, ò ’l miele son ivi ancor le mosche.

Si dice, che una volta litigarono innanzi à Giove il Piacere, e il Dolore, ed essendo ambedue ostinati nelle proprie pretensioni pareva, che nessuno volesse in cosa alcuna ceder all’altro. Quando Giove disse loro: Horsù stà bene, [p. 27 modifica]Io vi metterò talmente d’accordo, che uno non si potrà separar dall’altro. E detto questo li legò insieme con una catena di diamante, e da allora in qua vanno sempre insieme. Perchè dunque ci maravigliamo, che sempre vicine alle rose ci sian le spine? Dovunque tu ti rivolga gl’occhi, troverai sempre il miele mescolato col fiele, ne vi è cosa tanto pura che non abbia qualche feccia. È proprio di tutte quante le cose create d’esser per un certo naturale loro instinto, inclinate al mutarsi, e al finirsi. Come al ferro per la sua natura s’attacca una certa ruggine, che lo consuma; e al Legno và quasi sempre congiunto il tarlo, che continuamente il rode; così gli animali, le Città, e i regni hanno intrinsicamente le cause della loro rovina. Rivogli lo sguardo alle cose superiori, e inferiori, alle grandi, e alle picciole; alle prattiche, e spe[p. 28 modifica]culative, che troverai, che ad ogni tempo muoiono, e ben spesso ancora del tutto, e per sempre si perdono. E si come i fiumi dal lor continuo corso son portati al mare, così tutte le cose humane per questo canale di miserie, per così dire, se ne scorrono al loro fine, ch’è la morte, di cui la pestilentia, le guerre, e le uccisioni sono i ministri, e gl’instrumenti.

Che vuole dunque l’impatienza nostra? vorrebbe forse i trionfi prima della Vittoria, ò pure mettersi à tavola prima d’haver travagliato? Chi saria quello, che sopportasse un schiavo, che ritornando à casa dal campo si lamentasse, che il mangiare non fosse in ordine, e non fosse apparecchiata la tavola? à te huomo dabbene, tocca l’apparecchiare, tù devi portar le vivande in Tavola, così comanda il Padrone. Mettiti dunque all’ordine, e servi prima me, e poi man[p. 29 modifica]gierai, e beverai tu ancora. Vi è un tempo di spargere, e seminare; vi sarà ancora il tempo di raccorre, e quello precede questo. Qui seminant in lachrymis, in exultatione metent. Euntes ibant, et flebant mittentes semina sua; Venientes autem venient cum exultatione portantes manipulos suos. 1 Quei che seminano con lagrime, e con pianto mieteranno con giubilo, e allegrezza; quando andavano à seminare piangevano, mà quando verranno dalla raccolta, verranno tutti allegri portando il frutto delle loro fatiche. A questo proposito dice S. Gio. Chrisostomo. Quemadmodum semina opus habent imbribus, ita nos etiam lachrimis: et quemadmodum terra opus habet ut aretur, et proscindatur, ita anima fidelis pro ligone indiget tentationibus, et afflictionibus, ne producat malas herbas, ut eius molliatur durities, ne [p. 30 modifica]nimium efferatur, et exiliat. Oportet nos prius laborare, et tunc animi remissionem, et otium quaerere. 2 Si come i semi hanno bisogno delle pioggie, così noi delle lagrime; E si come la terra hà bisogno d’esser arata, e lavorata così l’anima fedele in luogo di zappa hà bisogno delle tentationi, e delle afflittioni, per non produrre herbe nocive, e per intenerir la sua durezza, accioche per lo star otiosa troppo non s’inselvatichisca, e sterile ne divenga. Bisogna che noi prima travagliamo, e poi cerchiamo la ricreatione, e il riposo. In questo mondo non habbiamo altro che travagli, e afflittioni, nell’altro il riposo, e la quiete. Tu cerchi d’andar al cielo, e pensi com’hai da dar riposo al corpo? Senti il medesimo Chrisostomo il quale con molta ragione ci rinfaccia la nostra infingardagine in questo modo. Quid dicis, ò homo, quid [p. 31 modifica]agis? Caelum paras ascendere, et Regnum caeli invadere: et interrogas, ne qua tibi difficultas occurrat in itinere, ne quid asperum tibi in via accidat, aut laboriosum, et non erubescis? non pudore oppressus sub terra temetipsum defodis? 3 Che dici huomo, che fai? T’apparecchi per andar al Cielo à conquistare quel Regno, e vai cercando, che non ti occorra difficultà alcuna nel viaggio, e che non ti si attraversi per strada qualche cosa aspra, difficultosa, e malagevole, e non te ne vergogni, e per la gran vergogna non ti metti sotterra?

Fa quello che tu vuoi; che non anderai al Cielo, se non bene ammaccato. Disse il vero quell’huomo religiosissimo del Padre Baldassare Alvarez4; che il Regno dei Cieli è Regno di tentati, e afflitti, di dispreggiati, e di mal conci. E come haverai tù ardire, dicea, timido, e codardo di comparire [p. 32 modifica]frà tanti famosi heroi, e fortissimi Capitani? Dio vuole, che tù sappi, che molto prezioso è quel bene, che andiamo cercando, e per il quale toleriamo tutte queste cose per conseguirlo.

Dovendo li Hebrei passare alla terra di Promissione; mandarono a pregare Sehon Rè di Hefebon per il passo con queste parole: Transibimus per terram tuam, publica gradiemur via: non declinabimus neque ad dexteram, neque ad sinistram. Alimenta pretio vende nobis, ut vescamur; aquam pecunia tribue, et sic bibemus. 5 Noi passaremo per il tuo paese per la strada publica, senza declinare nè alla destra, nè alla sinistra. Ci darai da mangiare co’ nostri dinari. E l’acqua ancora che ne darai per bere, te la pagheremo. Non volse far niente il Rè di questo. Onde fù di bisogno aprirsi la strada per forza. Desideraressi[p. 33 modifica]mo ancora noi di passare al Cielo senza rumori, e senza ostaculo dei nemici; e molti desiderano di non offendere alcuno purche ne anch’essi siano offesi. Ma c’inganniamo. Non ammette il Cielo dentro di se persone tanto effeminate, e paurose, e che solamente vadino con ogni diligenza cercando di non patir niente.

Quello che lodevolmente solevano dir gl’antichi: Nulla dies sine linea: Non passi giorno che non si faccia qualche cosa: Imitiamolo ancora noi, e diciamo: Nulla dies sine nubecula: Non passi giorno alcuno senza alcuna nuvoletta. Cioè non passi giorno che non facciamo qualche prodezza, ò non patiamo con fortezza qualche cosa per amor di Christo. Quoniam per multas tribulationes oportet nos intrare in Regnum Dei: 6 Perche è necessario d’entrar nel Regno di Dio per mezo [p. 34 modifica]di molte tribulationi. Che dico per molte? Per moltissime. Nè in questo mondo vi è quasi cosa, che sia degna di più honorata maraviglia, che un huomo, che sopporta con fortezza li travagli, e risoluto di patire. Et ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis. 7 Et ecco che adesso è tempo accettabile, e à proposito per salvarsi. Il primo profitto che si fà nella Scuola della Patienza è il sapere, che niuno fa profitto alcuno se non col patire moltissime cose.

Note

  1. [p. 56 modifica]Psal. 125. 6.
  2. [p. 56 modifica]Chris. tom. 1 in Ps. 125.
  3. [p. 56 modifica]Id. Chris.
  4. [p. 56 modifica]In Vit. cap. 40 §1.
  5. [p. 56 modifica]Deuteron. cap. 2
  6. [p. 56 modifica]Act. cap 14.21.
  7. 2. Cor. cap. 6.2.