Saggi poetici (Kulmann)/Parte seconda/La storia della valle

Parte seconda - La storia della valle

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LA STORIA DELLA VALLE


Discesa dalla stirpe
     D’Ellade la più antica,
     In Aspledon — la cuna
     Delle Grazie, fioriva
     5Elisa, maraviglia
     Di virtude e bellezza.
     Il mondo mai non vide
     Alma più pura e bella,
     Sublime e in un modesta.
     10Le recavan in dono
     Le arti e le scienze i frutti
     Delle lor lunghe veglie,
     E s’ella con sorriso
     Approvator li accolse,
     15Entravan con fiducia
     L’arduo e sdrucciolevole
     Sentiero della gloria.
Ma più ch’all’alte scienze,
     Della Natura intente
     20Ad indagar gli arcani,
     E più ch’all’arti vaghe,
     D’abbellire capaci
     Con lor magico scettro
     Ogni menomo oggetto;
     25Elisa dedicossi
     A sollevar gli affanni
     De’ miseri mortali.
     Quale Flora al ritorno
     Di lieta primavera
     30Sparge sui morti campi
     Con savia mano a mille
     I variopinti fiori;
     Tale Elisa consola,
     Prospera, aita, e sparge
     35I semi di ventura
     Felicità costante.
Da tanti pregi acceso
     Il glorïoso duce
     De’ Tessali guerrieri
     40Divennele consorte.
     Ma per difesa altrui
     Spesso lasciarla ei deve.
     Di sua assenza dolente
     Elisa abbracciar vuole
     45I genitori suoi.
Quai dolci e care idee
     Le smuovono la mente
     Allor che nella estiva
     Pompa loro rivede
     50Le pittoresche sponde
     Del superbo Cefiso.
     Qual veloce farfalla
     Allo splendor dell’alba
     Vola da fiore a fiore,
     55Non riposando mai;
     Tale Elisa percorre
     Ora i fioriti campi,
     Ora i vezzosi colli,
     Or le armoniose selve,
     60Or rauche cateratte:
     Il cor, che non oblía,
     Subito li ravvisa
     E pargli, che sovra essi
     In magico splendore
     65Sulle ali porporine
     Si librino le grate
     Ombre de’ dì passati.
Gli abitator, sorpresi

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     All’abbagliante pompa
     70D’Elisa e di sua scorta,
     Manifestar non osano
     Il giubilo dell’alma;
     Ma tosto che ne’ sguardi
     Della Reina scorgono
     75Che ’l di lei cor nel lusso
     Di doviziosa corte
     In niun modo cambiò;
     Alla gioja ogni freno
     Sciolgono lieti, e un coro
     80Di giovani donzelle
     Così la voce snoda:

     Te salutiam, Reina!
          Te che ’l nido natio
          E ’l placido Cefiso
          85Bramasti riveder.

     Benchè men chiara splenda
          Nel ciel Venere, donna
          Della stellante torma,
          Che tu sull’alto tron;

     90Pur il tuo cor la patria
          Non obliò lontana:
          E tu, de’ pensier nostri
          Fosti la meta ognor.

     Qual con fiducia appende
          95La rondine vagante
          Della prole la cuna
          Degli Dei alla magion;

     Tale la speme nostra,
          Ed in acerbi tempi
          100Tutte le nostre mire
          Giraro intorno a te.

     Ma come se l’alma Ebe
          Da sua magica coppa
          Subito infuso un nuovo
          105Avesseci vigor:

     Più ratto nelle vene
          Ne corre il lieto sangue,
          E rimiriamo intorno
          Tutto in roseo color.

     110Ti salutiam, Reina!
          Te che ’l nido natio
          E ’l placido Cefiso
          Bramasti riveder.

Così cantò giuliva
     115La giovinetta turba.
I dì le parean ore
     Ai genitori intorno.
Un giorno, allo spuntare
     Del sol, tre leggiadrissime
     120Barchette la Sovrana
     Aspettano sull’onde
     Del superbo Cefiso,
     Acciocchè la conducano
     Lungo le vaghe rive
     125Del Copaico lago,
     Fin a quel luogo dove
     Con orrendo fragore
     Si precipita tutto
     In un immenso abisso.
130Intanto la Reina
     In una barca assisa
     Il Cefiso conduce
     All’entrata del lago.
La Sovrana salutano
     135Qui l’Orcomeno antico,
     Signor delle pianure;
     Là su declive monte
     La nuova Cheronea
     Dall’alte e bianche mura,
     140Leggermente velate
     Da diafani vapori.
     Ed ecco il taciturno
     Mela da canne cinto,
     A cui d’intorno s’ode
     145Dell’usignuolo il canto,

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     Mescer sue limpid’onde
     Coll’abbrunato lago.
     In qualche lontananza
     Sorge graziosamente
     150Il tempio di Minerva
     Fra ridente boschetto
     E sovrastanti sassi
     Che pittoreschi rendono
     Cespugli qua e là sparsi,
     155E ben cento zampilli.
Passato quest’ameno
     Ed attraente sito,
     S’ode già lo tremendo
     Strepito dell’Ercinia
     160Immensa cateratta.
Dell’Elicon canuto
     La bella prole, Ercina,
     Disprezzando del saggio
     Genitore gli avvisi,
     165Si unì del sacro Pindo
     Al torbido nepote,
     L’impetuoso e fiero
     Falarisse, ed or vittima
     Infelice di cieca
     170Ambizione qui viene
     Terminare suo breve:
     E tristissimo corso,
     Slanciandosi nel lago.
     Ella dall’alta ripa
     175Precipita le gialle
     Onde sue, con fragore
     Che rassomiglia al tuono,
     In tre large cascate.
     Elle fra sè divise
     180Son da enormi risalti,
     Cui dier forme bizzarre
     I rosicchianti flutti.
     Niun fior, niun’erba veste
     Quei sassi, ognor bagnati
     185Dalle acque ridondanti;
     Ma ambidue le sponde
     Della total caduta
     Smaltate son dall’alto
     Al basso di fior mille,
     190Frammisti d’arboscelli
     Dalle nerette foglie
     E dai purpurei frutti.
     Formato ch’ha, dall’alto
     Cadendo il rio tre archi
     195Di lucidissimo oro,
     Egli, riunito, piomba
     Sovra marmoreo banco,
     Che in due metà divide
     Quasi eguali l’altezza
     200Della caduta intiera.
     Qui tutte l’onde accolte
     In un medesmo scavo,
     Ripercosse dal sasso,
     Spumeggianti rimbalzano,
     205E, smisurato nappo,
     Con strepito tremendo
     Si affondano nel lago.
Allo stuol navigante
     S’apre innanzi e si stende
     210Vastissima vallea.
     Qui la cuopre di spighe
     Un verdeggiante mare,
     Che sotto al piè de’ venti
     Aureo vapore esala;
     215Là pecorelle sparse
     Pascono l’erba intorno
     A solitarie piante,
     O al suon della zampogna
     Seguono in dense file
     220Il mastin condottiero
     Ad altra prateria.
     Di qua, di là si vede,
     Quale isolotto in mare
     O in arido deserto
     225Un’öasi ridente,
     Altifrondoso bosco
     Con placidissim’ombre.
Appiè d’alte montagne
     Che toccano le nubi,

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     230Pompa fa Coronea,
     Delle feste superba
     Che nel suo giro ogni anno
     Adunano di Cadmo
     La numerosa stirpe.
     235Alla cittade in vetta
     Maestoso risplende
     Il tempio di Minerva,
     Sede diresti argentea,
     D’onde la Dea rimiri
     240Le triennali feste.
Ecco Alalcomene,
     Nè città, nè giardino,
     Ma d’ambidue ridente
     E vaga mescolanza.
245Sorgono a poco a poco
     Pargolette colline
     Sì presso al lago azzurro,
     Che l’onda riflettente
     Qua e là bagna lor piede.
     250De’ colli le pendici
     Dolcissime fan mostra
     Degli abbondanti doni
     Di Cerere benigna,
     Mentre che l’alte cime
     255Vantano quei di Bacco.
In seno a questi colli
     Stendesi vasta vasta
     La grotta delle vaghe
     Copaïche Najadi.
     260Non havvi grotta al mondo
     Che disputarle possa
     Il pregio di bellezza.
     Al limitare innanzi
     Sorge dal trasparente
     265Fondo dell’onde fredde
     Mormorante zampillo
     D’acqua calda e bollente,
     E manna argentea sembra
     Con ricadenti spiche:
     270Ei tutt’intorno sparge
     Soavissimo odore.
     Nell’interno dell’antro
     Le pareti somigliano
     A splendido zaffiro;
     275Sostengono la vôlta
     Bizzarre alte colonne
     Di lucido diamante;
     Germogliano nel suolo
     Cento spontanee piante
     280Ed alberi, ch’invano
     Cercherïansi in altro
     Luogo del vasto mondo;
     Di qua di là coperti
     Stan di musco i sedili,
     285Ove, dai giuochi lasse,
     Cicalando riposano
     Le giovanette Ninfe.
Compiesi la catena
     Delle vaghe colline
     290Da antichissima selva
     Sovra sassosa punta
     Che s’inoltra nel lago.
Varcato appena il bosco,
     In semicerchio scorgesi
     295La vezzosa Ocalea.
     Con uno sguardo solo
     Scopri le lunghe ed ampie
     Sue vaghissime strade
     L’una sull’altra alzarsi.
     300Le signoreggia tutte
     In cima al monte l’alta
     Acropoli vetusta,
     Che fra le nubi ascondesi.
Con remi affaticati
     305Ora fendon le barche
     L’onda ritrosa e pigra
     Del lentissimo Lofi.
     Diresti tu quell’onda
     Simile a molle cera,
     310Che dell’azzurro lago
     Galleggiando sull’acque,
     Ostinata parea
     Rifiutarne gli amplessi.

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Ecco, vicina al lido,
     315In tristo e muto campo,
     Tra squallida palude
     Gigantesca colonna
     Giacer mezzo coperta
     Da canne e ruvid’erba.
     320Qui, così vuol la fama,
     L’insaziabile rege
     Della vasta Ocalea
     Nell’ira al minornato
     Fratel tolse la vita,
     325Al furargli quel campo,
     Povero patrimonio
     Che gli assegnaron gli avi.
     Trucidato il fratello,
     E bruciata l’antica
     330Modestissima stanza,
     Ei, monumento eterno
     Di sua vittoria eresse
     Quell’orgoglioso marmo.
     Ma Giove, d’ogni ingiuria
     335Vendicator tremendo,
     Abbattè fulminando
     Pria l’orrido trofeo,
     Poi l’esecrabil mostro,
     Di sua già glorïosa
     340Stirpe ultimo rampollo,
     E subito fe’ cenno
     Ai sotterranei fonti
     D’alzarsi immantinente,
     Ed inondando il campo
     345Cangiarlo in insalubre
     E sterile palude.
Sta il sole nel meriggio.
     Ecco città novella,
     Grandïosa ed immensa,
     350La ridente Alïarte
     Sorger sull’otto sponde
     Del limpido Permesso.
     Nato sull’alta cima
     Del nevoso Elicona,
     355Ei con innocuo corso
     Or dell’agricoltore
     L’auree messi traversa
     Or del pastore allegro
     I risonanti prati;
     360Qui di barchette e navi
     Numerose coperto,
     Ei, fra marmoree sponde
     Di bei palagi adorne,
     Maestoso trascorre
     365Della Tebe Cadméa
     La crescente rivale.
Qual dolce zeffiretto
     Con odoranti penne
     I naviganti alletta?
     370Tutta l’aria diresti
     In ambrosia cambiata!
In piccola distanza
     Della cittade sorge
     Isolata collina.
     375Da tre lati ella è cinta
     Da vezzoso mirteto,
     Sol libera è la vista
     Verso l’azzurro lago.
     Dall’alto al basso il poggio
     380Vasto piano ti sembra
     De’ più leggiadri fiori:
     In cima a quel si vede
     Di biancheggiante marmo
     La tomba d’Euriclea.
     385Dall’età fanciullesca
     Sacerdotessa a Vesta,
     Ella la breve vita
     Tutta spese benefica
     In atti di pietà.
     390La vedova affannosa,
     La timid’orfanella,
     Le furo madre e suora,
     Le furono fratelli
     I miseri che s’ebbero
     395Nemica ognor la sorte.
     Discesa dalla stirpe
     Regia di Cadmo e erede

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     D’innumeri tesori,
     Ella mai non conobbe
     400Diporti ovver riposo.
     Con generosa mano
     Ogni terrestre pena
     E dolore alleviando,
     La sua purissim’alma
     405Co’ Dei viveva in cielo.
     A sua tomba d’intorno
     Incessante risuona
     L’armonïoso canto
     D’imperturbati augelli,
     410E ne’ giorni festivi
     La strepitosa gioja
     D’innumeri fanciulli
     Della città vicina.
Volgesi di repente
     415De’ naviganti il guardo
     Inverso il lato manco.
     Là, solitaria sorge
     In mezzo all’onde, vasta
     Meravigliosa roccia,
     420Tutta intorno vestita
     Da ricchissimo ammanto
     Di verdissimo musco.
     Ne’ dì lunghi di state,
     Allor che regna pace
     425Nell’imperio de’ venti,
     Numerosi delfini,
     Molti augelli presaghi
     Dell’orrende tempeste,
     Abitan questa mole,
     430A cui piedi l’audace
     Alcion confida all’onde
     Innocenti la cuna
     De’ mezzonudi figli.
Sul pittoresco lido
     435D’un vastissimo golfo
     Risplende Oncheste sacro:
     Riflette il puro speglio
     Dell’onde limpidette
     Di Nettuno l’antico
     440Tempio e sacrato bosco.
     E del golfo nel fondo
     Alzasi Medeone
     Cinto di bianche mura,
     E signoreggia cinque
     445Amenissime valli.
Antica fama vuole,
     Ch’ivi in leggiadra villa,
     Che già Cadmo fondava,
     Coi bellicosi amici
     450Stette ne’ mesi estivi,
     Scorrendo le foreste
     Inospitali, a struggere
     Crudelissime fiere
     Ch’ivi tenean la sede.
     455Ma tosto i tralignati
     Successori leziosi
     Abbandonâr l’avito
     Soggiorno agreste, e tosto
     Col lungo volger d’anni
     460Tutto cadde in rovine.
     Ma che mai non abbella
     L’inesausta Natura?
     In mezzo all’aure stanze
     Della crollata villa,
     465Figli di polve e fango,
     Ecco platani alzare
     L’ombrifere lor teste
     Sull’antiche pareti,
     Cui tutte le aperture
     470Tenace edera cinge;
     Qual lunghissimo serpe
     Dalla variata pelle,
     Musco da vive tinte
     Empie le molte e lunghe
     475Crepature del muro.
     Signora del castello
     Rovinato e deserto
     Sembra la passeggiera
     Gru romita, che l’ampio
     480Suo nido vi nascose,
     E con crudo governo

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     Signoreggia le vaste
     Circondanti paludi,
     Ch’abita l’innocente
     485Altogracchiante rana.
Spaventevoli echeggiano
     Qui l’onde rinascenti
     Del lago oltre que’ monti,
     Cui dal rapito amico
     490Ercole diè nome Ila.
     Esse del lungo giro
     Nel cavernoso seno
     Di monti alpestri stanche,
     Qui spalancan le porte
     495Del notturno lor chiostro
     Con orrido fragore,
     E ricercan bramose
     L’alma luce del giorno
     Da spelonche spaziose,
     500Che di Natura apriva
     La man possente, sgorgano
     Impetüose, e orrore
     Alle pacifiche acque
     Inspirano del lago,
     505Sì che raccapricciante
     Fuggon lontan lontano.
Qui le barche leggiadre
     Abbandonâr la spiaggia
     Meridional del lago.
     510Pïetoso lo stuolo
     De’ naviganti inchinasi
     Innanzi al sommo Giove,
     Che l’alte cime alberga
     Del nebuloso Ipato;
     515Poi parte delle vele
     Spiega al vento che levasi
     E increspa l’onde chete
     Accelerando il corso
     Per arrivare al capo
     520Consacrato ad Apollo,
     Pria che l’oscura, all’uomo
     Nemica notte cada,
     E si stenda sul lago.
«Là negli antichi tempi
     525(Così ’l canuto nauta
     A raccontare prese
     All’alta Passeggiera,
     Le mostrando uno stagno)
     La dimora sorgeva
     530D’incantator malvagio,
     Mole vasta e superba
     Che ammalïava gli occhi.
     Tosto ch’uno straniero
     Entrava nel dominio
     535Dello stregon crudele,
     Trasformato venia
     In rabbïoso lupo,
     O in feroce cinghiale
     Od in orribile orso.
     540Un dì, del luogo ignara,
     Un’orfanella entrovvi.
     L’incantator fallace,
     In forma di fanciullo,
     Subito fessi innanzi
     545A lei, e la condusse
     Alla vezzosa casa,
     Che splende al par del sole.
     L’orfanella tremante
     E sbigottita segue
     550Il condottier fanciullo.
     Ed ei, per via, cangiato
     In gigante, sogghigna,
     E dietro a sè strascina
     La giovin grata preda.
     555Ella subito gli occhi
     Alza al cielo propizio,
     E ad alta voce esclama:
     «Venite al mio soccorso,
     Onnipossenti Numi,
     560E me dall’empie mani
     Del rapitor salvate!»
     Ecco, la terra intorno
     Orribilmente trema,
     E l’orfanella, in forma
     565Di candida colomba,

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     Sen vola all’alte cime
     Del non lontano Ipato,
     Dove de’ Numi il padre
     E de’ mortali alberga;
     570Mentre dell’empio mago
     Lo splendente palazzo
     È dal suolo inghiottito,
     E tutto il suo dominio
     Si cangia in uno stagno
     575Ch’ha l’onde e sozze e nere,
     Che fuggon paurosi
     E gli uomini e le fiere.»
     Così ’l piloto disse....
O luogo di bellezza
     580Che non può degnamente
     La parola laudare,
     E che improvviso allegra
     L’occhio che ’l guarda e ammira!
     Si mostrano vicine
     585Alla riva del lago,
     Che infauste roccie asconde,
     Due isole d’altissimi
     Platani coronate,
     La cui fresc’ombra e grata
     590Invita i naviganti
     Da cocente calore
     Del sole stanchi, a scerre
     L’ampissimo passaggio
     Che fra di loro ameno
     595Ed ospitale si apre.
     Varcato ch’han l’ingresso,
     Eccoli ’n mezzo ad otto
     Isolette vezzose,
     Che, quale smisurata
     600Grotta ombrosa, rinchiusi
     Tengonli tutto intorno:
     Chè a prima vista invano
     Cerchi uscita qualcuna
     Da quel chiuso ricinto,
     605Che par che non s’unisce
     In verun modo al lago.
     Ma dell’error piacevole
     Tosto disingannati,
     Essi rientrano lieti
     610Dall’agguato nel lago,
     Per una delle tante,
     Benchè torte, sicure
     Uscite, che separano
     Ogn’isola dall’altre
     615Che le giaccion vicine.
Ecco una valle angusta,
     Ma vaga e in un pomposa,
     Che dolcemente china
     Fra discoscese mura
     620D’alte montagne giace.
     Rimangon le vestigia,
     Che ne’ trascorsi secoli
     Ivi in ristretta cuna
     Scorresse un fiume rapido,
     625Figlio di nevi alpine.
     Ma coll’andar del tempo
     Che tutto cangia, il fiume
     Sparì, l’abbandonato
     Da lui sabbioso letto
     630Si coprì con ammanto
     Ricchissimo di fiori
     Aurati e porporini,
     Che leggiadro contrasta
     Con l’erba sempre verde
     635Onde coperti miri
     Da capo a’ piedi i monti
     Che sorgongli d’allato.
     Ma sovra questi innalzansi
     Altri monti, e su quelli
     640Altri più eccelsi ancora
     Che fra le nubi ascondonsi.
     Or mirate quel grande
     Ardimentoso ponte,
     Che d’una all’altra sponda
     645Della valle si slancia!
     Là, dirimpetto l’una
     All’altra, nel principio,
     Si sporgeano due rupi;
     Ma improvviso tremuoto,

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     650Con furore scuotendo
     Montagne e valli, stacca
     Dalle superne cime
     Smisurato macigno.
     Ei con assordatore
     655Scoppio dalle eccelsissime
     Precipitò pendici,
     Ed empie tutto il vuoto
     Delle sporgenti rupi.
     O miri cambiamenti
     660Del tempo onnipossente!
     L’antico ondoso letto
     Di fiume, un dì fremente,
     Ora, secco e di bosco
     Ombroso ricoperto,
     665Di placido covile
     Serve a quelle cervette
     Ch’impavide e briose
     Seguitare vediamo
     La madre che le guida
     670Alla vicina sponda
     Del limpidetto lago,
     Ove, coi piè nell’acqua,
     Acquetano la sete.
O magico novello
     675Fenomeno stupendo!
     Scostandosi dal lido
     Del lago, vieppiù sparso
     Di perigliosi scogli,
     Or a fior d’acqua ed ora
     680Dall’onde infide ascosi,
     I naviganti tosto
     Attorniati si veggono
     Dall’un e l’altro lato
     Da ridenti isolette,
     685Che, non fra lor discoste,
     Appajono quai foci
     Di poderosi fiumi.
     S’inoltrano le barche
     E vedono, stupite,
     690Che quasi ad ogni colpo
     Del remo si discostano
     Quell’isole incantate;
     Celeri retrocedono,
     Finchè velate restano
     695Dai diafani vapori
     Che innalzansi dal lago: .
     Si dileguano agli occhi,
     Qual nuvolette tenui
     Che ’n aria si disfanno.
700Ecco quel diffamato
     Spaventoso recinto,
     Ch’ogni navigatore
     Schiva con sommo orrore!
     Colà, la fama dice,
     705Ne’ primi dì sereni
     Dell’alma primavera,
     In mezzo all’alte canne
     Onde l’isola è cinta,
     Radunansi tremendi
     710I numerosi serpi,
     Abitatori infesti
     Del lago e de’ contorni
     Guai all’incauto nauta
     Che ’l piè ponesse allora
     715In quel lido funesto!
     Un giovin pescatore,
     Ignaro del periglio
     Od oltremodo audace,
     Ne’ dì che ’l sol si ferma,
     720Approdavi coll’alba,
     Ed attaccato ch’ebbe
     Ad un tenace giunco
     La sua frale barchetta,
     Osa varcar l’infido
     725Paludoso recinto.
     Ma chi dire potrebbe
     Lo gelido spavento
     Ond’assalito viene
     AI rimirar migliaja
     730Di pelli variopinte,
     Fra di loro diverse
     Di forma e di colori,
     E ’n mezzo a loro alzarsi,

[p. 171 modifica]

     Qual mobile colonna,
     735Un angue smisurato,
     Custode delle spoglie.
     Tornò, tra vivo e morto,
     Alla barca correndo
     L’avventurier tremante,
     740E non osando indietro
     Volgere solo il guardo,
     Rivenne al patrio tetto.
Deh! mirate quegli alti
     Due monti, verno e state
     745Da scintillanti bende
     Di neve coronati,
     E ’n mezzo a loro un colle
     Di brillante verdura!
Qui si vede Agrafia,
     750Città novella e posta
     Sovr’eminente poggio,
     Appiè del qual si stende
     Foltissimo querceto.
     La città s’assomiglia
     755A veloce vascello
     Colle spiegate vele,
     Che rischiarato ancora
     Viene dal sol cadente,
     Mentre già l’atra notte
     760Stende l’ali sul mare.
Ecco due promontorj
     (Fine o principio d’aspra
     Catena di montagne)
     Sporger sublimi in fuori
     765Dal rïentrante lido,
     E discendendo a grado
     Ingolfarsi nell’onde.
     Ei formano profonda
     E dilettosa baja,
     770Ch’ognor solcata viene
     Da numerosi cigni.
     Altri vedi che vagano
     In disegnando cento
     Vezzosi andirivieni!
     775Altri con amorosa
     Pazïenza ammaestrano
     La tenerella prole;
     Altri, all’incerta fede
     Fidandosi dell’onde,
     780Col capo sotto l’ale
     Non curanti e tranquilli
     S’abbandonano al sonno,
     Mentre solo soletto,
     Qual vigilante guardia,
     785Sulla spiaggia renosa
     Immoto sta in un piede
     Il vago fenicoptero
     Dalle purpuree penne,
     E dalla variegata
     790Grazïosa cervice.
«Distingue l’occhio tuo,»
     Così disse il piloto
     Alla lieta Regina,
     «Quel gruppo d’isolette,
     795Ch’ora il sole, al ponente
     Chinandosi, rischiara
     Per mezzo de’ leggieri
     Vapor, che ’l lago esala?
     Direbbersi tre cigni
     800Dalle candide penne,
     Tre Veneri leggiadre
     Sorte dal sen dell’onde!
     Oscura fama dice,
     Che nel principio fossero
     805Nudi e ruvidi scogli.
     Cui la spietata morte
     Rapì nel fior degli anni
     L’unica di lei figlia,
     La generosa quanto
     810Leggiadra Cariclea;
     Lasciata l’ampia Tebe,
     E per dimora scelti
     Que’ solitarj scogli.
     Stentò con istupenda
     815Magnificenza ed arte
     A fabbricarvi un vago
     Ricchissimo palagio

[p. 172 modifica]

     In mezzo a bei giardini,
     Ascendenti in terrazzi
     820E abbondanti di fiori,
     D’augelli e d’ogni oggetto,
     Ch’altre volte faceano
     L’impiego, le delizie
     Della perduta prole,
     825La cui tomba tu vedi
     Quasi vision celeste
     In sulla vetta starsi
     Dell’isola maggiore,
     Ch’ha nome Isola bella.
     830Un’altra vien chiamata
     Isola madre. Approdano
     Nella bella stagione,
     All’ore meridiane,
     Alla terza talora,
     835Ch’è la minor di tutte,
     I pescator, con gaja
     Cantilena pagando
     D’ospitalità i doni,
     Onde la chiaman Isola
     840De’ Pescatori i providi
     Cultori, che seguendo
     De’ buoi ’l lento passo;
     Rompono coll’aratro
     Le negre e dure zolle
     845Della ferace sponda
     Opposita del lago.»
     Là, sull’eccelsa vetta
     Di solitario monte,
     Donde l’intero lago
     850E le sue vicinanze
     L’occhio ad un punto scorge,
     Appajon due castelli
     A mezzo rovinati.
     Anticamente quivi
     855Signoreggiava un Sire,
     Ch’era de’ suoi vassalli
     Dispietato tiranno:
     Egli Atteon nomavasi.
     Preferiva il crudele
     860Ai sudditi le fiere,
     Con cui nelle foreste
     Stavasi state e verno.
     Il villanel non osi
     Dal suo campo fugare
     865Il cervo, che divora
     La già matura messe.
     Un dì l’ultimo figlio
     E ’l solo ancor vivente
     Di vedova attempata,
     870Oltrepassar vedendo
     Uno stuolo di cervi
     La siepe dell’avito
     Camperello meschino,
     L’ira frenar non puote,
     875E della torma il duce
     Incontanente uccide.
     Ma sul confin del campo
     Inopinato appare
     Il dispietato Sire.
     880Con ira rattenuta
     Il corridor ritroso
     Forte spronando, ei ’l forza
     A saltare la siepe
     E calpestar la messe
     885Che già la falce aspetta.
     Raggiunto l’uccisore
     Impallidito e immoto,
     Nel molle cor gli pianta
     L’acuta ferrea lancia.
     890Vede la genitrice
     Cader l’amata prole,
     E nel suo duolo esclama:
     «Potessero te, o mostro
     Smembrare i proprj cani!»
     895Immantinente il cielo
     Compì ’l materno voto.
     È trasformato l’empio
     In un cervo, tremante
     E pavido sen fugge
     900Alla vicina selva;
     L’inseguono latrando

[p. 173 modifica]

     I furibondi veltri;
     In breve dalla selva
     Risuonano le strida
     905E i gemiti del mostro,
     Che da suoi cani istessi
     Dilacerato viene.»
Qual rovesciata barca,
     Che dal lido lontana
     910Lanciò, qual lieve paglia,
     Furiosa burrasca, —
     Ecco sul lago alzarsi
     Un leggiadro salceto,
     Cui i pieghevoli rami
     915Si ricurvan foltissimi
     A tuffarsi nell’onde,
     Quella vaga isoletta
     Se credi agli occhi tuoi,
     Galleggia, ed a seconda
     920Dell’onde vien portata!
     Ella ne’ dì dell’ignea
     Canicola difende
     Numerosi conigli,
     Che, su leggiere scorze
     925Di betula imbarcati,
     Vi approdano sicuri,
     Lieta e vezzosa flotta,
     Che l’amorosa lena
     De’ pïetosi zeffiri
     930Scherzevolmente spinge.
Ora che già s’inchina
     Il sole ver l’occaso,
     Ecco l’imperïale
     Aquila dalle piume
     935Dorate attraversare
     Da banda a banda il lago.
     Essa ne’ campi azzurri
     Del cielo vola tanto
     In su per le serene
     940Nubi disperse, quanto
     Sono esse in su dell’onde
     Pacifiche del lago,
     Che nel chiaro suo seno
     Ne riflette le forme.
     945L’augel dominatore,
     Poi ch’ha compito il suo
     Volo proteggitore
     Dell’aligero stuolo,
     Ritorna del gran Giove
     950Alle sublimi stanze,
     Che sulla sacra cima
     Sorgono dell’Ipato
     Dal selvoso pendio
     Sempre di nebbia cinto.
     955Ecco il canoro stuolo
     Intonar di concerto
     Un inno pien d’amore,
     Mentre, quale un araldo
     Dall’assemblea spedito
     960La lodola sonora
     S’alza sin alle nubi
     Per salutar l’amato
     Sovrano al suo passaggio.
Salute, veneranda
     965Antica Erculea sede!
     Mirate quella roccia,
     Che in mezzo all’onde sorge!
     Là, ne’ secoli andati
     Onde sol tenue fama
     970Fra i viventi rimane,
     Spesso veniva Alcide,
     Al tramontar del sole
     L’atre selve lasciando,
     Ch’allora tutto il lido
     975Copaïco ingombravano,
     Per ristorarsi alquanto
     Dopo l’atroci zuffe
     Contro l’orride fiere
     Onde purgò il paese.
     980Ei, respirando l’aura
     Soave della sera,
     La destra ancor grondante
     Di sangue in l’onda pura
     Immergeva, e alla rupe,
     985L’alta, clava appoggiava;

[p. 174 modifica]

     Che, coll’andar degli anni
     Cangiata in sasso, ancora
     Ai dì nostri vediamo
     Sulla rocca giacente.
990Or nella lontananza
     Splendon le verdi cime
     Del gigantesco Ptoo,
     E dietro a loro assai,
     Le culminanti punte
     995Dell’azzurro Messapo,
     Che terrazzo sublime
     Pajono ovver scalee,
     Che gli Dei si formaro,
     Allor quando dall’etra
     1000Discendono benigni
     A visitar la terra
     O che trascorso l’orbe,
     Tornano alle dorate
     Olimpiche lor sale.
1005Nel lago, alla distanza
     Che rapido nell’aria
     Percorrerian tre frecce
     Da possent’arco spinte,
     Il navigante stuolo
     1010Scorge un’isola ovale,
     Tutta da banda a banda
     Ricoperta di svelte
     E altissime colonne,
     L’una dell’altra accanto
     1015Senz’intervallo poste.
     Sol al ponente appare
     Aperto un largo varco,
     Ingresso pittoresco
     Di misteriosa grotta.
     1020Intorno a lei, nell’ora
     Del tramonto del sole,
     S’affollano del lago
     Le tumid’onde, allora
     Da subitanea nebbia,
     1025Quasi da roseo velo,
     Coperte intorno intorno.
     Esse così trasportano
     Loro Signore, il Genio
     Del lago, in misteriosa
     1030Barca da niun veduta,
     Alla sua solitaria
     Magnifica dimora.
     Ei là, su molle strato
     D’odorifero museo,
     1035Passa l’estive notti;
     Ma subito che ’l cielo
     A imbiancarsi comincia,
     Ei nel veloce schifo,
     Tra la sorgente nebbia,
     1040Di bel nuovo ritorna
     Alla lontana grotta
     Delle Naiadi, allegre
     Abitanti del lago,
     Con cui fra i risi e scherzi
     1045Stassi fin alla sera.
Passato un promontorio
     Da tre quercie adombrato,
     Ond’egli tiene ’l nome
     Di Punta delle quercie,
     1050Scuopresi incontanente,
     In mezzo alla pianura,
     Un dilettoso colle.
     Scendono dalle dolci
     Floride sue pendici
     1055Con grato mormorio
     Numerose sorgenti,
     Che serpeggianti corrono
     Dalla vallea al lago.
     In cima al lieto colle
     1060Sorge di Febo il tempio
     Cui l’origin si perde
     Nella notte de’ tempi.
     Ei, dice antica fama,
     Fu costrutto nell’era
     1065Di Deucalione e Pirra,
     Ed opera è stupenda
     Delle Ciclopee mani.
     Essi lo fabbricaro
     Con smisurati sassi

[p. 175 modifica]

     1070Senza cemento alcuno.
     Ei ride degli uniti
     Sforzi distruggitori
     Degli elementi ed anni.
     Qui le vezzose barche
     1075Giungon la spiaggia lieta,
     Il giugnere temendo
     Della veloce notte.
Sulle cerulee vette
     Del delfico Parnasso,
     1080Siede Sovran del mondo
     Il vespertino sole
     In manto di diamante.
     A’ suoi piedi si stende
     Sull’onde chete chete
     1085Del silenzioso lago
     Ricchissimo tappeto
     Di topazi tessuto
     E di cangianti opale.
Sul lido aquilonare
     1090Del lago, or rischiarate
     Dai moribondi rai
     Momentanei dell’astro,
     Di Copa a Febo cara,
     D’Etta e d’Almon le mura
     1095Brillano quali immensi
     Rottami di ters’auro;
     Ed il sassoso monte,
     Che dietro a loro sorge
     Fra verdeggianti colli,
     1100Sembra celeste muro
     Che crollando rimase
     Sospeso sulle cime
     D’un incantato bosco.
Ma apparve e poi spario
     1105L’incantatrice scena:
     Già l’Alba vespertina
     Campi e colli ricopre
     Con rugiadoso velo.
     Già sulle cime Eubee
     1110La mesta Notte appare,
     Nelle braccia tenendo
     La minornata prole:
     Poco fa, la diletta
     Figlia brillava ancora
     1115Di tutto lo splendore
     Di gioventù fiorita,
     De’bmortali fissando
     L’ammiratore sguardo;
     Ora di giorno in giorno
     1120Ella visibilmente
     Diviene meno e meno,
     Già le sta l’atra Morte
     Minacciosa alle spalle.
Odesi nel silenzio
     1125Della serena notte,
     Quale lontano tuono,
     Qui l’incessante e sordo
     Scoppio del vasto lago,
     Cui l’onde, riserrandosi,
     1130Piombano in un profondo
     Abisso spaventoso,
     Ch’uom misurar non puote.
Spettacolo imponente!
     Nel ciel sereno e sparso
     1135Sol qua e là d’alcune
     Diafane nuvolette,
     Scoppian di quando in quando
     Chiarissimi baleni
     Non seguiti da tuono.
     1140Essi di repentina
     Abbarbagliante luce
     Tutto da banda a banda
     Rischiarano l’oriente,
     E delle stanze Olimpiche
     1145Spalancando le porte,
     Ne svelano talmente
     La più remota parte,
     Che l’occhio de’ mortali
     Con paurosa gioja
     1150Spera ad ogni momento
     Mirar sull’alto soglio
     Lo stesso eterno Giove.
Lo stridulo susurro

[p. 176 modifica]

     D’innumere cicale
     1155E ’l melodioso canto
     Dell’usignuol romito
     Addormentar bentosto
     La giovine Sovrana,
     E ridenti e leggiadri
     1160Placidissimi sogni
     Abbellir suo dormire
     Sulla terra natia.
Ma quando il dì nascente
     Discolorò la luna,
     1165E in roseo cielo apparve
     L’alba coll’auree dita,
     Un armonioso coro
     Di lodole dagli occhi
     Della Sovrana scaccia
     1170Le immagini notturne,
     E sull’avito suolo
     La saluta con giubilo.
La Regina risolve,
     Costeggïando il lago,
     1175Andarne coi seguaci
     Colà dove quell’onde
     Dispariscon cadendo
     In uno smisurato
     Baratro senza fondo.
1180Benchè profondamente
     Dorman nell’aure i venti,
     Crede l’attento sguardo
     Vedere, ovver s’avvede,
     Che dell’immoto lago
     1185L’acqua la più vicina
     Al lido, a poco a poco
     A muoversi cominci.
     A picciola distanza,
     Ma quasi suo malgrado,
     1190Cambia l’usata sede;
     Un poco più lontano,
     Forma già neghittosa
     E languida corrente;
     Pochi momenti dopo,
     1195Eccola trasformata
     In placido ruscello,
     Da mormorante rio
     In rapido torrente,
     In fiume strepitoso,
     1200Che ’l suo letto bentosto
     Visibilmente allarga,
     E le fiumane imita
     Di gigantesco aspetto,
     Che dell’Oceano immenso
     1205Sono alimentatori,
     O creator superbi
     Si vantano di qualche
     Mediterraneo mare.
A gran distanza ancora
     1210Dall’orrendo baratro,
     Sorge dal sen dell’acque
     Triplicata catena
     Di scogli nudi e negri,
     Qual providi custodi,
     1215Un ultimo soccorso
     A porgere disposti
     A temerarie navi
     O del periglio ignare,
     Ch’avventurate siensi
     1220A quel punto fatale!
     Corron tra loro a gara
     Le rapid’onde a torme
     A lor perdita omai;
     Chè, chinandosi a un tratto
     1225Il letto qui del fiume,
     Il corso lor, la forza
     Ed il tumulto aumenta.
Non lungi al nero abisso,
     Nel canal già ristretto
     1230Del lago, cui le sponde
     S’avvicinano, un alto
     Aguzzo scoglio giace,
     E par crollata parte
     Non picciola d’un monte,
     1235O piramide eccelsa
     Che rovesciò tremuoto.
     Egli l’onde separa,

[p. 177 modifica]

     Lasciandone una parte
     Alla caduta andarne,
     1240E discostando l’altra
     In modo di salvarla,
     Come il vuole e il desia
     Il faretrato Febo.
In secoli rimoti
     1245Il Copaïco lago,
     Da liquefatte nevi
     Ed incessanti pioggie
     Oltra misura gonfio,
     Nello spazio di breve
     1250Notte estiva talmente
     Straripò, che le molte
     Città vicine o vennero
     Inondate e sommerse,
     O sovra i flutti appena
     1255Ne appariano le cime.
     Già temerarie l’onde
     S’innalzando batteano
     I fondamenti eccelsi
     Del delubro di Febo,
     1260Quando l’irato Nume
     Dalla sua stanza uscito,
     Gli occhi qual foco ardenti
     Girò tutt’all’intorno,
     E la cara non vide
     1265Copa che diede ’l nome
     «Al lago, nè Cirtona;
     E della ricca Almona
     Sol vide gli aurei tetti:
     Le cime della selva
     1270Prossima e sovrastante
     Ad Etta nella valle,
     La cittade sommersa,
     Sembravano un nascente
     E galleggiante bosco.
1275Apollo immantinente
     Scocca dall’arco argenteo
     Uno stral che nell’aria
     Orribilmente stride,
     All’orgoglioso monte
     1280Che presso a Copa sorge.
     Toccato è appena il monte
     Dallo strale divino,
     Che gran parte ne crolla
     E s’ingolfa in abisso
     1285Che, nello stesso istante,
     Atro, tremendo, immenso
     S’apre al di sotto e abbassasi
     Quasi scosso dal grave
     Tridente di Nettuno.
1290Si precipitan l’acque
     Con orrendo fragore
     Nell’avido baratro.
     In quel mentre il nascente
     Sole appar sulle vette
     1295Dell’azzurro Messapo,
     Ed attonito vede
     Il perforato monte,
     Colla vaga sua luce
     Indorando del fesso
     1300Lo spaventevol orlo.
     Ma scocca Febo un altro
     Strale e distacca un’altra
     Parte della montagna,
     Che crollando compone.
     1305Volta così formata,
     Che par che dalla mano
     Dell’arte sia costrutta.
     Ma la rupe staccata,
     Cadendo in mezzo all’onde,
     1310Un argine vi forma
     Che, dividendo l’acque,
     Una parte abbandona
     Al tenebroso golfo;
     L’altra; passato il ponte
     1315(Chè tal appare, il monte
     Da ch’egli è perforato),
     In tre fiumi divisa,
     Percorre, fecondandola,
     Arenosa vallea,
     1320Che dall’aperto monte
     Fino al mar si stendea.

[p. 178 modifica]

     Così gli Dei benigni
     Trasformano sovente
     Momentanea sventura
     1325In infinito bene.
La Sovrana stupita
     Non può ritrar lo sguardo
     Dall’imponente vista;
     Allora ch’un novello
     1330Spettacolo l’attrae.
Un giovine pastore,
     In sul bel ponte assiso,
     Allegramente suona
     Un’aria boscareccia,
     1335Che le rupi vicine
     Ripetono tre volte
     Con illusion sì fatta,
     Che crederesti ch’altri
     Tre pastorelli, posti
     1340A gran distanza, accordansi
     Fra loro per sorprendere
     Piacevolmente il primo.
     Si vedono frattanto
     Pecorelle, all’intorno
     1345Del pastorello erranti,
     Pascersi d’erba molle,
     E temerarie capre,
     S’inoltrando sull’orlo
     Delle roccie salienti,
     1350Con allungate labbra
     Strappare il tenerello
     Fogliame d’arboscelli,
     Nati in seno de’ sassi.
     «Non lungi dalle foci
     1355De’ tre fiumi (disse uno
     De’ seguaci alla Reina)
     Un’isola si mira,
     Che per estraneo giuoco
     Dell’ascosa natura,
     1360Allo spuntar del sole
     Immergesi ne’ flutti,
     E allor che l’astro siede
     Radioso nel meriggio,
     Alzasi di bel nuovo
     1365Dall’alto sen del mare.»
Si risveglia nel core
     Della Reina la brama
     D’andar con i seguaci
     A rimirar sì strano
     1370Fenomeno da presso:
     E veloce barchetta
     Di pescatori esperti,
     Superbi della scelta,
     In poche ore trasportali
     1375Al luogo della scena.
Veduto ch’ebbe questo
     Spettacolo stupendo,
     E presso ad Antedone
     Passato, che suo nome
     1380Ha dalle mura antiche,
     Talmente rivestite
     Di varie edere e viti
     Presso che sempre in fiore,
     Che le diresti un muro
     1385Di fiori e di verzura;
     La giovine Sovrana
     Con piacere traversa
     Del Messapo la valle
     Ricchissima d’augelli
     1390Di cascatelle e d’ombra.
     Varca ella fra due fonti,
     De’ quali l’occhio indarno
     Stenta a vederne l’onde,
     Ch’or strepitose or dolci
     1395All’orecchie risuonano:
     Tale è la densa volta
     D’intrecciati cespugli,
     Che vela il lor ramingo
     E misterioso corso.
1400Con animo di gioja
     E meraviglia pieno
     La Sovrana pervenne
     Al fine della valle,
     Celebre per le tante
     1405Chiare e fresche sorgenti,

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     Pel lusso de’ suoi fiori,
     Per l’ombre deliziose
     E per gl’inaspettati
     Vaghi punti di vista:
     1410Quando subito vede
     Non lungi dalla valle
     Gran numero di gente,
     Che per mirarla accorse,
     Mal ascosa tenersi
     1415Fra rare basse piante
     E moribondi arbusti
     Quasi di foglie privi.
     «Ditemi, che mai teme
     Quell’adunata folla
     1420Dalla presenza mia?»
     Domanda la Sovrana,
     Volgendosi ai seguaci. —
     Altissimo silenzio.
Uomo, nel quale Elisa
     1425Ha sua fiducia intiera
     E che n’è degno, a lei
     Rispettoso ne viene.
     Sulla fronte, negli occhi
     Pronto spirto gli splende,
     1430Giustizia e compassione.
     Padre lo chiama il vecchio
     Sostenuto da grucce,
     L’orfano senza tetto
     E la dal mondo intero
     1435Vedova abbandonata.
     Alla Sovrana ei disse:
     «Tu felici rendesti
     Colla presenza tua
     Dell’avito dominio
     1440Tutti gli abitatori;
     Segui del generoso
     Tuo core il movimento,
     E visita per pochi
     Momenti quella valle,
     1445Che in se gran parte acchiude
     Delle miserie umane!»
A questi detti Elisa,
     Accelerando i passi,
     Se ne andò silenziosa
     1450Ver l’infelice valle.
Oh scena miseranda!
     Nella state null’ombra
     Tempra l’ardor del sole!
     Niun prato verdeggiante!
     1455Niun’ondeggiante messe
     Niun fiore bianco o giallo,
     Niun’agile farfalla,
     Niun augellin canoro
     Saluta al suo ritorno
     1460La dolce primavera!
     Qua e là torreggia un pino
     Col lugubre fogliame,
     O qualche sitibondo
     Arbusto d’ombra privo
     1465Nel lacerato suolo:
     Mentre i cocenti raggi
     Del meridiano sole,
     Rifranti dal sassoso
     Monte, che al par di muro
     1470Tutta la valle cinge,
     Ne ricuopron gran parte
     Con nebbia densa e secca,
     «E qual dar posso aita?»
     Domandò la Sovrana,
     1475Mossa di compassione
     Al suo fedel seguace.
L’uom pietoso rispose:
     «Cagion di tal miseria
     Sol è ’l difetto d’acqua.
     1480Se delle cento fonti,
     Che dall’alto Messapo
     Scendendo, forman ampie
     Insalubri lagune,
     Poche adunate in fiume,
     1485Da que’ sassi cadendo
     Innaffiasser la valle,
     Dubbio non v’ha, ch’in breve
     Ella saria rivale
     Delle più belle valli.»

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     1490Quel giorno un gran diamante
     D’alta e rara bellezza
     Sulla testa splendea
     D’Elisa, cattivando
     De’ spettatori ’l guardo;
     1495Ma da quel giorno innanzi
     Nessun mai più nol vide.
Ma fe’ appena ritorno
     La terza primavera,
     Ecco nell’intervallo,
     1500Che la valle separa
     Dal gran monte Messapo,
     Un acquedotto alzarsi
     Non marmoreo e fastoso,
     Ma saldissimo e tale,
     1505Che del tempo vorace
     Gli sforzi egli non teme.
     Del Messapo sul fianco
     Sei limpide, perenni
     E copiose sorgenti,
     1510In un sol rivo giunte,
     Con dolce mormorio
     E rapide qual vento,
     Fiume etereo, traversano
     Quel vaghissimo ponte,
     1515Che tre file sostengono
     D’ampissimi pilastri;
     Appena giunte in vetta
     Al trarupato monte
     Ond’è cinta la valle,
     1520Con fragore che sembra
     Allontanato tuono,
     Esse, maestose, piombano,
     Immensa cateratta,
     Nella già miseranda
     1525Or bellissima valle,
     Che statti innanzi agli occhi.
     Tu, viaggiator, dirai,
     Se son vere le nostre
     Tradizïoni antiche,
     1530Che rivale la chiamano
     E vincitrice spesso
     Della valle di Tempi.