Saggi poetici (Kulmann)/Parte seconda/La festa
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LA FESTA
«A me ne vieni, o ospite,
Già da gran tempo, mio!
Collo stranier ben giungi
Che ne invïar gli Dei!
5Or la festa incomincia:
Senza frappor dimora,
Io al tempio di Elisa
Scorta sarovvi in mezzo
Al bosco a lei sacrato.»
10Uom che in la valle alberga
Sì disse allo straniero
Che lo stranier guidava.
E in un benigno e pronto
Allo stranier rivolto
15Così parlò: «Gli Dei
Gioiscon, quando l’uomo
Con grato core onora
E fra i paterni Lari
Accoglie quei che il resero
20Co’ beneficj lieto.
Così dagli avi nostri
Fu posta in questo tempio
L’immagine d’Elisa
Con i sacri attributi
25Dell’alma, all’uomo fausta
Cerere, e ’n grato dono
Le primizie le offriano
Delle mature messi....
Ecco già l’armonioso
30Coro principia l’inno.»
Nelle dorate stanze
Dell’Olimpo beato
Regna ben spesso il pianto,
Qual regna sotto il tetto
35Del misero mortal.
Nè lo splendor dell’ostro,
Nè le affollate feste,
Nè scelti amici ponno
Madre de’ figli orbata
40Nel suo dolor frenar.
Al di lei sguardo appare
La rubiconda aurora
In negro velo avvolta,
Del sorridente sole
45L’addio la fa tremar.
Sol della notte l’atre
Tenebre le son grate,
E ’l sepolcral silenzio
Dell’Universo intero,
50Che rispetta il suo duol.
Nei sogni e nelle veglie
A lei dinanzi ognora
Sta l’ombra della prole,
Che le sorride e brama
55L’affanno suo placar.
Solinga col suo duolo
Cerere sta lontana
Da’ Numi e da’ mortali:
Geme la terra esposta
60Della fame agli orror.
Disse Cerere all’Ombra:
«Non lascerotti io mai,
Tu nel materno core
Eterna vivi; io voglio
65L’uman seme salvar.
E percorrendo l’Orbe,
Ella dall’ampio corno
Spande nuove auree messi:
Ha il sorriso sul labro,
70Sta sulla fronte il duol.
Discesa in questa valle
Ed arida e sassosa,
Ella fa segno al monte:
E subito riversa
75Un lieto fiumicel.
E nol cedè la valle
Poch’anni dopo a Tempe.
Casa a casa si giunse
Qui sull’errante rio,
80Là sul declive suol.
Ecco selvaggie capre
Saltar di rupe in rupe,
E stuol di neri armenti
O pecorelle bianche
85Coprire ’l verde pian.
Alzò Riconoscenza
Al Nume questo tempio,
Che poi la man dell’Arte
Con leggiadre colonne
90E con intagli ornò.
L’arte emulò natura,
Le colonne cingendo
Di serpeggianti fiori,
Che all’ara della Dea
95Formaro un tetto alfin.
Fersi ogni anno più liete
Le feste della valle,
E per goderne anch’esso,
Dalle valli vicine
100Venía l’abitator.
Salve, benigna Dea,
Cerere creatrice
D’ogni nostra ventura!
Ovunque splende intorno
105La traccia de’ tuoi don.
Ascolta i nostri canti,
Ricevi l’umil dono
Da grato core offerto!
Fra noi, per te felici,
110Piacciati rimaner!
Ecco s’aduna un coro
Di vergini vezzose
Sulla fiorita erbetta
Che, dirimpetto al tempio
115Serve alle sacre danze.
Senza l’altiero suono
Del liuto a Febo sacro,
Senza l’umile avena
Da Minerva diletta,
120Quella placida turba
In un e balla e canta,
Figurando l’istessa
Vaga ed antica danza,
Che ’l dì del rapimento
125Proserpina eseguia
Colle dolci compagne
D’Enna là nella valle.
Ogni fonte di gioja
Seccò nel cor materno,
130Eccettone sol una:
L’eterna rimembranza
In un dolce e acerba
Della perduta prole.
Danzando intuona il coro
135Quell’inno antico a Flora:
Come l’aurore estive
Somigliando fra loro,
Per te tra lor somigliano
In secoli così.
140Noi, della terra figlie,
Quali terrestri fiori,
Per sempre colla state
Perdiamo la beltà.
Non già chiediamo, o Diva,
145A te beltade eterna,
Ma sol che lieta scorra
La nostra gioventù.
Cessò la danza e il canto:
Chiamano gli abitanti
150Della valle a lieta
E ricca mensa l’ospite
O lo stranier, da’ Numi
Mandato lor quel giorno.
Allor che soddisfatta
155Fu l’importuna fame,
Le numerose turbe
S’adunaro di nuovo
In ordine solenne
Per visitare il vago
160Boschetto, che da tempo
Immemorabil porta
Il nome di Palagio
Boscareccio d’Elisa.
Là ’ve dall’alta cima
165Degli scoscesi sassi
Figlio dell’arte, il fiume
Strepitoso discende,
Qual immensa colonna
Di lucido diamante,
170Nell’olezzante valle;
Poi, colorita nebbia,
Lento lento rimonta
Là donde rovesciava:
Vicino alla caduta,
175E in mezzo alle già chete
E chiare onde, che quivi
Momentanee due braccia
Formano, giace vaga,
Mirabile isoletta.
180Egli fu là, ch’Elisa
Ne’ secoli trascorsi
Pensierosa si stava,
Gli occhi pieni di pianto,
Bramando dare aita
185Ai miseri abitanti,
«Qui gli avi nostri (disse
L’uom che in la valle alberga
Al giovine straniero)
Molte quercie piantaro
190Che otto lati formavano.
I nepoti imitaro
L’esempio lor, piantando
Intorno all’alte quercie,
In guisa di vastissime
195Quadrangolari stanze,
I platani frondosi,
E nominaro il tutto
Il Palagio di Elisa.
Ecco la celebrante
200Turba al sinistro braccio
Di bipartito fiume.
Sovr’amendue le sponde
Sorgono otto vetuste
Quercie enormi, dagli anni
205Più teneri piegate
Tutte a curvarsi in arco
Acciò che le lor cime
S’incontrino sull’onde.
Già da secoli formano
210Vago ridente ponte,
A sostener capace
Mille e mille viandanti.
Il varca, e tosto innanzi
Sta l’innumera turba
215Rimpetto a gigantesca
Mole quadrangolare
Di vivace verzura:
Che tale si presenta
La dimora d’Elisa.
220Sovra l’immensa mole
S’alzano torreggianti
Le cime delle quercie
Chè ne formano il centro,
Quale superba volta
225Ch’or le mobili nubi,
Ch’or non commosse cingono
Al par d’immenso velo.
Dinanzi alla dimora
Pompeggiano tre file
230D’altifrondose piante
Dall’argentina scorza,
Quale vezzoso portico,
Che i pellegrini guida
All’atrio del Palagio.
235Qui le rustiche mura
Son vestite da bianchi
E rosei ed azzurini
Gelsomini fiorenti.
Da quest’amena stanza
240Un andito coperto
Conduce ad una sala
Ch’ha nome Sala d’oro.
Là ricuoprono il piano,
Del suol spontanei figli,
245Splendidi girasoli
Coi loro scudi aurati
E l’altere figliuole
Del lontano Taigeto,
Tutte topazi ed oro,
250Miste alle tue nepoti,
Stanza de’ Numi, o Olimpo!
Dalla valle nativa
Un cacciatore ardito,
Cui infiammarono l’alma
255I racconti di tante
Meraviglie stupende,
Onde ’l Sovran de’ monti
L’Olimpo va superbo,
Partio per ammirarne
260Cogli occhi proprj tutte
L’altissime sue cime
Coronate di neve,
Ed i zampilli innumeri
Che sonanti discendono
265Dalle pendici o verdi
O nude o rivestite
Dal sempre vivo musco
A provar ch’egli ascese
L’inaccessibil’arduo
270Monte, da ognun temuto,
Un aquilotto ei tolse
Ch’era nel nido, e vago
Fiorellino che sembra
Purissim’auro e terso,
275Ipericon nomato
Dagli incoli del monte.
Quel fiorellin fu padre
A quei tanti che vedi
In questa sala sparsi
280Gli alti platani ombrosi
Che le mura qui formano,
Sono avvolti da viti,
Che serpeggianti vanno
Sino ai rami più alti
285Donde, qual aurei fiocchi,
Pendon le uve mature.
Anche nell’altre sale
Veggonsi viti avvolte
De’ platani al gran tronco
290Ma in ognuna di loro
Cangia il color dell’uve,
E ’l nome della sala
È conforme al colore.
Altro vial coperto
295Conduce ad altra sala
Che violetta si noma.
Ognun che in quella stanza
Il primo passo muove,
Involontario grida:
300«Ecco un campo di viole!
Forse qui nel dominio
Siam di Pallade, ch’ama
A ornar di viole ’l capo?»
Allo spuntar dell’alba
305Qui gran numero adunasi
Di vaghi pettorossi;
Essi beono la fresca
Abbondante rugiada,
Che lor presenta il nitido
310Calice di que’ fiori,
Allorquando ogni giorno
Il mattutino vento,
Figlio del monte, spinge
La densissima nebbia
315Ch’ognor qual mobil velo,
Sulla cascata pende,
Ver la real dimora.
Sovra l’immensa, a prato
Etereo somigliante,
320Verdeggïante mole
Ei dolcemente spinge
La rugiadosa nube
Che a poco a poco in pioggia
Finissima dissolvesi,
325E cadendo ravviva
Il sottoposto suolo.
S’apre all’avido sguardo
Dei pellegrin divoti
La bella rosea sala,
330Della Reina il bagno.
Qui l’unica sorgente
Della valle si trova,
Che ne’ trascorsi tempi
Ai miseri abitanti
335Estingueva la sete.
Non immemori questi,
In tempi più felici,
Del fonte che a’ lor avi
Benefattor fu oscuro,
340Lo cinsero con siepe
Di vaghissime rose,
Con dittamo frammiste,
Che i natali sortiva
Di Creta, cuna al Dio
345De’ nembi adunator.
Ve’ la sala del trono!
Meravigliosa al guardo!
E più belle e più grandi
Qui dell’usato le uve
350Coll’azzurrine tinte
Le pareti circondano
Della stanza reale.
Da pianta a pianta pendono
Magnifici festoni
355Di fiorenti lïane,
Sovra a cui mille ondeggiano
Augellini canori,
Che quivi in lieta pace
State e verno si stanno.
360Innumere farfalle,
Di smeraldo vestite,
Di zaffiro e rubino,
Rotolando, girando,
Alzandosi e scendendo,
365Irrequïete passano
Da candidi giacinti
All’iride, del vago
Arcobaleno prole,
O alle figliuole belle
370Del Giorno e della Notte
Che in leggiadro disordine
Smaltano qui la terra.
In mezzo a questa sala,
Al muro orïentale,
375Sorge altissimo sasso
Dal musco rivestito.
Forse ne’ tempi antichi
Terremuoto staccollo
Dalla cima de’ monti;
380O della valle figlio,
Veggendo il mar furioso
Che seco strascinava
Tutta la terra intorno,
Sol resistere osava,
385E riman del comune
Eccidio solo avanzo.
Da quel sasso tu scorgi
Precipitarsi innanzi
La grandiosa caduta
390Del rimbombante fiume:
E ne’ più lunghi giorni
Di state, allor che ’l sole
Maestoso discende
Fra le cerulee cime
395Del sereno Parnasso,
Il suo splendido raggio,
Attraversando il velo
Che gocciolando sempre
Sulla caduta pende,
400Qui fa veder nell’aria,
Al di sopra del sasso,
Magnifico diadema
Che dell’arcobaleno
Tutte le tinte spiega,
405Onde fu detto il sasso
Della Regina il trono....
«Forse noi nel giardino
Dell’Esperidi entrammo?»
L’un all’altro richiede
410Entrando nella bianca
Gentilissima Sala.
Sovr’arbusti che pari
Per l’olezzo non hanno,
E che tra fiori argentei
415Aurei frutti dispiegano
Sotto l’ombra degli alti
Platani carchi d’uve,
Gran numero d’augelli,
A cui l’Esperia prole
420Diede voce sonora,
Animano la sala
Con melodioso canto
E col volar continuo
D’un arboscello all’altro...
425«Pian piano!» bisbigliando
Sotto voce l’un 1° altro
Esorta nell’entrare
Nell’alma sesta sala
Ch’è tutta lucid’ostro.
430«Qui si nascose Aurora
La presenza schivando
Dell’importuno Febo.
Ecco ’l purpureo velo
Alle piante sospeso
435Sino alla tarda sera;
Ecco i bei rosei serti
Che le ornavano ’l biondo
All’aura sparso crine,
E che gittò fuggendo!»
440Passano i pellegrini
Nell’ultima gran sala.
Regna qui parca luce,
Simíle a chiara notte
Estiva, ch’abbellisce
445Rinascente la luna.
Non è vuoto qui ’l centro
Come nell’altre sale.
Le venerande teste
Qui maestosamente
450Alzano al cielo, e intorno
Diffondono freschezza
E placido riposo:
Sono le sole piante,
Che nella valle allignino.
455Ne’ secoli, trascorsi
In povertade acerba,
Esse l’unico asilo
Furono contro i fuochi
Dell’ardente canicola.
460Qui sotto all’ombra loro
Celebravansi tutte
Le feste della valle;
L’arrivo dell’incerta
E breve primavera;
465Il men grato ritorno
Della cocente state;
La venuta d’autunno
Poco fido e mutabile
Con mezzo vuoto corno.
470Ora, da parecchi anni,
Due usignuol romiti
L’ombra grata di queste
Piante vetuste avvivano
Con i lor canti, scevri
475D’ambizioso orgoglio.
Nacque l’un di costoro
Presso alla sacra tomba
D’Orfeo, dai Numi amato.
Dalla tenera etade
480Più vicino vivendo
All’irradiante Olimpo
Che del soggiorno, ognora
Di nuvole velato
Dei miseri mortali,
485Ei di buon’ora sciolse
L’anima dai piaceri
E dagli affanni umani,
Consacrando al cantare
L’avanzo d’una vita
490Benefica e modesta,
Nascosta sì, ma invano
Essa alla gloria involasi,
Che di raggi immortali
La cingerà per certo.
495Tosto che qui la dolce
Voce sua si diffonde,
Cadono le catene
Onde l’alma va carca,
E più libero il petto
500L’aura celeste aspira:
E se cessa il soave
E sublime suo canto,
L’amenissima voce
Lungo risuona ancora
505Nell’intimo del core.
Ecco l’adito s’apre
Del santuario istesso!
Oh vista celestiale!
Egli non son pompose
510Lunghissime ghirlande,
A numerose schiere
Con dotta mano appese,
Ch’ornino questo tempio
Onde l’alma è stupita:
515Qui il magico splendore
D’otto superbe mura,
Da mille e mille fiori
I più vaghi coperte,
Ammaliano gli sguardi.
520Dinanzi ad ogni muro
Colonnate pompeggiano
Dal plinto al capitello
O di rose o di gigli,
D’iridi o di giacinti.
525Prodigamente avvolte,
Poste le colonnate
Dello stesso colore
Sempre si trovan l’una
Rimpetto all’altra, ed hanno
530I capitelli adorni
Dalle più vive tinte:
Contrasta l’architrave,
Tutto tutto vestito
Da scabïose brune:
535Sopra di lui riposa
Il bianchissimo fregio
Con azzurrine stelle:
Mescolanza stupenda
De’ più splendidi fiori,
540Grandïosa ed ardita
L’altissima cornice
All’etera si lancia.
Sorge, nel centro al vasto
Meraviglioso tempio,
545Alta selvaggia rupe
Ruvida e disamena,
Anche di musco nuda,
Onde Natura veste
Il più romito sasso:
550Anzi qua e là si mira
Nera profonda traccia
Di folgore caduto.
A questa rupe in cima
Alzasi, figurata
555Quale Iride, l’immago
Della reale Elisa.
Quale dell’etra azzurra,
Mediatrice benigna
Tra i Numi ed i mortali,
560Talora Iride scende
Ad annunziar la fine
Dell’ira dell’immoto
Inesorabil Fato;
Tale la man dell’arte
565Rappresentava Elisa,
Unendo nello sguardo
Con maestà divina
Che rispetto comanda,
Un sorriso celeste
570Che nell’anime afflitte,
Che abbandonò la speme.
Lume e vita diffonde
E involontaria gioja.
Ecco cento fanciulle
575In bianche vestimenta
E con azzurri veli
Circondar l’alta effigie,
E la voce sonora
Così sciogliere al canto:
580Infin che l’ape il mele
Qui apprestare non cessi,
Infin che della quaglia
S’oda il canto nel pian;
In questa lieta valle
585Di te, che sola festi
I giorni suoi felici,
Le laudi s’udiran.
Simíle ai Dei, scorgesti
Il presente e il futuro,
590E provida creasti
Nostra felicità.
Desti ai pastor gli armenti
Desti ai cultor la messe,
La fresca e forte etade
595Ti dee suoi lieti dì.
Una Fanciulla.
Sanguinolenta guerra
Il genitor mi tolse,
Dolor non mai sopito
La madre mi rapì.
600Altri infelici meco
Il pane lor spartíro,
Finché con man pietosa
Ne sollevasti tu!
Un’altra Fanciulla.
Io giacea senza speme
605A crudo duolo in preda.
Lo sguardo degli astanti
Misto al muto dolor,
Il pianto della madre
La morte m’annunciava:
610Soccorso tu mi desti,
La mia vita tornò.
Una terza Fanciulla
Ed un pastore ardito,
Varcato l’orbe intero
A Delfo giunse, dove
615Ha la terra confin:
Ch’oltre a quel nell’abisso
Che il sole non rischiara
Nè la variabil Luna,
La negra notte sta.
620Ei conoscea de’ popoli
E gli usi e la favella,
E con paziente zelo
Tutte me l’insegnò.
Elisa un dì, veduti
625Del mio lavoro i frutti,
Questa che gli occhi ammirano
Gemma gentil donò.
Coro.
Infin che l’ape il mele
Qui apprestare non cessi,
630Infin che della quaglia
S’oda il canto nel pian;
In questa lieta valle
Di te, che solo festi
I giorni suoi felici,
635Le laudi s’udiran.
Simíle ai Dei, scorgesti
Il presente e il futuro,
E provida creasti
Nostra felicità.
640Desti ai pastor gli armenti,
Desti ai cultor la messe,
La fresca e forte etade
Ti dee suoi lieti dì.